5. Il problema metrico
5.1. Semantica di rima
La seconda divisione della Poetica inizia con una dettagliata e scrupolosa definizione di rima, termine che delimita il campo di indagine della divisione stessa1. Trissino mette subito in chiaro che l’accezione primaria del termine da lui utilizzata è quella che corrisponde al greco ‘rithmo’ (ῥυθμὸς) e al latino numerus, e facendo questo si richiama all’autorità di Cicerone, Dante e Antonio da Tempo. Aristotele non viene qui chiamato in causa, dal momento che la trattazione del ῥυθμὸς che lo Stagirita affida alla Poetica è funzionale a una sua collocazione all’interno del sistema poetico piuttosto che alla sua effettiva definizione, e a questo Trissino si è già dedicato all’inizio della prima divisione.
Trissino adduce tre prove in favore dell’identificazione fra rima, rithmo e numero: La testimonianza esplicita di Cicerone sull’equivalenza di numerus e ῥυθμὸς2.
Il fatto che tanto Dante quanto Antonio da Tempo designino la ‘rima’ mediante il grecismo rithmus3.
L’analogia istituita da Antonio da Tempo fra ritmo latino (rithimus literalis) e volgare (rithimus vulgaris)4.
Il contenitore rithimus literalis utilizzato da Antonio da Tempo è frutto di uno slittamento semantico molto comune nella latinità postclassica. Per i grammatici latini l’aggettivo lit(t)eralis, in quanto denominativo di littera, fa riferimento a tutto ciò che riguarda la vox articulata, le componenti segniche di qualsiasi atto linguistico5. Con lo sdoppiamento del sistema linguistico cagionato dal volgare e in seguito all’istituzionalizzazione, da parte di grammatici e retori, delle categorie descrittive e normative proprie del dictamen volgare modellate su quelle canoniche del latino, alcuni lessemi e sintagmi latini che originariamente designavano fenomeni e caratteri pertinenti al
1 Se si accetta la derivazione dal latino rhytmum, rima verrebbe a essere, insieme a rit(h)mo, un allotropo rispetto alla
base latina, a sua volta costituita da un grecismo. I principali trattatisti di poetica del Cinquecento preferiscono il latinismo puro numero (e l’aggettivo numeroso): cfr. Alessandro Lionardi, Dialoghi dell’invenzione poetica (1554), in WEINBERG
1970-74, II, p. 257; Giovambattista Giraldi Cinzio, Lettera a Bernardo Tasso sulla poesia epica (1557), in WEINBERG
1970-74, II, pp. 465 e 473; PARTENIO 1560, p. 178. Girolamo Muzio, nell’Arte poetica (1561) parla di «numeri di rime» (cfr. WEINBERG 1970-74, II, p. 173); Benedetto Varchi, nelle sue postume Lezioni della poetica, oscilla fra ritmo e numero (VARCHI 1590, pp. 636 sg.); Antonio Minturno, nell’Arte poetica, fra tempo e numero (MINTURNO 1563, p. 354). Si ricordi anche la definizione bembiana di numero: «il […] numero altro non è che il tempo che alle sillabe si dà, o lungo o brieve, ora per opera delle lettere che fanno le sillabe, ora per cagione degli accenti che si danno alle parole; e tale volta e per l’un conto e per l’altro» (POZZI 1978, p. 143).
2 Cfr. Orat. 67: «Quicquid est enim quod sub aurium mensuram aliquam cadit, etiam si abest a versu […] numerus
vocatur, qui Graece ῥυθμὸς dicitur» («Tutto ciò che può essere misurato dalle orecchie, anche se non è verso […], è chiamato ritmo, e in greco ῥυθμὸς». Trad. Giuseppe Norcio).
3 Cfr. DVE II IX 5 e passim; Summa II e passim.
4 Cfr. Summa II 45: «Et eadem diffinitio [scil. literalis rithimi] cadit in quolibet vulgari rithimo».
5 Cfr. Diom. I 420, 12: «vox articulata et litteralis vel scriptilis appellatur, quia litteris comprehendi potest»; 421, 10
sg.: «artium genera sunt plura, quarum grammatice sola litteralis est […]; idcirco litteralis dicta, quod a litteris incipiat»; Mar. Victorin. VI 4, 22: «alii eam vocem, quae dicitur in usu articularis, litteralem dixerunt, ut nomina, verba eqs.»; Prisc. II 44, 5 e passim.
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linguaggio in generale (che corrispondeva, di fatto, alla ‘lingua particolare’ latina, non potendo darsi relazione oppositiva1) sono trasferiti alla sfera referenziale del latino, lasciando un vuoto per il
volgare, che andava colmato con nuove etichette. Così il determinativo lit(t)eralis, di volta in volta applicato a dictamen, rithimus e a tutto quel che concerne la composizione verbale, ha acquisito il valore semantico di ‘latino’, in opposizione a vulgaris2.
L’atteggiamento di Trissino di fronte a questa situazione non è univoco. Se, infatti, egli mostra in un primo momento di accogliere l’accezione seriore dell’aggettivo («essω Antoniω afferma che la diffiniziωne, la quale elji fa de ʼl rithmω litterale (ché cωsì nomina il latinω) cade in ogni rima vωlgare»3), subito dopo leggiamo:
Ma iω, prima che la diffiniziωne de ʼl rithmω distεnda, voljω che sia notω che il rithmω de ʼl quale iω parlω ὲ il rithmω de ʼl vεrsω, overω de la vωce articulata; percioché rithmω ὲ anchωra quellω che risulta da ʼl danzare cωn ragiωne ε da ʼl sωnare ε cantare; il che vωlgarmente si kiama miʃura ε tεmpω. Il rithmω, adunque, de la vωce articulata ὲ una risωnanzia che risulta da cεrta quantità ε qualità di syllabe, cωn ragiωne poste insiεme ε cωn ragiωne terminate (Poetica, pp. XIv sg.).
Trissino restringe qui il campo di indagine dal ritmo in generale, proprio di qualsiasi manifestazione sensoriale di natura periodica, al ritmo verbale, quello del verso o della ‘voce articulata’ (la vox articulata dei grammatici, sinonimo di vox litteralis4). La sovrapposizione con il
rithimus literalis di Antonio da Tempo è manifesta nel momento in cui ci si rende conto che la definizione trissiniana del ritmo verbale non è altro che una traduzione della definizione tempiana dello stesso rithimus literalis:
Il rithmω, adunque, de la vωce articulata ὲ una risωnanzia che risulta da cεrta quantità ε qualità di syllabe, cωn ragiωne poste insiεme ε cωn ragiωne terminate.
1 La presenza del greco non è significativa in questo senso, in quanto per i grammatici latini la lingua madre istituiva
un rapporto analogico-derivativo, piuttosto che oppositivo, con le categorie teoriche del greco.
2 Si veda anche Benvenuto da Imola, Comentum ad Purg. XXIV 54: «Et heic nota, quod olim fuit solummodo dictamen
literale tam in prosa quam in metro. Postea forte a ducentis annis citra inventum est dictamen vulgare».
3 Poetica, p. XIv.
4 Cfr. Donato, Ars grammatica (KEIL 1961, IV, p. 367: «Omnis vox aut articulata est aut confusa. Articulata est quae
litteris comprehendi potest»). Diversa l’accezione conferita al sintagma da Prisciano, che lo distingue da vox literata: a differenza di quest’ultima, così definita in virtù della sua natura articolatoria, la vox articulata è tale in quanto segno portatore di significato (KEIL 1961, II, p. 5: «articulata [scil. vox] est, quae coartata, hoc est copulata cum aliquo sensu mentis eius, qui loquitur, profertur»). Trissino rifiuta apertamente questa accezione dei Dubbî grammaticali: «Εt ὲ da sapere che lj’ antiqui chiamωrωnω ‘vωci articulate’ le parole humane nωn, cωme dice Priʃcianω, perché siano applicate ad alcuna intenziωne de la mente di cωlui che la prωferiʃce, ma perciò che a fωrmare esse si cωngiungωnω ε s’annodanω insiεme alcune distinziωni εt inflexiωni di vωce, ciascuna de le quali si può dire che ὲ un nodω overω articulω il quale da i grammatici ὲ dettω ‘εlementω’» (TRISSINO 1986, p. 88). Per la distinzione fra vox literata (o literalis) e vox confusa nella teoria grammaticale medievale si veda PAZZAGLIA 1967, p. 64.
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[…] literalis rithimus […] est consonans paritas sillabarum certo numero comprehensarum1.
Da qui si desume che, secondo Trissino, paritas sillabarum indica una conformazione regolata secondo uno schema seriale, realizzantesi attraverso la disposizione delle sillabe in base alle loro caratteristiche prosodiche («cεrta quantità ε qualità di syllabe»), e la cui coerenza è controverificata dalla prova aurale (consonans = «risωnanzia»). Lo schema assume di volta in volta conformazioni diverse in base al metro adottato (certo numero = «cωn ragiωne»), al quale la disposizione stessa delle sillabe si adegua (comprehensarum = «poste insiεme ε […] terminate»)2. Le possibilità combinatorie rappresentate da queste conformazioni sono estremamente variegate:
[…] cω ʼl variare de la quantità ε qualità de le syllabe, ε mutare la ragiωne de ʼl ponerle insiεme, ε terminarle, si varia anchωra il rithmω, il quale naʃce sεmpre da quelle, sεndω però divεrsω da lωrω; sì cωme di una quantità di legni, a cεrta guiʃa lavωrati ε cωn cεrta ragiωne posti insiεme, si fa una galεa; ma ad un’altra, ε cωn altra ragiωne, si farà una nave; εt ad un’altra unω grippω; le cui fωrme quantunque dipεndanω da la quantità, qualità εt ωrdinaziωne di detti legnami, sωnω però coʃa divεrsa da essi (Poetica, p. XIIr).
Il paragone con il processo di costruzione delle navi è già in Bembo3, che a sua volta desume l’immagine da Dionigi d’Alicarnasso4 connettendola alla creazione poetica in generale e alla
compositio verborum. Anche Bembo individua tre fasi distinte, sulla scorta della tripartizione quintilianea della compositio in ordo, coniunctio e numerus5.
A questo punto Trissino introduce un’ulteriore distinzione, interna al rithimus vulgaris: esiste una doppia accezione di rima, quella che oggi corrisponde a ciò che si intende per ‘ritmo’ e quella, già predominante a quell’altezza cronologica, di consonanza di due o più parole a partire dalla vocale tonica6:
1 Summa II 43 sg.
2 Ma cfr. PAZZAGLIA 1989, p. 31: «Antonio applica […] alla poesia volgare la definizione del rithimus literalis, e cioè
della poesia ritmica latina medievale, nettamente distinta da quella quantitativa di imitazione classica: “consona paritas sillabarum certo numero comprehensarum”, che tradurremo in parte con una parafrasi: un rapportare in identità di rima gruppi sillabico-versali di quantità aritmetica fissata sistematicamente». Cfr. anche PAZZAGLIA 1978, pp. 212-214, 218. In realtà una traduzione più letterale della definizione di Antonio da Tempo è fornita da Trissino poco più avanti (p. XIIr): «[…] ’l rithmω ὲ una cωnsωnante parità di syllabe, da cεrtω numerω cωmpreʃe». Così commenta Trissino di seguito: «la quale cωmeché nωn sia perfεtta diffiniziωne, pur da la nostra nωn si discorda».
3 Cfr. POZZI 1978, pp. 124 sg.
4 Cfr. Comp. VI 2-3. Cfr. DONADI 1990, pp. 51 sg. 5 Cfr. Quint. Inst. IX, 4, 147.
6 Cfr. MARI 1899b, p. 38; PROTO 1905, pp. 15-17; PAZZAGLIA 1989, pp. 30-33; DANIELE 1994, p. 130; MARCATO
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Hora qui alcunω pωtrεbbe dubitare ε dire che la predetta diffiniziωne che ho fatta de ʼl rithmω nωn si cωnviεne a le rime italiane, cωnciò sia che le rime se intεndenω, per ogniunω, le deʃinεnzie sωle de i vεrsi (Poetica, p. XIIr).
Lo sdoppiamento, avverte Trissino, era già operativo in Dante e Antonio da Tempo: quest’ultimo in particolare non è affatto sistematico nell’assegnare un contenitore per ogni significato1, mentre
Dante usa, nel De vulgari eloquentia, il termine rithimus sempre nel significato di ‘rima’ secondo l’accezione corrente2. Tuttavia, è lo stesso Dante a formulare esplicitamente, per la prima volta, la
dicotomia semantica di rima, nel noto passo del Convivio:
E prometto di trattare di questa materia «con rima aspra e sottile». Per che sapere si conviene che
rima si può doppiamente considerare, cioè largamente e strettamente: strettamente s’intende pur
per quella concordanza che nell’ultima e penultima sillaba fare si suole; quando largamente s’intende, s’intende per tutto quel parlare che in numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade3.
La confusione deriva dal diverso significato che al termine rithimus veniva assegnato dalle artes mediolatine: se le cosiddette artes exametri lo utilizzavano nel senso corrente di ‘rima’, le artes rithmicae vi intendevano l’intero verso o frase ritmica, mentre chiamavano la rima consonantia4. Trissino mostra di non avere interesse a introdurre un uso più razionale e coerente del lessico tecnico a sua disposizione, spinto dall’uso delle sue auctoritates e da una constatazione di ‘normalità’ delle oscillazioni semantiche nella lingua d’uso:
[…] lji antiqui nωn piljavanω le rime per le deʃinεnzie sωle, ma per quellω che resulta da alcuni vεrsi cωn cεrta ragiωne fatti ε terminati εt insiεme posti εt accωrdati5 […]. Verω ὲ che essω
1 Antonio usa indifferentemente rithimus e consonantia nell’accezione di ‘rima’. Per una dettagliata discussione sul
valore conferito da Antonio a queste etichette cfr. PAZZAGLIA 1978, pp. 213-221. Diverso l’atteggiamento di Gidino da Sommacampagna, che assegna a rithimo il significato di ‘verso’, mentre a consonancia quello di ‘rima’, soluzione «da cui si deduce l’impegno di Gidino nel delimitare i confini di un surplus terminologico che poteva creare non pochi fraintendimenti a quel pubblico inesperto a cui intendeva rivolgere il Trattato» (Gabriella Milan in GIDINO DA
SOMMACAMPAGNA 1993, p. 46).
2 Cfr. Mirko Tavoni in DANTE 2011, p. 1486. 3 Cv IV II 12. Cfr. PAZZAGLIA 1989, p. 30.
4 Cfr. MARI 1899b, p. 17; PROTO 1905, p. 15; Mirko Tavoni in DANTE 2011, p. 1486. Per la differenza fra artes
exametri e artes rithmicae, cfr. MARI 1899b, pp. 12 sg.: «Alle due diverse tradizioni ritmiche che si vedevano, la grammaticale e la musicale, corrispondono due differenti generi di Artes. Alcune infatti, essenzialmente dotte, trattarono dell’esametro o del distico rimato; per brevità le chiameremo Artes Exametri […]. Altre segnano un passo in avanti verso qualche cosa di più lontano dalla classicità e diedero le leggi del verso veramente ritmico: sono quelle che vediamo intitolarsi Artes Rithmici o Rithimici Dictaminis o più brevemente Artes Rithmicae». Sul concetto di ritmo nelle artes
dictandi mediolatine si veda anche PAZZAGLIA 1967, pp. 82-87.
5 Ignorata deliberatamente la testimonianza esplicita del Convivio, Trissino si affida, per dimostrare la presenza
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Antoniω poi ε Dante in alcuni luoghi kiaramente kiamanω rime le deʃinεnzie sωle, il che hoggidì universalmente si fa; percioché, sì cωme si dimanda lεttω quellω che risulta da la lettiεra, da ʼl paljarizω, da la culcitra1, da le lenzuola ε da la cωpεrta, tutte insiεme secωndω una cεrta ragiωne ωrdinate; εt anchωra la culcitra sωla si dimanda particularmente lεttω, cωme parte più sustanziale de ʼl lεttω; cωsì quellω che risulta da i vεrsi ε da le deʃinεnzie lωrω, cωn ragiωne poste insiεme εt accωrdate, kiameremω rime; εt anchωra le deʃinεnzie sωle, cωme principal parte d’accωrdare, per rime alcuna volta nωmineremω (Poetica, p. XIIr sg.).
Alla stessa conclusione perviene Minturno2, sebbene faccia mostra di usare più volentieri il termine consonanza per l’accezione corrente di rima3, fra l’altro più pertinente del trissiniano
desinenzia, che indica più propriamente la parte finale del verso, eventualmente in rima. Più drastico Girolamo Muzio, il quale, coniando nella sua Arte poetica il sintagma «rime senza rime» (1078) per designare i versi sciolti, porta alle estreme conseguenze la duplicità semantica del lessema. Anche Vincenzo Maggi, nel suo commento alla Poetica di Aristotele, si interroga sulla questione, chiamando in causa l’uso che del termine viene fatto in Dante, Antonio da Tempo e Bembo. La discussione verte in buona sostanza sul quesito se la rima vada posta sotto il dominio del rhytmus o dell’harmonia, e la risposta è che debba considerarsi egualmente spartita fra i due ambiti proprio in virtù della doppia accezione: se quella estensiva la fa cadere sotto il rhytmus, quella coincidente con la consonantia la rende partecipe dell’harmonia4. Secondo una corrente teorica non trascurabile, dunque, al ritmo
competerebbero i tempi del verso e all’armonia la rima5, idea che sembra doversi mettere in relazione
particolare uno di Dante, proprio dal Convivio (IV, canz. III 1: «Le dolci rime d’amor, ch’io solia») e uno di Petrarca (RVF CCCXXXIII 1: «Ite rime dolenti al duro sasso»). Lo stesso farà Minturno nell’Arte poetica, servendosi di altri esempi: «Io non credo che ’l Petrarca, quando disse “In rime sparso il suono”, l’ultime voci sole intendesse, e non tutti i versi intieri. Anzi, mi si fa credere che, dicendo egli “Hor rime, hor versi, hor colgo herbete e fiori”, e “Piangan le rime anchor, piangano i versi”, e “Che non curò giamai rime né versi”, per li versi i latini, e per le rime i volgari componimenti sotto certo numero di syllabe compresi e limitati intendesse» (MINTURNO 1563, p. 356. Cfr. anche p. 357). Si noti la stessa definizione di ritmo desunta da Antonio da Tempo.
1 Il cuscino. È termine latino, attestato negli antichi volgari perlopiù nella forma colcera o colcedra con il significato
di ‘coperta’, ‘materasso’ o ‘cuscino’ (cfr. TLIO, s. v. colcedra). Non ho trovato traccia di attestazioni nel significato esteso per sineddoche di cui parla Trissino.
2 Cfr. MINTURNO 1563, p. 357: «È il vero che […] quei numeri di voci concordanti, che da’ Greci rhythmi si diceano,
rime corrottamente prima da’ barbari, e poi da’ nostri essendo detti; rime anco si dissero i versi, i quali di tali consonanze
s’adornano. Ma, percioché il numero e l’harmonia s’è conchiuso che in tutto il verso, et in tutte le parti di lui si truova, non veggio perché solamente rime dirsi debbano questi ne’ quali l’ultime parole s’accordano. E se pur questi propriamente volete che rime si dicano, percioché delle consonanze ricevon gratia et ornamento e legame […], non però seguita che tal nome quelli non meritino».
3 Cfr. MINTURNO 1563, p. 356: «Considerasi il verso in due maniere, cioè in sé stesso, e nel riguardo dell’uno all’altro.
In questa maniera s’attende il numero delle consonanze, il qual porta seco tanto diletto, ch’alcuni dicono la consonanza esser l’anima delle rime».
4 Cfr. MAGGI-LOMBARDI 1550, pp. 47 sg. Nel commentare questo passaggio, Alessandro Piccolomini complica
ulteriormente le cose: «[…] stimo che la rima non sia altro ch’una simil rispondentia di suono, cagionata dal ritmo et dall’harmonia, che si truova nella medesima ultima sillaba di due parole» (PICCOLOMINI 1575, p. 12).
5 Cfr. DOLCE 2004, pp. 474 sg.: «[…] parendo al primo introduttore [scil. del verso volgare], che queste nuove forme
di versi, non potendo essi caminar con que’ piedi, onde caminavano i Latini, mancassero di dignità, e di vaghezza; presero cura di concordargli nel fine con certa conformità, e corrispondenza di voci, in due, overo in tre sillabe. Da che poscia ne
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con quella che vede nella differenza fra ritmo e armonia la stessa che corre fra istanza quantitativa e accentuativa del verso, dunque fra poesia classica e volgare.
Nell’accezione larga, rima non si identifica con il verso, ma il verso è una realizzazione spazialmente delimitata della rima, in quanto la rima rappresenta la risonanzia che risulta dalla successione ordinata dei tempi che formano i versi. Questo emerge con più chiarezza nella quinta divisione, dove Trissino, traducendo Aristotele, afferma che «i versi» sono «manifesto membro» delle rime1. Dunque il concetto può essere accostato con buona approssimazione a ciò che si intende correntemente per ‘ritmo’, in poesia come in qualsiasi altra manifestazione sensibile di natura periodica. Tuttavia l’identificazione fra ritmo/rima e verso, in quanto realizzazione concreta del ritmo (come anche fra rima e l’intero componimento), sorgeva abbastanza spontanea: di fatto fra i teorici del Cinquecento la distinzione è piuttosto debole. Di ritmo parla Francesco Patrizi, che nella sua Poetica lo definisce in generale «ordine della prestezza e tardità de’ moti concordanti insieme»2, mentre relativamente alla poesia afferma che esso ritmo, «perché cade ne’ moti tardi e veloci delle sillabe, e de’ piedi, e de’ versi, constituisce la prima spezie di ritmo, che il verso è, nel quale si confina la metrica poetica, o versificante»3. Questa definizione non è altro che una formulazione del concetto di ritmo quale si è imposto a partire da Platone: come è stato dimostrato da Benveniste, se originariamente il termine greco rappresentava l’idea di ‘forma’, non diversamente da σχῆμα,
Platone usa […] ῥυθμός nel senso di ‘forma distintiva, disposizione, proporzione’. Egli opera un’innovazione applicandolo alla forma del movimento che il corpo umano compie nella danza, e alla disposizione delle figure nelle quali si risolve questo movimento. La circostanza decisiva è appunto nella nozione di un ῥυθμός corporeo associato al μέτρον e sottomesso alla legge dei numeri: questa ‘forma’ è ormai determinata da una ‘misura’ e soggetta a un ordine. Ecco il nuovo significato di ῥυθμός: la ‘disposizione’ (senso proprio della parola) per Platone è costituita da una sequenza ordinata di movimenti lenti e rapidi, così come l’‘armonia’ risulta dall’alternarsi dell’acuto e del grave4.
nacque il nome rima. Percioche prendendosi rithmo appo Greci per quello, che appo Latini si prende numero, essi per rima, cioè numero, volsero dinotar l’harmonia, che da quelle corrispondenze nasceva, ristringendo questa voce semplicemente al significato dell’harmonia, che da’ numeri si forma, quantunque Antonio di Tempo diffinisca, rima essere una parità di sillabe da certo numero comprese: la qual diffinitione non fa alcuna distintion da quella sorte di versi sciolti, che è usata da alcun moderno: e la quale chi ancora havesse usata a que’ tempi, non sarebbe stato tenuto scrivere in rima».
1 Poetica 1562, p. 5v. Cfr. Aristot. Poet. 1448b 21 sg.: «τὰ γὰρ μέτρα ὅτι μόρια τῶν ῥυθμῶν ἐστι φανερόν». La stessa
affermazione in Rhet. 1408b 28 sg. Cfr. PROTO 1905, p. 16.
2 PATRIZI 1969-71, I, p. 310. 3 Ibid., p. 373.
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Di qui l’accezione aristotelica quale la si riscontra nella Poetica e nella Retorica1. Per Aristotele
il ῥυθμός si fonda sull’ἀριθμός, il numero (di qui il calco latino numerus), e la misura di esso numero, ovvero la delimitazione entro intervalli discreti (μέτρος) non è conditio sine qua non della sussistenza del ritmo. Posto che ogni cosa in natura è quantificabile, il numero che determina la forma (σχῆμα) della dizione verbale è il ῥυθμός2. Nella prospettiva marcatamente linguistica in cui si pongono i letterati del Cinquecento, la formulazione più spontanea del concetto di ritmo si spostava sul piano degli στοιχεῖα verbali, ovvero lettere e sillabe. Una conferma in questo senso poteva venire dalla definizione che del ritmo forniva uno dei capisaldi in materia di retorica e stilistica nel Rinascimento,