Il caro prezzo della disoccupazione
1. Gli elementi costitutivi
Alcuni critici dell'obbiettivo dei 60 milioni di posti sono abbastanza onesti, ma non sono che dei timidi per natura. Altri sono favorevoli a parole all'occupazione integrale, ma in realtà tol-lererebbero diversi milioni di disoccupati permanenti nell'erronea credenza che la concorrenza dei disoccupati mantenga bassi i sa-lari ed alti gli utili.
Questa gente, invero, considera la disoccupazione come qual-cosa di simile all'antico giuoco delle « sedie musicali », con le regole del giuoco economico stabilite in modo che un certo nu-mero di persone venga sempre lasciato a piedi nella gara per ottenere un posto. Per loro il solo quesito è quello relativo al numero di coloro che devono restare in piedi, e non si pon-gono il problema del come possano evitarsi le rovine che la disoc-cupazione cagiona agli individui ed alla società intera.
L'obbiettivo dei 60 milioni di posti è basato sulla premessa contraria, con la quale non si ammette l'idea che un vasto complesso di cittadini debba necessariamente essere nell'im-possibilità di trovar lavoro. Questa premessa afferma che tutti coloro che vogliono lavorare, e cercano lavoro, hanno il diritto di lavorare. Essa dice che per il momento 60 milioni di posti di lavoro consentiranno di lavorare a tutti coloro che nel paese sono nei ranghi dei lavoratori, ad eccezione soltanto di coloro che in qual-siasi momento si trovino nel periodo di passaggio da un posto all'altro o si trovino per altre ragioni fra i « disoccupati da attrito ».
38 Capitolo secondo
Essa comprende coloro che già lavoravano prima della guerra, coloro che successivamente furono disoccupati ma trovarono poi lavoro e vogliono conservarlo, coloro che sono entrati nei ranghi dei lavoratori in seguito al normale accrescimento della popola-zione, e coloro che sono occupati nelle forze armate. I 60 milioni di posti non costituiscono, naturalmente, una cifra definitiva. Sarà all'incirca giusta per il 1949 ed a tutto il 1951 o 1952, ma sarà probabilmente troppo esigua per il 1955.
In realtà vi saranno più di 60 milioni di lavoratori nel 1950, giacché si stima che abbiano a continuare a voler lavorare non meno di due milioni di coloro che furono tratti dalle loro case o dalle scuole per essere addetti ad attività connesse con la guerra. Ma se teniamo conto di circa un milione e mezzo di persone che non lavorano neanche negli anni prosperi — si tratta ancora della cosiddetta « disoccupazione da attrito» — torniamo ai 60 milioni di persone che saranno nel 1950 nei ranghi dei lavoratori e per le quali avremo bisogno di 60 milioni di posti. Una media di 60 milioni di persone attive in occupazioni di ogni specie, compreso il servizio militare, non sarebbe superiore nel 1950 (quando la nostra popolazione di 14 anni e più di età ammonterà a 110 milioni d'individui) alla media di 49 milioni di persone attive nel 1929, quando la nostra popolazione di 14 anni e più di età ammontava soltanto a 90 milioni; poiché la media delle persone attive sarebbe di pochissimo inferiore al 55 % nei due casi.
•Gli elementi più stabili.
Certe persone ben pensanti parlano come se credessero che tutti i 60 milioni di posti dovessero trovarsi soltanto nell'industria •manufatturiera o nell'agricoltura o nel commercio o nell'industria edilizia. Le loro preoccupazioni svaniranno, ne sono certo, quando avremo esaminato da vicino i 60 milioni di persone per vedere quali sono le industrie nelle quali esse tutte saranno probabil-mente occupate per averne salari o profitti, e quali sono le
indù-39 strie nelle quali l'occupazione sarebbe più incerta qualora tornas-simo alla « normalità » (Vedi il diagramma seguente).
Da 47 milioni di lavoratori occupati nel 1940... a
60 milioni nel 1950
Distribuzione dei lavoratori degli Stati Uniti fra le principali categorie di occupazione.
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1950In base all'esperienza del passato ed a tendenze abbastanza evidenti del nostro fabbisogno, io riterrei che dei 60 milioni di posti circa 23 milioni si troverebbero nell'agricoltura, nei servizi domestici e nella categoria degli industriali indipendenti e dei professionisti, dei direttori e funzionari privati, e negli enti pub-blici (federali, statali e locali) e nelle forze armate.
Questi 23 milioni di possibilità di lavoro sarebbero, all'in-grosso, divisi come segue:
posti di lavoro gli enti pubblici e le forze armate fornirebbero circa . 7.000.000
l'agricoltura fornirebbe circa 8.000.000 i servizi domestici fornirebbero circa . . . 2.000.000
gli indipendenti (industriali e professionisti) i direttori e
funzionari fornirebbero circa 6.000.000 Totale 23.000.000
40
Nel 1940 poco più di 4 milioni di lavoratori erano impiegati dalle autorità federali, statali e locali. Durante la guerra gli im-pieghi civili in questi tre rami sono saliti complessivamente a 6 milioni. Vi saranno, e comunque vi dovrebbero essere, delle ri-duzioni in questo settore dell'occupazione. Direi che una cifra da 4,5 a 5 milioni rappresenta una ragionevole stima del numero dei posti disponibili presso gli enti pubblici nel dopoguerra. In quanto all'entità delle forze armate, non è ancora dispo-nibile una stima definitiva al riguardo. Ma sembra che si sia abbastanza d'accordo nel ritenere che il totale permanente delle forze armate in tempo di pace debba necessariamente essere di circa 2 milioni e mezzo di uomini. Il totale di 7 milioni sarebbe quindi ima cifra ragionevole per il complesso degli enti pubblici e delle forze armate.
La stima di 8 milioni di posti di lavoro nell'agricoltura post-bellica è di circa 2 milioni inferiore alla cifra di anteguerra ed uguaglia approssimativamente il numero attuale dei lavoratori rurali. L'occupazione nell'agricoltura può crescere un poco al di-sopra dei livelli constatati nel periodo bellico a mano a mano che i soldati vengono congedati. Ma non è probabile, salvo il caso di disoc-cupazione massiccia, che essa abbia a raggiungere il livello prebel-lico. Un gran numero di lavoratori rurali, maschi e femmine, con-tinueranno a cercare occupazione nelle città.
I due milioni di addetti ai servizi domestici, previsti nel dopo-guerra, rappresentano una cifra alquanto superiore al numero degli occupati in tali servizi durante gli anni della guerra, ma è infe-riore al numero di coloro che affluivano in massa in questo settore durante la crisi quando non erano disponibili occupazioni meglio retribuite in altri campi.
La stima di 6 milioni per gli indipendenti (cioè proprietari di aziende e professionisti indipendenti) e per i direttori completa la classificazione dei 23 milioni di posti di lavoro esposta nella tabella che precede, lasciando 37 milioni di posti dei quali dob-biamo ancora occuparci. Ma la suddetta cifra di 6 milioni ha,
GJi elementi costitutivi 41 in rapporto al totale di 60 milioni di posti, un'importanza molto maggiore di quella che risulta dalle comuni classificazioni per categorie. Giacché circa la metà di quei 6 milioni comprende il gruppo dei datori di lavoro — coloro che assumono e licenziano il personale — coloro che od occupano direttamente lavoratori o stabiliscono le direttive commerciali che influiscono sulla occu-pazione dei rimanenti 37 milioni di persone.
Gli elementi meno stabili.
Ed in quanto a questi 37 milioni di persone, le loro possibilità di occupazione devono trovarsi nelle fabbriche e nelle miniere, nell'industria edilizia, nei trasporti ed altri servizi pubblici, nei commerci di ogni specie e negli istituti finanziari, nell'industria dello spettacolo e nelle industrie fornitrici di servizi (alberghi, trattorie, garages, posti di rifornimento, lavanderie, negozi di par-rucchiere e istituti di bellezza, smacchiatorie e tintorie, ecc.). Queste industrie, e specialmente la manifatturiera, la mineraria e l'edilizia, sono i settori di occupazione più incostanti. Le cifre dell'occupazione in tali settori costituiscono sensibilissimi indici della fiducia degli ambienti economici. Se si riduce notevolmente l'occupazione nell'industria manifatturiera, nella mineraria e nel-l'edilizia, se ne hanno immediatamente ripercussioni negli altri settori dell'attività economica. E per quanto io non creda che in definitiva la distribuzione dell'occupazione integrale nei vari set-tori abbia a variare sensibilmente dalla ripartizione qui sotto esposta, voglio tuttavia sottolineare che nuove invenzioni e modi-ficazioni tecniche possono alterare in molti modi la situazione di concorrenza nei settori suddetti.
Per procurare occupazione e conservarla a questi 37 milioni di persone, noi dobbiamo trovare mercati per i prodotti di 18 lioni di persone al lavoro nell'industria manifatturiera, nella mi-neraria e nell'edilizia. Se vi fossero mercati, sia all'interno che
42 Capitolo secondo
all' estero, per i prodotti del loro lavoro, allora l'occupazione nei settori in questione sarebbe in media la seguente:
in milioni Industria manifatturiera e mineraria . . 15
Industria edilizia 3,5 Servizi pubblici e trasporti 3,5
C o m m e r c i o : . . 9
Finanza, servizi e diversi 6 Totale 37
È nell'industria manifatturiera, nell'edilizia e nella mineraria dove gli alti e i bassi si sono verificati con maggior violenza. Nel-l'industria manifatturiera si è avuta la maggiore espansione du-rante la guerra. È qui che la disoccupazione si fa sentire più presto e più duramente. Nell'ultima depressione, nel 1932, non vi erano che circa 6 milioni di lavoratori nelle fabbriche. Tanto nel 1929 quanto nel 1940 ve n'erano più di 10 milioni, e nel 1943, nel punto massimo toccato durante la guerra, la cifra era di quasi 17 milioni. Nel dopoguerra appare ragionevole la previsione di almeno 14 milioni di posti nell'industria manifatturiera.
L'industria mineraria procurerà circa un milione di posti nel dopoguerra. Questa cifra è all'incirca la stessa del 1929 ed è un po' più elevata di quella del 1940. Cosi dovremo avere in totale 15 milioni di persone occupate nell'industria manifatturiera e nella mineraria. Una occupazione in questi due settori inferiore ai 14 milioni significa l'inizio della disoccupazione massiccia, 15 mi-lioni o più vogliono dire la prosperità.
Percentualmente, l'industria edilizia avrà la maggiore espansione nel dopoguerra. Dopo Pearl Harbor l'attività edilizia privata è stata rigorosamente limitata, e dopo il compimento dei campi e delle basi militari l'occupazione si è ridotta nell'intero settore a circa mezzo milione, e cioè ad una cifra anche inferiore a quella riscontrata nel momento peggiore della grande crisi. Io credo che le no-stre necessità di costruzioni di ogni specie, pubbliche e private,
GJi elementi costitutivi 43 siano tali da dar lavoro a 3-3,5 milioni di lavoratori all'anno nel-l'immediato periodo postbellico. Varie persone che seguono da vi-cino l'industria edilizia mi dicono che sarà forse bassa questa mia stima. Se cosi risulterà, sarà tanto meglio per noi tutti.
Si può prevedere che i trasporti ed i pubblici servizi procure-ranno nel dopoguerra da 3,5 a 4 milioni di posti di lavoro. Questa cifra è lievemente più elevata di quella del 1940 e pochissimo dif-ferente da quella del 1929. L'occupazione dei lavoratori nelle fer-rovie dipende direttamente dall'attività dell'industria manifatturiera, della mineraria e dell'edilizia.
Il numero dei posti nel commercio dipende direttamente dalla prosperità dei rimanenti lavoratori. Nel 1929 lavora-vano nei commercio circa 6 milioni di persone (cioè: impiegati, contabili, commessi e simili, addetti alle aziende all'ingrosso e al minuto, alle ditte importatrici ed esportatrici, ecc.). Anche negli anni della guerra, nonostante la chiusura della massima parte dei posti di rifornimento benzina e dei saloni di vendita di automobili, la cifra è stata di circa 7 milioni. Con l'occupazione integrale dopo la guerra, e con il ritorno alla più breve settimana lavorativa di anteguerra, è ragionevole prevedere che vi saranno circa 9 milioni di posti di lavoro nel commercio.
I rimanenti 6 milioni di posti saranno distribuiti fra i settori degli istituti finanziari, delle industrie produttrici di servizi, dell'industria dello spettacolo e di attività diverse. Nel 1929, circa 4 milioni di persone erano occupate in queste categorie. Nel cul-mine della produzione bellica la cifra era inferiore ai 4 milioni, ma il fatto è che la guerra rendeva impossibile, a molta gente che avrebbe voluto assumerli, di trovare lavoratori di questi rami. Con l'occupazione integrale e i più brevi orari lavorativi del dopo-guerra, prevedo che la richiesta di lavoratori in questo campo am-monterà a 5 e probabilmente a 6 milioni di individui.
Vi sarà, naturalmente, qualcuno che troverà discutibili queste stime della ripartizione dell'occupazione integrale postbellica. Si farà osservare che, invece dei 37 milioni di posti di lavoro
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renti, questi settori di occupazione — dalle industrie manifatturiere a quelle produttrici di servizi — davano lavoro nel 1940 soltanto a 25 milioni di persone e che non possiamo far assegnamento su una cifra molto maggiore negli anni postbellici.
Ma per me il punto importante è il seguente: io sono certo che nessun uomo d'affari sensato, come nessun uomo di governo sensato, sia disposto a considerare il 1940 come un anno normale. Io non ho mai ammesso che la disoccupazione del 1939 o del 1940 sia cosa alla quale noi dobbiamo adattarci in un paese di possibi-lità illimitate come il nostro. Né sono disposto ad ammetterlo adesso.
Coloro che parlano di 50 milioni di posti come della occu-pazione integrale, parlano in realtà in favore di un reddito nazionale di almeno 35 miliardi di dollari inferiore a quello che potremmo procurarci se soltanto avessimo il coraggio di produrre i beni che il popolo effettivamente vuole e di cui ha bisogno. Io mi rifiuto di ammettere che sia inevitabile questa perdita di 35 mi-liardi del nostro reddito nazionale. Sarà soltanto producendo questi 35 miliardi di dollari in piti all'anno che noi potremo pa-gare la guerra senza imporre un carico troppo gravoso alla nostra economia. Cinquanta milioni di posti non sono proprio sufficienti quando le forze del lavoro superano i 60 milioni di persone. È pazzia il credere che potremo pagare questa guerra condannando gente alla disoccupazione.
Nel trapasso dalla guerra alla pace dovremo essere preparati ai rapidi cambiamenti. Vi saranno dislocazioni in molte zone ed in-dustrie. I fronti della pace richiederanno subitanei cambiamenti, proprio come li richiedevano i fronti della guerra. Non soltanto le forze del lavoro, ma anche gli uomini che si trovano nei posti di-rettivi, dovranno essere pronti ai rapidi spostamenti, cosi da un'in-dustria ad un'altra, come da una regione geografica ad un'altra.
Vi sono due industrie che sono strategiche nel senso che il conseguimento da parte loro della occupazione integrale nella pro-duzione civile spiana la strada all'occupazione integrale in altri
GJi elementi costitutivi 45 settori, ed anche nel senso che sono le zone nelle quali la politica e l'azione governativa hanno efficacia fondamentale agli effetti dell'occupazione integrale.
L'ima è l'industria manifatturiera, dove il governo può o acce-lerare od impedire il processo del trapasso, dove esso può o aiutare a mantenere occupati 14 milioni di persone o può precipitare un declino che sarebbe difficilissimo arrestare. L'altra è l'industria edi-lizia, dove il governo può agire direttamente, come ha tradizional-mente agito, al fine di creare possibilità di lavoro con la costru-zione di opere pubbliche necessarie.
Per garantire la continuità dell'occupazione integrale, il po-polo deve, attraverso il Congresso, munire il governo del potere di agire in collaborazione diretta con gli imprenditori privati non appena l'incipiente disoccupazione faccia prevedere il pericolo di una disoccupazione massiccia. Vi sono, naturalmente, delle oneste divergenze di opinione circa il momento preciso nel quale si rag-giunge il punto pericoloso nella nostra economia. Negli anni pre-cedenti in cui avemmo brevi periodi di occupazione integrale, si ebbero, come fu già rilevato, da 1,5 a 2 milioni di disoccupati (in conseguenza di perfezionamenti tecnologici, della disoccupa-zione stagionale nell'industria edilizia e dei normali spostamenti da un posto di lavoro all'altro). Io credo che non dovremmo tol-lerare un più largo margine neanche con una forza di lavoro ammontante a 62 milioni, totale che secondo le nostre statistiche demografiche sarà raggiunto nel 1950. Ciò vuol dire che se il totale dei posti civili e militari scende al disotto di 59 milioni, vi sarà motivo di vera preoccupazione, e se quel totale scenderà al disotto di 58 milioni, dovremo guardarci da seri guai.
A chi andranno i posti di lavoro.
Ma che possiamo dire delle persone, di coloro cioè che occu-peranno questi 60 milioni di posti? Chi sono? Che sappiamo di loro?
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La massa dei 60 milioni sarà costituita da lavoratori tra i 20 e i 65 anni di età; quasi 55 milioni saranno compresi in questa classe di età. Poi, 3 milioni consteranno di giovani, maschi e fem-mine, di età inferiore ai 20 anni, fra cui saranno dei lavoratori ad orario intero che avranno finito le scuole e degli studenti che si guadagnano la vita lavorando parte della giornata. All'ingrosso 2 milioni saranno uomini e donne di età superiore ai 65 anni. Queste stime per i lavoratori di più di 65 e di meno di 20 anni sono fondate sulla presunzione che abbia ad esservi una forte riduzione nella proporzione delle persone che lavoreranno a tali età, per effetto della tendenza ad allungare il periodo scolastico e ad anti-cipare il momento dell'andata a riposo.
Dei 60 milioni, circa 48 milioni saranno bianchi nazionali, circa 6 milioni saranno bianchi di origine straniera e circa 6 mi-lioni saranno negri. Vi saranno approssimativamente 42 mimi-lioni di uomini e 18 milioni di donne. Prima della guerra lavoravano in occupazioni retribuite 17 milioni di donne. Dei 3 milioni di donne, giovani e vecchie, che sono state addette ad attività connesse con la guerra, molte torneranno alle loro case e alle loro scuole. Ma almeno un milione e forse un milione e mezzo di esse vorranno continuare a lavorare in occupazioni retribuite.
Le donne che lavoreranno dopo la guerra saranno soprattutto della classe di età dai 20 ai 44 anni, nella quale rientreranno circa 12 milioni sui 18 milioni di donne al lavoro. Saranno per la maggior parte donne nubili o maritate senza figli. Si prevede che dopo la guerra, come prima di essa, ben poche madri di figli in tenera età saranno al lavoro fuori delle pareti domestiche.
Dei 60 milioni, circa 14 milioni saranno organizzati e circa 46 milioni non organizzati, e la forza dei sindacati continuerà a variare da un'industria all'altra. Sono organizzati meno del 15% degli impiegati e soltanto il 20% degli addetti alle industrie pro-duttrici di servizi. Nell'industria manifatturiera la proporzione degli organizzati è del 60% ; nell'edilizia e nei trasporti, supera l'80% ; nell'industria mineraria del carbone, nei trasporti marittimi e nei
GJi elementi costitutivi 47 trasporti ferroviari è di circa il 95%. Tuttavia l'occupazione inte-grale può accelerare l'organizzazione dei lavoratori di settori non ancora organizzati, allo stesso modo che l'attività del tempo di guerra ha accelerato la loro organizzazione nell'industria mani-fatturiera.
Questi sono alcuni dei fatti e delle caratteristiche della gente che occuperà i 60 milioni di posti nel 1950, se sarà fatto l'occor-rente perché questi siano disponibili. Non vi è nulla di chimerico nei dati esposti, né nel loro complesso, né nei particolari, poiché essi sono basati sul censimento della popolazione.