• Non ci sono risultati.

Il rapporto fra lunghezza sillabica e accento

5. Il problema metrico

5.2. Anatomia del verso: piedi, sillabe, lettere

5.2.2. Il rapporto fra lunghezza sillabica e accento

A questo punto occorre indagare le modalità con cui Trissino innesta nel sistema di piedi da lui elaborato lo schema tonico del volgare, ovvero la relazione che si instaura fra la lunghezza sillabica e l’accento. Per fare ciò è necessario capire in prima istanza cosa intende esattamente Trissino per lunghezza sillabica e accento.

Adunque, ad ogni syllaba, per εssere la prima εt indiviʃibile prωnunzia de la vωce articulata, accade l’accεntω; il quale accεntω si divide in tre parti, cioὲ in spiritω, in tεmpω εt in tωnω. I

1 Cfr. CARDUCCI 1881, p. 443: «Nella lingua italiana non ha dubbio veruno che il luogo del giambo greco prese

l’endecasillabo, che si usa, così corre egli in su la lingua altrui, senza essere sentito. Ma nel luogo dell’eroico, non è ancora venuto in questa lingua verso alcuno che sia creduto meritamente occupar quel luogo». Cfr. BORSETTO 1982, p. 105.

2 Cfr. ORLANDI 2005, p. 110; ARBIZZONI 2006, pp. 22 sg.

3 Cfr. Alberto Castelvecchi in TRISSINO 1986, p. XVI: «Il traguardo culturale […] era quello di una nuova Ellade: era

però un’Ellade da realizzarsi in forme italiane, e con cui si dava un rapporto non puramente ripetitivo di forme e concetti, ma analogico».

4 Cfr. MAZZONI 1587, p. 324: «[…] ciascuna parola d’una sillaba ha per lo più l’accento acuto, dico per lo più, perché

sono alcune voci monosillabe, disaccentate, che sono sostenute dall’accento della voce vicina, la qual cosa non fu dal Trissino conosciuta».

5 Cfr. infra.

154

spiriti sωnω dui, cioὲ tεnue εt haspiratω […]. I tεmpi parimente sωnω dui, cioὲ lungω ε briεve […]. I tωni poi sωnω tre, cioὲ grave, acutω ε circωnflεxω (Poetica, pp. XIIIr sg.).

Ciò che si intende comunemente con accento è quello che Trissino chiama tono, che ricade sotto il dominio dell’accento in senso lato insieme allo spirito, ovvero l’aspirazione, e il tempo, ovvero la lunghezza sillabica1. Si confronti con Prisciano:

Accidit unicuique syllabae tenor, spiritus, tempus, numerus literarum. Tenor acutus vel gravis vel circumflexus […]. Similiter spiritus asper vel lenis. Tempus unum vel duo vel etiam, ut quibusdam placet, unum semis vel duo semis et tria […]. Tamen in metro necesse est unamquamque syllabam vel unius vel duorum accipi temporum2.

Dunque per Trissino accento e lunghezza sono due caratteristiche intrinseche alla sillaba, sempre compresenti e indipendenti l’una dall’altra. In altre parole, non si dà qui relazione univoca di interscambiabilità: non è vero che a sillaba lunga corrisponde accento acuto e a sillaba breve accento grave. Questa relazione è data solo in via puramente astratta ed è adottata solo nel momento in cui entra in gioco la nomenclatura classica dei piedi volgari: un giambo italiano è così chiamato in quanto si assume in maniera del tutto convenzionale una corrispondenza fra lunghezza e tono che non ha alcun riscontro nella realtà fisica del ritmo verbale. Si legga con attenzione:

[…] sì cωme i Grεci εt i Latini fωrmavanω i lωrω piεdi di syllabe briεvi ε lunghe, cωsì nωi lji fωrmiamω di gravi εt acute; ε cωme essi facevanω che l’jambω havesse la prima briεve ε la secωnda lunga, cωsì nωi facemω che l’jambω habbia la prima grave ε la secωnda acuta (Poetica, p. XIVr).

L’uso del verbo ‘fare che’ denota chiaramente una convenzione arbitraria, che viene stipulata per comodità descrittiva ed esclude di fatto la vera lunghezza sillabica del volgare dalla teoria che si va sviluppando. Questo diventa ancora più manifesto se si considera il seguente passo:

1 Con il termine accento Trissino si riferisce qui a quelle che Isidoro chiama figurae accentuum, ovvero i segni

diacritici fonetici. Isidoro ne individuava dieci (cfr. Isid. Orig. I XIX): ὀξεῖα (accento acuto), βαρεῖα (accento grave), περισπωμένη (accento circonflesso), μακρός (tempo lungo), βραχύς (tempo breve), ὑφέν (congiunzione), diastole (distinzione), apostrophus (apostrofo), δασεῖα (spirito aspro), ψιλή (spirito dolce).

2 KEIL 1961, II, pp. 51, 53. ‘Ogni sillaba è provvista di tono, spirito, tempo e numero di lettere. Il tono è acuto, grave

o circonflesso […]. Lo spirito ancora è aspro o dolce. Il tempo è uno (breve) o due (lungo), o anche, come vorrebbero alcuni, uno e mezzo o due e mezzo e tre […]. Ma nel verso è necessario che ogni sillaba sia considerata di uno o di due tempi’. La definizione sarà ripresa, fra gli altri, da Vincenzo di Beauvais (cfr. PAZZAGLIA 1967, p. 64).

155

[…] sì cωme i Latini εt i Grεci gωvernavanω i lωrω pωεmi per i tεmpi, nωi, cωme vederemω, lji gωverniamω per li tωni; bεnché chiunque vωrrà cωnsiderare la lungheza ε brevità di alcune syllabe, cωsì gravi cωme acute, trarà mωlta utilità di tal coʃa ε darà mωltω ωrnamentω a li suoi pωεmi (Poetica, p. XIVr).

Il principio che sta alla base del metro volgare, dice Trissino, è il tono: la lunghezza non è metricamente distintiva, ma esiste, e può essere gestita con profitto dai poeti, in quanto la lunghezza delle sillabe, così gravi come acute, conferisce ornamento ai versi. Qui è sciolta ogni relazione diretta fra l’accento, strumento tecnico imprescindibile della composizione, e la lunghezza, artificio estetico facoltativo. Quest’ultima non sarà allora molto distante dal concetto di ‘spessezza’ sillabica di cui parla Bembo1. Per l’autore delle Prose2 la lunghezza della sillaba dipende in primo luogo dalla quantità e qualità di fonemi che la costituiscono. Il discorso sulla lunghezza è funzionale a una stilistica del verso piuttosto che all’elaborazione di precisi criteri composizionali: non si tratta della lunghezza intesa come qualità binaria dell’unità sillabica in quanto non ha nulla a che fare con la tonicità. La lunghezza bembiana è, in altre parole, un concetto prosodicamente irrilevante3. L’orizzonte in cui si colloca il pensiero di Bembo è talmente estraneo a una concezione sistematica dei dispositivi metrici che anche l’accento diventa unicamente funzionale alla produzione di quella gravità che rappresenta il polo concettuale di tutto il discorso messo in bocca al Fregoso.

La quantità come viene intesa da Trissino nel capitolo sui piedi, invece, è altra cosa. Qui si dà una relazione binaria, ma non nel senso che una sillaba è lunga o breve, a seconda che porti o meno l’accento: tale relazione viene instaurata arbitrariamente sulla base del fatto che la quantità è il principio regolatore del verso classico tanto quanto l’accento lo è del volgare. La corrispondenza binaria è un mero espediente descrittivo, e in quanto tale potrebbe anche essere invertita senza che venga messa a repentaglio l’affidabilità del sistema teorico4. Diverso è l’atteggiamento dei teorici di

1 Il carattere cursorio dell’osservazione trissiniana sul valore estetico della quantità sillabica non è sufficiente, secondo

Mario Pazzaglia, ad avvicinare la posizione di Trissino a quella di Bembo. Cfr. PAZZAGLIA 1989, p. 36: «[…] è questa l’unica concessione che il Trissino fa al Bembo, senza peraltro indugiarvi sopra neppure per una succinta esemplificazione, preso com’è dalle sue alchimie accentuative».

2 Cfr. POZZI 1978, pp. 150-152; MANCINI 2000, pp. 70-74.

3 Non mi pare che la valutazione bembiana della quantità della sillaba volgare sia ispirata al modello classico, come

vorrebbe Massimiliano Mancini (MANCINI 2000, p. 74). Per Bembo l’accumulo di consonanti, allo stesso modo dell’accento, non produce nient’altro che un appesantimento incondizionato nella prolazione, senza incidere in alcun modo sulla chiusura delle sillabe. In altre parole, se nella poesia classica non tutti gli accumuli consonantici sono metricamente rilevanti (non tutti, cioè, producono sillaba chiusa. È il caso di fenomeni come la cosiddetta correptio attica, per cui muta cum liquida non faciunt positionem), in Bembo essi sono tutti rilevanti solo da un punto di vista fonetico e stilistico.

4 Cfr. DANIELE 1981, p. 133: «Pensare a una traducibilità dei metri da lingua a lingua è […] un’operazione lecita solo

in astratto, possibile solo alla maniera del Trissino, cioè nel senso […] di un riporto anòdino di lunghe e brevi ai concetti più nostrani di gravi e acute, con evidente perdita di razionalità nelle corrispondenze di pondo metrico: una lunga è sostituibile in linea teorica con due brevi; un’acuta non può far le veci di due gravi. Con il che si riporta alla luce il contrasto implicito tra istituto poetico latino e volgare, vale a dire la loro reciproca non integrabilità».

156

metrica barbara, per i quali determinare con sicurezza a quale delle due lunghezze classiche assegnare l’accento acuto era una questione di fondamentale importanza. Minturno, ad esempio, interrogandosi sul suddetto quesito giunge a una conclusione opposta a quella generalmente adottata dai metricologi rinascimentali1 e con la quale veniva a coincidere la scelta trissiniana:

[…] il tempo è misura del movimento delle sillabe e delle voci, infin che al termine sien giunte. E perché il movimento è tardo o veloce, sì come lo spatio, per lo quale egli si fa, lungo o breve; il tempo s’attende nel lungo e nel breve, e nel tardo e nel veloce delle syllabe e delle parole proferite. Ma, percioché l’harmonia è consonanza, la qual non è senza suono, sì come non è suono senza percossa, né percossa senza movimento, né movimento esser può che non sia veloce o tardo; onde dal veloce viene il suono acuto, dal tardo il grave; seguita che, dove si nota il tempo, quivi anco si consideri l’harmonia2.

Il presupposto, fondato sull’interpretazione allora diffusa dei concetti aristotelici, è che all’armonia (il tono) corrisponda effettivamente un determinato ritmo (la lunghezza). La spiegazione dell’associazione fra tempo veloce (breve) e suono acuto e fra tempo tardo (lungo) e suono grave è fornita da Iacopo Mazzoni, nella sua revisione del sistema teorico trissiniano:

Dico adunque che se la lunghezza e la brevità delle sillabe nostre dipende dal tuono grave et acuto, ch’egli è necessario che il tuono grave faccia la sillaba lunga, e l’acuto la sillaba breve, che è in tutto contrario a quello che si è fin’hora stabilito di mente del Trissino […]. Come […] può esser vero che nella nostra lingua l’accento acuto faccia la sillaba lunga e il grave la breve, se il suono acuto passa tosto, come veloce, e il grave dura assai, come tardo?3

Tuttavia, dopo aver sviluppato ulteriormente l’argomentazione appoggiandosi all’autorità di Aristotele e Plutarco, Mazzoni finisce per dare credito alla soluzione più diffusa, contro cui inizialmente aveva preso le mosse:

Concludo adunque che l’accento acuto ricerca maggior forza nella voce che non fa il grave, e che per conseguente (se bene ha il movimento dell’aere più veloce) si dilata per maggior distanza che non fa l’altro accento, e che con più lunghezza di tempo si finisce di quello che si faccia il grave. Onde necessariamente segue che l’accento acuto faccia la sillaba lunga, e il grave la brieve4

1 Cfr. PAZZAGLIA 1989, p. 36; PAZZAGLIA 1990, pp. 37 sg.; MENICHETTI 1993, p. 31; ORLANDI 2005, pp. 102 sg. 2 MINTURNO 1563, p. 13. Cfr. anche p. 355.

3 MAZZONI 1587, pp. 326 sg. 4 Ibid., p. 329.

157

Come si è visto, per Minturno la determinazione della lunghezza sillabica in relazione all’accento finisce di fatto per essere governata da leggi più complesse, per cui nella pratica non si dà una vera inversione del paradigma dominante. Per la metrica barbara, la continua interferenza fra due domini di fatto inconciliabili, quantità sillabica e ictus classici da una parte e quantità sillabica e accento volgari dall’altra, è la causa delle frequenti contraddizioni e riformulazioni presenti anche in uno stesso testo. Anche Benedetto Varchi1, che come Minturno e Mazzoni parte dal presupposto che nella quantità classica consista il ritmo e nell’accento volgare l’armonia, dopo aver affermato che il volgare non considera la lunghezza sillabica ma l’altezza (il tono), in seguito difende l’opinione secondo cui l’accento acuto in volgare si pone sulla sillaba lunga (una per parola), mentre l’accento grave su tutte le altre sillabe, brevi, e dunque non si segna se non quando sostituisce l’acuto, come nel greco2.

Si è visto che Bembo propone un’idea di lunghezza sillabica del tutto estranea a quella di cui si è appena parlato. In realtà, come in Trissino, anche nelle Prose affiorano entrambe le accezioni: Bembo si serve del concetto classico di lunghezza sillabica nel momento in cui affronta il problema dell’accentazione alternativa delle parole la cui posizione all’interno del verso non ne consente la pronuncia secondo l’accento grammaticale. Si legga il passo in questione:

È il vero che, per ciò che gli accenti appo noi non possono sopra sillaba che brieve sia esser posti, come possono appo loro [scil. i Greci e i Latini], e se posti vi sono la fanno lunga, come fecero in quel verso del Paradiso: «devoto quanto posso a te supplìco»3.

Oltretutto, qui la corrispondenza univoca fra lunghezza e tono viene data per naturale. Che Bembo trasferisca di peso il concetto di lunghezza classica al volgare affiora manifestamente dal seguente passaggio, dove le regole della positura dell’accento vengono addirittura fatte dipendere dalla lunghezza per posizione:

Sia dunque a noi conceduto […] il poter commettere più che tre sillabe al governo d’un solo accento. Basti che non se ne commette alcuna lunga, fuori solamente quella a cui egli sta sopra. – E come, – disse messer Ercole – non se ne commette alcuna lunga? Quando io dico uccìdonsi,

ferìsconsi, non sono lunghe in queste voci delle sillabe a cui gli accenti sono dinanzi e non istanno

1 Cfr. VARCHI 1590, pp. 636-638.

2 Cfr. MINTURNO 1563, pp. 344 sg.: l’accento grave «non altrove si nota, che dove l’acuto in lui si cangia. Cangiasi in

lui l’acuto nel corso del dire, sì come la particella sì in quel verso, “A Giudea sí”, ha l’accento acuto. Ma in questo, “Sì crede ogn’huom, se non sola colei”, cangia l’acuto in grave»; p. 347: «Poiché ’l grave non ha luogo notabile, se non dove l’acuto in lui si cangia; cangiasi egli, come s’è detto, in lui, dove la pronuntia non si posa».

158

sopra? – Sono, messer Ercole, – rispose messer Federigo – ma per nostra cagione, non per loro natura: con ciò sia cosa che naturalmente si dovrebbe dire uccìdonosi, ferìsconosi1.

Dunque Bembo sarebbe il primo a teorizzare la relazione diretta fra lunghezza classica e accento, che attraverso la mediazione sistematica della Poetica di Trissino si diffonde e si radica nella cultura metrica del Cinquecento orientando in maniera decisiva le teorie e le pratiche della sperimentazione barbara.

L’opinione secondo cui Trissino sarebbe il primo teorico di poetica a eseguire un’analisi compiuta degli schemi accentuativi del verso volgare2 non mi sembra del tutto fondata. Certo, se si guarda alle

artes mediolatine e protoromanze fino ad Antonio da Tempo e Gidino da Sommacampagna, il problema della struttura ritmica del verso non era affatto contemplato, e l’unico criterio tassonomico nella descrizione delle forme metriche era costituito dalla casistica degli schemi rimici3. Ma il

complesso sistema combinatorio dei piedi nell’endecasillabo che occupa buona parte della seconda divisione della Poetica si riduce in sostanza all’enunciazione della regola dell’ultimo accento e dell’obbligo di quarta o sesta sillaba tonica. Niente più, dunque, di quanto aveva fatto Bembo4, i cui

precetti in merito alla giacitura degli accenti, sebbene apparentemente espressi in una forma meno sistematica, esprimono in modo molto più sintetico e funzionale le medesime leggi metriche5. La novità apportata da Trissino potrà essere vista, piuttosto, nell’individuazione di un ritmo tendenzialmente ascendente (giambico) nei versi imparisillabi e discendente (trocaico) nei parisillabi6, interpretazione che riscosse indubbiamente un notevole successo tanto da godere di un certo credito ancora oggi.

1 Ibid., p. 149.

2 Cfr. KELLOG 1953, pp. 274, 277; PAZZAGLIA 1989, pp. 33 sg.; PAZZAGLIA 1990, pp. 37 sg.; Isabel Paraíso in

TRISSINO 2014, p. 43.

3 Cfr. PAZZAGLIA 1989, pp. 34 sg.: «[…] la metricologia mediolatina e romanza delle origini non si pone il problema

degli accenti […]. Il fatto che non si procedesse a una teorizzazione degli accenti […] può avere varie spiegazioni plausibili. In primo luogo va ricordato che le singole artes si definiscono in opposizione alle altre finitime, e pertanto la ritmica non poteva invocare, “ad differentiam metrice”, né il sillabismo, comune a molti versi “metrici” (gli endecasillabi alcaici e saffici) e neppure gli accenti, dato che l’alternarsi regolato di lunghe e brevi nella metrica d’imitazione classica non poteva essere avvertito se non come alternarsi di arsi e tesi accentate e atone. Non restava che insistere sulla rima e sul contesto strofico, meno schematico, nella poesia romanza che in quella mediolatina, ma comunque sia avvertito, in entrambi i casi, come aspetto originale e caratterizzante della nuova metrica. Un’ultima spiegazione può essere il fatto che per oltre un secolo, prima del costituirsi d’un canone, la libertà di posizione degli accenti li mantiene fuori della forma normativa cogente dell’ars».

4 Cfr. POZZI 1978, pp. 143-152. 5 Cfr. MANCINI 2000, p. 72.

6 Ma cfr. MENICHETTI 1993, p. 54. Alcuni trattatisti mediolatini, come Giovanni di Garlandia e Eberardo l’Alemanno,

parlavano di ‘ritmo giambico’, ‘ritmo spondaico’ ecc. in riferimento alla posizione delle percussiones (gli accenti) nel verso. Cfr. VECCHI 1961, pp. 11-20.

159

Tutta la macchina teorica di questa sezione della Poetica si regge sulla nozione di tono, che per Trissino è prerogativa esclusiva della poesia volgare. In realtà, come hanno dimostrato gli studi più recenti di linguistica storica, già il latino classico possedeva una forma di accento tonale melodico1, come del resto testimoniato dagli stessi grammatici da cui Trissino attinge il concetto di tono (Donato e Servio, seguiti da Isidoro). Di conseguenza, esso rappresentava senza dubbio un elemento soprasegmentale difficilmente trascurabile anche e soprattutto in poesia2. Il tono è distinto da Trissino in grave, acuto e circonflesso, le tre varietà dell’accento greco. Rendendosi conto dell’improduttività, almeno a livello grafico, dell’accento circonflesso, il vicentino reclama il diritto di tralasciarlo dalla sua trattazione adducendo la seguente giustificazione:

[…] perché il circωnflεxω par che faccia quel medeʃimω εffεttω che fa l’acutω, cioὲ che alza la prωnunzia de la syllaba, cωmeché nωn tantω; percioché ad essa εlevaziωne ὲ la depressiωne cωngiunta; per questω adunque laʃcieremω il dire di lui; ε quellω che diremω de lω acutω se intenderà εssere dettω medeʃimamente de ʼl circωnflεxω; la cui differεnzia, per εssere di troppω sωttile cωnsideraziωne, a ʼl preʃεnte nostrω prωpoʃitω nωn accade (Poetica, p. XIIIv).

Dal momento che l’accento circonflesso consisteva, in greco, in un innalzamento seguito da un abbassamento del tono, per Trissino è sufficiente ricondurlo sotto il dominio dell’accento acuto in virtù del suo supposto carattere di innalzamento moderato, risultante da una media fra i due movimenti consecutivi. Minturno dal canto suo tiene nettamente distinti accento acuto e circonflesso, che chiama con un calco analitico «chinato intorno» ed esemplifica con il verbo fô3. La tripartizione dell’accento era assai diffusa nelle grammatiche del volgare, ma spesso al posto del circonflesso si trova l’apostrofo, considerato a tutti gli effetti un accento4. La Grammatica preposta al Vocabolario

di Alberto Acarisio, ad esempio, lo affianca agli accenti acuto e grave sotto la denominazione «accento collisivo»5, e lo stesso fa Lodovico Dolce, che lo chiama «accento rivolto»6. Anche Trissino

1 Cfr. Axel Schönberger in DONATO 2009, p. 211: «Daran, dass das klassische Latein noch einem melodischen

Tonhöhenakzent hatte, kann trotz des diesbezüglichen Sonderweges in der deutschen Forschungstradition an sich kein Zweifel bestehen; er wird über mehrere Jahrhunderte von den antiken Grammatikern bezeugt. Ihnen war bekannt, dass verschiedene Varietäten des Altgriechischen in ihren Betonungsregeln voneinander abwichen, während das Lateinische über ein einheitliches Betonungssystem verfügte, das den Akzentuierungssystemen der Griechen ähnelte, sich aber doch von ihnen unterschied».

2 Se ne rende conto già Lodovico Dolce, che lamenta l’insufficienza del sistema grafico latino per gli accenti a fronte

della complessità delle forme metriche. Cfr. DOLCE 2004, p. 430: «[…] gli scrittori latini (e specialmente i poeti, ai quali per rispetto della diversità de’ piedi con che componevano i lor versi, erano gli accenti grandissimamente bisognevoli) non solo non se ne volsero caricar, quanto i Greci, ma pochissimi ne usarono».

3 Cfr. MINTURNO 1563, p. 344.

4 L’apostrofo era stato introdotto nella grafia del volgare da Bembo e Manuzio, con il Petrarca aldino del 1501 (cfr.

MIGLIORINI 1960, p. 383).

5 Cfr. ACARISIO 1543, p. 19v.

6 Cfr. DOLCE 2004, pp. 430, 432, 435-441. Evidentemente l’apostrofo veniva arbitrariamente considerato proprio un

160

parla dell’apostrofo nella Grammatichetta contestualmente agli accenti, ma specifica: «Lω apostrωphω […] nωn ὲ propriω accεntω, ma dimωstra rimωziωne di una vωcale ε […] kiamasi passiωne»1.

Sulle regole dell’accento individuate da Trissino non occorre tornare. Qui basti osservare la licenza concessa alle parole bisdrucciole2, che fa eco a Bembo3: entrambi rimarcano la rarità di simili casi e se ne servono per illustrare la maggiore flessibilità del sistema tonale volgare rispetto a quello latino e greco.