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ENDECASILLABI IN QUATTRO QUARTI FRA DANTE E IL ROCK

Nel documento Camillo Capolongo (pagine 158-166)

Una canzone è più primitiva di una poesia, perché in genere è in rima e ha una metrica precisa. Una poesia, invece, può andare dove vuole.

Jim Morrison

Per tutto il Novecento il versoliberismo e la metrica liberata hanno sicuramente costituito il paradigma dominante della versificazione, anche se fin dagli esordi di questo movimento la presenza della metrica tradizionale è stata comunque forte: accanto ai poeti che continuavano a scrivere nelle forme tradizionali, notissimo e studiatissimo è per esempio l’endecasillabo nascosto in Ungaretti. La fine del secolo scorso e l’inizio di quello nuovo hanno visto al contrario un recupero delle forme cosiddette regolari, o «chiuse», quali erano state trasmesse dalla tradizione. Studiato già da vari anni, questo recupero è stato variamente classificato come tipico del postmodernismo oppure di quelle tendenze «iperletterarie» che avrebbero fatto della poesia una prassi combinatorio a freddo. A ciò di solito certa critica contrappone i poeti «ispirati», i quali viceversa, in preda a un orfismo hot potrebbero bellamente ignorare qualsiasi vincolo formale per scrivere presa diretta con la propria onda emotiva e attingere così a verità esistenziali: un’idea, direi, «ontologica» delle poesia che però nulla ha a che vedere con la concretezza del fare letterario. Detto che questa linea viscerale del poeta bon sauvage mi convince pochissimo (anche perché sono proprio questi «poeti veri» i primi ad abbandonarsi a un profluvio di retorica e citazioni), credo sia il caso di guardare con maggiore attenzione a quanti hanno optato per la ripresa delle forme chiuse e fare qualche distinzione.

Prima di tutto va puntualizzato che questo recupero si sostanzia essenzialmente nel ritorno dell’endecasillabo, verso principe della tradizione italiana: ritorno per molti versi prevedibile, se è vera quella sua naturalità rispetto all’italiano medio che voci molto autorevoli hanno già sufficientemente illustrato (il suo schema prosodico, giambico o dattilico, risultando adatto alla grande frequenza di parole piane bi- o trisillabe). Quindi evidenzierei come le principali linee fautrici di tale riuso siano sostanzialmente tre, sebbene, come cercherò poi di spiegare, non manchino sviluppi e articolazioni ulteriori, nonché molte declinazioni squisitamente individuali. Per ora tuttavia fermerei l’attenzione su: 1. una linea «neometrica», di cui capofila può essere considerata Patrizia Valduga, che sembra essere contraddistinta da intenti dichiaratamente restaurativi, orientata ossia all’autocompiacimento formale dell’atto poetico in una sorta di performance autoerotica. Da questa distinguerei 2. la linea di Giovanna Bemporad, che deriverebbe da una «religio della regola metrica», quindi condividerebbe con la precedente la concezione sacrale della forma, mettendola però non al servizio di un’autocelebrazione dannunziana dell’artifex, quanto di un’elaborazione e trasmissione dell’esperienza formalmente controllata. L’ultima linea che identificherei è quella di 3. quei poeti che nel riprendere il metro chiuso introducono un elemento di esplicita novità, attraverso magari la faglia di una sottile ironia oppure in maniera più macroscopica. In prima battuta si può pensare certamente agli esperimenti del Gruppo ’93, soprattutto del versante genovese di Caserza e Berisso, dove all’orientamento antiquario (quando non propriamente filologico) la contaminazione aggiunge intenti satirici e soprattutto parodici, in senso proprio.

A questa esperienza si ricollega però anche quella di Gabriele Frasca, a propria volta studioso di metrica e autore nei suoi versi di quello che pare a me uno dei più riusciti esempi di reinvenzione dell’endecasillabo: di un suo recupero che cioè non sia meramente restaurativo ma al contrario fortemente innovativo. Laddove i risultati neometrici hard core finiscono per dare una certa impressione di sciatteria (magari il rigore metrico c’è, ma va spesso pesantemente a scapito dell’espressione, dando luogo insomma a una poesia di stereotipi), molto più convincente mi sembra, in Frasca e nella linea della «reinvenzione», la contaminazione della conoscenza delle forme storiche (che in questo modo non divengono mai freno inventivo) con un universo di ascolti

completamente diverso rispetto all’orientamento chiuso delle altre linee: ascolti soprattutto orientati alla ricerca di un «nuovo formare» e di una nuova prosodia che regoli tale formare, attraverso risorse diverse da quelle tramandate, come molto giustamente suggeriva Giuliano Mesa nel mettere in guardia contro il conservatorismo che si annida sempre, in Italia, in ogni confronto con la tradizione (la quale, invece, per essere mantenuta viva dovrebbe piuttosto essere reinterpretata, come del resto è sempre accaduto in passato). In Frasca, per esempio, le forme dell’endecasillabo sono declinate attraverso un andamento franto dalle pause (grammaticali e prosodiche) che risente del modernismo caustico di Beckett, ma al tempo stesso anche di un’articolazione visiva: lo script cinematografico o piuttosto la cadenza di una sceneggiatura di fumetto, fra didascalia e balloon (lo scrissi nel 1995 a proposito di Lime, e l’autore ha confermato questa propensione con lavori recenti come dove il richiamo allo Spirit di Will Eisner è esplicitato nella forma dell’omaggio diretto). E al tempo stesso entra in gioco nella sua scrittura soprattutto una dimensione aurale, dove a contare sono i riverberi con la musica: dal jazz fino al pop-rock, quello più colto ed educato, almeno, non privo d’inclinazioni artistiche. Lo attesta in forma direi evidente la collaborazione diretta con Steven Brown dei Tuxedomoon, giunta a un certo punto della sua carriera poetica; ma la presenza di questa attenzione è verificabile fin dalle primissime prove (penso soprattutto a Riscritture da King

Crimson, con Durante, Frixione e Ottonieri, uscito sotto la sigla di Kryptopterus Bicirrhis, del 1982). E d’altronde Frasca è anche autore di alcuni convincenti saggi sull’importanza della sfera

neorale/aurale nel «reticolo mediale» che avvolge oggi il letterario.

A questa dinamica dell’ascolto (la cui importanza nello sviluppo di ritmiche nuove è stata sottolineata anche dallo stesso Mesa, a propria volta ascoltatore attento di tracce ritmiche provenienti dalla musica) e dell’attenzione intermediale rimanda del resto non solo l’opera di Frasca, ma di altri autori dello stesso Gruppo ’93. Ma oltre agli schieramenti di gruppo e al movimentismo novecentesco occorre aggiungere una fitta schiera di autori più giovani che non si riconducono a questa dimensione, in primis Antonello Satta Centanin/Aldo Nove, che non ha mai fatto mistero di ispirarsi ai territori del pop, fino a proporre addirittura, con Scarpa e Montanari, una raccolta di poesia (Nelle galassie oggi come oggi) sottotitolata esplicitamente Covers e chiaramente costruita sulla riscrittura (termine che implica anche il concetto di parodia, inevitabilmente) di note canzoni rock e sulla ripresa di risorse metrico-formali «chiuse», del quale Voce (già a sua volta autore di un Rap di fine secolo con Farfalle da combattimento) ebbe a scrivere: «la poesia infettandosi di musica riscopre il gusto, la necessità, il senso di essere ‘forma’ e così fa esplodere nuovi temi e contenuti spiazzanti, si esprime a proposito del mondo, interroga la realtà». Quello per me che conta ora, appunto, non è tanto l’apertura verso un determinato universo tematico o la destinazione d’uso (il proporsi in una dimensione live che accompagnò la genesi di quel libro e la sua successiva promozione), quanto l’ascolto di particolari ritmi e prosodie che a tale orientamento si accompagna, quale è evidente anche nell’uso di risorse semantiche del parlato, che vanno dal lessico prosastico a un certo tipo di cadenza. Ed è proprio un simile atteggiamento di apertura quello che può giovarsi maggiormente della grande varietà di strutturazioni metriche del verso principe della tradizione italiana (da 12 a 276 secondo alcuni studiosi), e quindi anche di ritrovarlo – perché no? – attraverso al 4/4 del rock.

È blasfemia mescolare la sacrosanta, coronatissima metrica con un argomento triviale come il rock e le canzonette? In realtà, che la poesia nasca insieme alla musica è cosa tanto ovvia e nota che non parrebbe nemmeno necessario fare citazioni al proposito. Diverso invece il discorso di quale musica abbiano effettivamente nelle orecchie i poeti oggi: ci sono certo ritmi antichi e ancestrali, che rimandano a un’antropologia profonda del verso, articolata sul respiro, sul passo e sul battito cardiaco; ci sono quelli propri della musica verbale di ogni lingua (appunto, come si diceva, la cadenza dattilico-trocaica dell’italiano) e dei suoi andamenti frastici. Ma poi c’è anche una diversa musica, più prosaica, di tutti i giorni: la sfera degli ascolti che spazia dalle cadenze della lingua d’uso, nelle sue varie declinazioni, a quella dello slogan, per includere infine l’orizzonte della presenza musicale pop, il cui consumo abitudinario è fenomeno tipico della contemporaneità, a partire dagli anni Sessanta, e che in particolare tra quel decennio e i tre successivi ha conosciuto

una serie di profonde interrelazioni con altri ambiti della cultura, violando prima ancora che si parlasse di postmodernismo la separatezza fra «alto» e «basso».

Che i poeti abbiano nelle loro orecchie non soltanto la musica (ansiosa) dei versi dei loro predecessori lo racconta anche un finissimo studio di Gilberto Lonardi sul Montale baritono mancato, nei cui versi restano perciò i ritmi delle arie dell’opera, che alla sua epoca era del resto un genere abbastanza popolare: e d’altronde la stessa metrica manzoniana s’ispirava similmente al melodramma, benché in tutt’altra chiave e con tutt’altre premesse (tanto che Ungaretti, malignamente, ebbe a commentare che l’autore degli Inni sacri si credeva di resuscitare Cristo a ritmo di polka...). Lo stesso tipo di relazione pare tuttavia valere, sempre secondo Lonardi, anche per Ungaretti stesso, le cui «spezzature» sarebbero da attribuire, oltre che all’esempio dei primi haiku tradotti in Europa a partire dalla guerra russo-giapponese, agli andamenti melodici come anche alle soluzioni grafiche adottate nei libretti d’opera. La poesia dei due maggiori, ritenuta «lirica» per eccellenza da molte delle frettolose dicotomie novecentesche, costituirebbe quindi uno degli esempi più eclatanti di una poetica dell’abbassamento che ricorre all’ibridazione con altri generi considerati più impuri, fino addirittura alla canzonetta.

Il principale risultato di questo orientamento, però, prima che estetico-ideologico, dovrebbe essere, come si diceva, quello molto pratico di rendere il verso uno strumento più duttile, capace di adattarsi ai ritmi che stanno nell’orecchio dei contemporanei. In questo senso va letto anche l’invito lanciato da Roberto Roversi alla metà degli anni Sessanta affinché la poesia accettasse di «sedere al tavolo» con gli altri linguaggi, smettendo di cantare per imparare ad ascoltare: Roversi stesso non esitò a dare in prima persona l’esempio scrivendo all’inizio del decennio successivo i testi per un paio di album di Lucio Dalla. E se ben studiati (soprattutto da Giuseppe Antonelli) sono i riverberi della poesia sulla canzone, non solo d’autore, va aggiunto che da questa esperienza Roversi trasse strumenti che ritornano poi nella produzione poetica successiva, soprattutto nelle poesie che con maggiore urgenza tentano di fare i conti con la vita civile: come il Libro Paradiso, dedicato ai turbolenti fatti del 1977. Di lì a una dozzina di anni sarebbe poi giunto uno scrittore come Tondelli, particolarmente sensibile a certi aspetti dello «spirito dei tempi» e preoccupato di come «essere contemporaneo», a dichiarare senza mezzi termini in Un weekend postmoderno l’importanza che riveste alla fine del Novecento il rapporto fra «poesia e canzoni». Si trattava, a suo dire, di «un aspetto non sufficientemente preso in considerazione dai critici ufficiali e dai letterati di professione: la consapevolezza, insomma, che il contesto rock ha prodotto i più grandi poeti degli ultimi decenni».

Questo dato, benché da certuni ancora discusso o almeno parzialmente emendato, sembra oggi abbastanza assodato, anche se il particolare spostamento di competenze pare agli occhi di molti un grave problema della poesia contemporanea, e un segno del suo declino: la dimostrazione di un cedere il passo da un lato alla prosa e dall’altro alla canzone, perdendo forse il proprio specifico. Nel suo saggio Sulla poesia moderna Guido Mazzoni ha esaminato con più sobrietà e molta intelligenza i rapporti che la canzone intrattiene con la poesia, descrivendo come quello che lui chiama (sulla scorta di Benjamin) l’«elemento musale» di quest’ultima sia in effetti trapassato nel pop e nel rock; non manca tuttavia di esprimere a propria volta un certo disorientamento, una sfiducia nel ruolo della poesia, privata come si trova a essere di un mandato sociale, rispetto alle folle che pop e rock attirano (o si dovrebbe ormai dire «hanno attirato»?). Eppure, qualche riga più avanti, è lo stesso Mazzoni a indicare una possibile via d’uscita da questa impasse, allorché nota come in realtà in questa dinamica non vi sia solo il segno d’un declino, ma persista comunque in essa un elemento di continuità rispetto al grande cambiamento che ha coinvolto la cultura umanistica dal Settecento in avanti rivoluzionandola: tale elemento di continuità sarebbe dato proprio dal formarsi di un contesto avantpop capace di unire alla cultura tradizionale il portato della nuova cultura umanistica di massa, assecondando così i processi di lungo corso della modernità in cui «il gusto midcult si impadronisce progressivamente del canone e della memoria». Personalmente, scrivendo del Mazzoni poeta quasi una ventina di anni fa, avevo trovato proprio in lui un solido propositore di un serrato confronto tra l’istituzione letteraria storicizzata e il corpus

delle pratiche discorsive contemporanee.

A mio modo di vedere, insomma, il flusso di scambio è biunivoco. Certo, lo specifico della poesia resta, ed è differente da quello degli altri generi e linguaggi con cui può entrare in dialogo: sarebbe perciò ridicolo immaginarsi di mutuare dal rock mandati sociali, destinazioni d’uso e ruoli che oggi, realisticamente, la poesia non ha e non può avere (e forse non può avere neanche più il rock stesso). Ma diverso è il discorso formale: e dal mio punto di vista nella memoria collettiva il sedimento sonoro di certe timbriche e ritmiche resta importantissimo. Se concordiamo infatti con Tondelli che il rock abbia prodotto alcuni dei più grandi poeti fra gli anni Sessanta e Ottanta, altrettanto vero dev’essere che gli scrittori cresciuti in quegli anni abbiano inevitabilmente incluso nel proprio orizzonte di ascolti, accanto alle letture della poesia propriamente detta, anche questa «lirica intermediale»: con tutto ciò che ne consegue sotto il profilo stilistico, linguistico e quindi anche metrico. Cosa ne guadagna la poesia? Lo chiarisce molto bene in un bellissimo saggio, riecheggiando in un certo senso le parole di Voce, Paolo Giovannetti, allorché parla di una teatralizzazione della lingua poetica che ne sottolinea la «duplicità», quindi il suo grande problema statutario nell’oggi, ma anche la sua principale risorsa: quello stare sui margini o fra i margini delle frizioni mediali. Dunque, si potrebbe concludere, in una posizione che sostanzialmente assicura uno spazio di libertà: dove si può compiere l’invenzione o reinvenzione di una forma, non semplicemente «nuova» per amore di novità, ma per essere adeguata alle orecchie dei contemporanei, per sviluppare certe potenzialità.

Spostando ora lo sguardo al concreto delle pratiche di scrittura più recenti, quello che si può notare è che il verso tradizionale si modifica, esalta più certi aspetti a scapito di altri, e si plasma anche per avvicinarsi ai versi di altre lingue capaci d’incidere maggiormente nella modernità, di avere maggior presa su essa. È (di nuovo) un fenomeno di lungo corso novecentesco, per esempio, l’influenza che il blank verse britannico e soprattutto lo sprung rythm hanno esercitato anche sulla poesia italiana, principalmente nella direzione di un orientamento alla «naturalità prosodica»: non per nulla lo stesso Hopkins, che dello sprung rhythm si diceva appunto solo umile teorico e non già l’inventore, vedeva in quel verso il ritmo del «parlato» tipico della sua lingua, quale riaffiorava già nei primi poemi inglesi e nelle nursery rhymes. Più che gli esperimenti primonovecenteschi di Bacchelli, Rebora e altri (che comunque hanno lavorato sotto traccia in molta poesia sperimentale, passando attraverso autori come Delfini, Villa, Pagliarani fino a De Signoribus e Giampiero Neri e giungendo così sino a oggi), a contare per gli autori contemporanei può essere stata soprattutto la lezione proveniente dalle traduzioni di Roberto Sanesi e di altri attorno agli anni Sessanta e Settanta, i cui adattamenti dei versi anglosassoni sono stati vera palestra di stile per molti dei poeti venuti dopo.

Eppure anche dentro queste tendenze l’endecasillabo reste, per parodiare il Marinetti commentatore di D’Annunzio: come rileva acutamente Giovannetti, a proposito di versi indecisi tra suonare all’occhio o all’orecchio, è il caso dei falsi endecasillabi in Mazzoni e Gezzi, oppure del «fantasma del verso», che va a snidare in Ceriani, Pusterla e Viviani. E sempre a proposito di Mazzoni aggiungerei quanto notavo in quel vecchio scritto di metà anni Novanta: ossia come nelle prime sue prove l’endecasillabo (nella veste di verso narrativo) continui a restare dominante, magari variato dal décalage o dall’epentesi sillabica, in quelle che allora definii «narrazioni frattali» non perché frante e spezzate, ma al contrario per la costruzione ricorsiva ed i movimenti di contiguità metonimiche tra singolare e plurale. In particolare i versi eccedenti (dodecasillabici) in Mazzoni sembrano svilupparsi proprio su queste cadenze di quattro accenti forti, ad andamento prevalentemente dattilico, che possono ricordare il «rocking rhythm», in realtà basato sull’anfibraco (-+-), che però posto in successione da luogo a una sequenza -||+--+--+--+- in cui la prima atona può essere isolata come protetica: è una struttura questa, articolata su 4 o 5 piedi, che ha un’origine appunto primonovecentesca, nei poèmes en prose, ma che si ripropone come verso narrativo anche oggi (contiene molte parole e il suo sviluppo dattilico conserva echi epici o della metrica «barbara»).

Pasolini, dove si dilata lo spazio narrativo del poem, si ha la netta prevalenza dell’endecasillabo a quattro accenti, accanto a misure più lunghe come l’alessandrino. Ma già in Quasimodo sono stati notati andamenti affini, dove a endecasillabi in cui risuonano 4 accenti forti si affiancano versi più lunghi, dodecasillabi, sempre regolati dal battito a quattro. E questo approdo alle quattro battute è evidente ancor più nei poeti che usano una metrica libera: nei loro versi è infatti frequente la cadenza a tre accenti, caratteristica traccia dell’ascolto della metrica tradizionale, ma quando il verso si allunga (e la misura diventa in questo caso prevalentemente quella dell’endecasillabo), gli accenti passano a quattro. Un verso di quattro accenti in si trovava del resto già in Pavese e perfino in Montale, spesso costruito come endecasillabo ipermetro. Lo nota Fortini in un importantissimo scritto del 1958 in cui, leggendo i suoi contemporanei, afferma già che la «nuova metrica» quale si va formando all’uscita dal versoliberismo si basa proprio su un isocronismo di accenti destinato a generare nuove norme: persino negli stessi versi tradizionali, a ben guardare, la forma metrica cede a quella ritmica. Ed è poi la stessa «metrica all’occhio», quella che conta nella «lettura mentale» o «fra sé e sé», a generare una nuova regola prosodica, una dinamica del verso, in cui rientra anche l’attesa dei quattro accenti (nel caso specifico l’esempio dato è quello degli endecasillabi pasoliniani che generano la propria norma di lettura): «la promozione di un accento tonico ad accento ritmico si ha, esattamente come nella metrica tradizionale, quando si sia creata una conveniente attesa».

Un esempio, sempre secondo Fortini, verrebbe da quella lettura ritmica generata dalle convenzioni tipografiche (cita l’esempio della tipografia pubblicitaria: e viene da pensare alla ritmica di Broggi e al suo Coffee table book, che con le poesie costruite sulla base della titolistica di periodici sembra richiamare direttamente la teoria fortiniana). Una concezione affine sarebbe stata esplicitata di lì a qualche lustro nella peculiare teoria metrica di Amelia Rosselli, che si appoggia alle dimensioni spaziali della scrittura del verso, intese ovviamente non come spazio astratto percepito «in maniera del tutto meccanica o visuale», ma spazio strutturato dalla scansione logica dello scrivere e del parlare. La stessa partecipazione a una sfera di ascolti (piuttosto ampia, nel caso della Rosselli, che sovrappone tre lingue diverse) si compie ormai, lo ha notato parecchi anni fa Blanchot, come partecipazione a uno spazio di voci: non ha i contorni dell’oralità tradizionale, affidata al tempo, poiché l’ascolto si organizza su una scansione spaziale visiva che definisce uno

spazio sonoro secondo un mutamento nel rapporto fra spazio e discorso che la stampa ha introdotto

Nel documento Camillo Capolongo (pagine 158-166)