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IL VINCOLO E IL RITO.

Nel documento Camillo Capolongo (pagine 112-133)

Riflessioni sulla (non) necessità della metrica nella poesia italiana contemporanea

Il vincolo, la metrica e il rito

A che cosa serve l’artificiosità del vincolo che caratterizza la poesia nei confronti della prosa? Per quale ragione si coltiva così pervicacemente una forma di scrittura che si rifiuta di scorrere liberamente secondo l’andamento naturale del discorso?

Credo che la risposta debba essere cercata in un sospetto verso quella che potremmo chiamare la

trasparenza della parola, ovvero l’idea che il discorso verbale debba essere considerato uno strumento di espressione del pensiero, tendenzialmente senza residui. A questa visione ideale della

prosa – ideale perché in verità nemmeno la prosa più tecnica la raggiunge sino in fondo – la poesia contrappone una concezione della parola piuttosto come ambiente. In poesia la sequenza delle parole costruisce un piccolo mondo, i cui oggetti, come nel mondo reale, valgono sia per le loro proprietà fisiche che per quelle simboliche: un tavolo è un oggetto materiale, fatto di legno, metallo e plastica e in relazione spaziale con gli oggetti circostanti, non meno e non più di quanto esso sia il supporto per il rito del pranzo, il simbolo dell’unità famigliare, il ricordo della nonna a cui era appartenuto. Gli oggetti della poesia sono ovviamente le parole e le loro costruzioni, nella propria natura sonora e visiva (con tutte le loro complessità) non meno e non più di ciò per cui stanno (con tutta la complessità dell’universo del significato).

Nella misura in cui siamo abituati, nella vita di tutti i giorni, a un uso strumentale e trasparente della parola, la poesia cerca di restituirci una dimensione globale del linguaggio, in cui la parola riappaia come cosa simbolica e insieme materiale proprio come le altre cose del mondo. Il vincolo posto sulla dimensione del significante serve proprio a imporne la pertinenza, a togliergli ogni possibilità di trasparenza. L’artificiosità è necessaria proprio perché si fa notare. Quando non c’è nulla che si faccia notare non c’è infatti ragione di uscire dall’uso standard, quello assestato, banale: nel nostro caso, appunto, l’uso strumentale del linguaggio.

Riportare il linguaggio alla sua natura di cosa, di oggetto, non significa rivendicarne la naturalità. È per forza evidente che un costrutto linguistico è un manufatto, così come lo è un tavolo e come non lo è un albero. Che cosa resta al linguaggio se si prescinde dalla sua natura di strumento per comunicare idee? Credo che quello che resta sia proprio la sua natura di manufatto, e in particolare di manufatto collettivo: il linguaggio è esattamente ciò che i membri di una comunità linguistica hanno in comune, e che collettivamente hanno costruito e continuano a costruire. Ogni membro usa strumentalmente il linguaggio per i propri specifici scopi comunicativi, ma il linguaggio non è suo: anzi, il linguaggio è ciò che rende tale la comunità; è ciò attraverso cui i suoi membri si sentono uniti.

Per questo, sottolineare l’aspetto di ambiente del linguaggio poetico, piuttosto che di strumento, significa implicitamente sottolinearne una natura rituale.

Il rito è l’atto collettivo per eccellenza, quello che esiste e si perpetua e ha valore sociale indipendentemente dal significato simbolico che gli si attribuisce. I significati spesso cambiano nel tempo, attorno a un rito che nella sua essenza si perpetua(1). Prima di tutto, il rito agisce come atto collettivo, come evento in cui la comunità trova una consonanza, sia al proprio interno che nei confronti della natura circostante; e per farlo deve giocare, formalmente, proprio sugli elementi grazie ai quali la consonanza è possibile.

Le parole, in un rito, sono importanti, ma lo sono più come oggetti sociali comuni (o procedure condivise) che come veicoli di un significato. Abbiamo celebrato la Messa in latino per secoli senza problemi, anche quando quasi nessuno comprendeva più il latino: era molto più importante il rito in sé del significato delle parole che lo costituivano!

L’importanza che la poesia attribuisce alla dimensione del significante appartiene a questa stessa dimensione. Ogni componimento si presenta prima di tutto come una piccola occasione di celebrazione rituale, attraverso la quale ciascun lettore entra in consonanza con gli altri, indipendentemente dal significato.

Con questo non si vuole certo sminuire l’importanza della dimensione del significato, anche nella specifica prospettiva della significanza(2), cioè di quelle componenti di significato che stanno nelle relazioni prosodiche, fonetiche, in generale ritmiche. La poesia è certamente anche discorso, in cui il linguaggio viene utilizzato come strumento per esprimere delle idee. Essendo fatta di parole non potrebbe non esserlo. E il discorso si costruisce anche attraverso aspetti relazionali tra le sue parti e attraverso sfumature sonore e visive.

Tuttavia, se non ci rendiamo conto che lo specifico della poesia è essere un discorso trasmesso attraverso una situazione rituale, che tende a costruire una consonanza collettiva, una Stimmung(3); se non ci rendiamo conto di questa natura duplice non capiamo neppure bene che differenza ci sia tra poesia e prosa – e ci ridurremo a pensare che la poesia sia quel tipo di discorso in cui si va a capo in maniera arbitraria, a differenza della prosa, senza capire bene il perché.

Il vincolo serve dunque a questo: a spostare l’attenzione sulla natura rituale e condivisa del testo poetico, impedendone una prensione esclusivamente strumentale, esclusivamente discorsiva.

Il tipo di vincolo che ha caratterizzato una forma nata nell’oralità, come la poesia, è ovviamente il vincolo metrico, nelle sue tante forme (quantità, sillabicità, tonicità, rime, allitterazioni…). Sinché la poesia è stata orale, o è stata scritta esclusivamente in funzione della sua esecuzione orale, il vincolo metrico ha procurato quegli aspetti di artificio che garantiscono la distinzione dal discorso puramente strumentale. Tuttavia, nella misura in cui la dimensione scritta (e quindi visiva) ha acquisito importanza, e quindi autonomia, sono andati affermandosi altri tipi di vincoli possibili, di carattere per l’appunto visivo.

Senza arrivare agli estremi della forma secentesca del calligramma, si pensi soltanto all’importanza, per noi, della resa grafica dell’a capo. Nell’esecuzione orale l’a capo non c’è, ed è l’organizzazione metrica stessa a definire i limiti del verso. I greci e i romani non andavano a capo scrivendo (non segnavano nemmeno lo spazio tra le parole, se è per questo). Nel Medioevo, quando la pergamena era costosissima e bisognava ottimizzare lo spazio di scrittura, la fine di verso era segnata spesso solo da una virga, quello che oggi chiamiamo barra o slash (“/”). Per noi, viceversa, il vincolo visivo dell’a capo è così importante che riportare un testo poetico con le barre al posto degli a capo è qualcosa che viene permesso solo nelle citazioni e per ragioni locali di spazio.

Come vedremo più sotto, vi sono casi di uso del verso libero in cui l’a capo non ha sostanziali ragioni metriche, ed è soprattutto un vincolo di carattere visivo.

Sulla scorta del calligramma secentesco, esiste poi nel Novecento un’intera tradizione di poesia visiva e concreta che si basa sostanzialmente su vincoli di carattere visivo, senza alcuna rilevanza metrica.

Si potrebbe certo proporre di allargare la nozione di metrica a fenomeni che tradizionalmente non ne fanno parte (una metrica visiva, una metrica del significato…); ma credo che sia meglio preservare la distinzione tra termini che hanno, ciascuno, una propria ragion d’essere. Ci troveremo perciò in queste pagine a parlare in generale di vincolo, considerando la metrica come il suo sottoinsieme che riguarda gli aspetti sonori del discorso. Nell’universo della metrica ci capiterà poi di parlare di metrica canonica (o metrica tradizionale) per fare riferimento all’insieme di regole che ci arriva dalla tradizione (non solo italiana: le metriche germaniche o slave non sono meno canoniche); e infine ci capiterà di fare riferimento specifico alla metrica canonica italiana (o

metrica tradizionale italiana). Queste distinzioni sono importanti: un componimento poetico oggi

può essere in qualche modo metrico senza far riferimento diretto a una metrica canonica, oppure può rifarsi a una metrica canonica accentuativa (e non sillabica), che è estranea alla tradizione italiana.

L’ultima istituzione metrica forte che rimane nella poesia contemporanea è certamente il verso. Sia che possieda vincoli di qualche tipo al suo interno, sia che internamente scorra senza vincoli metrici, come prosa, la presenza del verso continua ad alludere alla presenza del respiro, e a porsi quindi come un’unità di carattere sonoro, oltre che visivo. Si può fare poesia anche utilizzando vincoli alternativi al verso; ma la presenza del verso dichiara inequivocabilmente che si sta facendo poesia.

Le tradizioni metriche sono in gran parte strutturate proprio sull’organizzazione interna del verso; tuttavia il verso moderno può possedere ma anche non possedere una struttura metrica al suo interno. A prescindere da questo, il verso resta una struttura metrica perché ripartisce artificiosamente il flusso del testo verbale, e nel farlo dichiara inevitabilmente il maggiore o minore rilievo di determinate posizioni, in maniera indipendente dalla sintassi o dal senso. Poiché allude al respiro e ai suoi andamenti, il verso mette in rilievo ciò che si trova nei punti di attacco e soprattutto di conclusione: dove la voce riprende e soprattutto dove conclude.

Si tratta anche di impliciti rilievi visivi. Proprio per questo il verso (magari in forma di versicolo) può essere anche una forma limite tra la metrica e altri tipi di vincoli.

Il vincolo e l’espressione dell’io

Prima di iniziare la nostra piccola esplorazione sulla sorte della metrica e del vincolo nella poesia contemporanea italiana, è necessaria un’altra riflessione. Se consideriamo la metrica, e in generale il vincolo, come garante della dimensione collettiva della poesia, sarà necessario che le forme di tale vincolo siano collettivamente riconoscibili: non si può partecipare a un rito se non se ne riconosce la forma.

Questo naturalmente non comporta che la metrica canonica italiana sia l’unico tipo di vincolo a godere di questo privilegio; però certamente sino al momento in cui essa è stata la regola da cui non si poteva prescindere, la metrica tradizionale ha garantito una fortissima dimensione collettiva e rituale.

Il Romanticismo ha progressivamente distrutto questo utile privilegio. Il trionfo della lirica non è consistito solamente in un’alta frequenza dei temi di carattere personale e intimistico, ma anche(4) in una continua rivoluzione personale delle regole metriche, attraverso la quale la soggettività del poeta potesse trovare espressione non solo attraverso il messaggio espresso, ma anche, più compiutamente, attraverso la forma della sua espressione.

Si tratta di una ricerca con caratteristiche paradossali. L’espressione più completa dell’io si dà, idealmente, nella completa abolizione delle regole, cioè dei vincoli – come sognavano di fare i surrealisti attraverso i loro automatistici cadaveri squisiti. Ma se si abolisce del tutto il vincolo ci si trova certamente al di fuori del campo della poesia.

D’altra parte, come scoprirono, loro malgrado, i surrealisti stessi, i vincoli e le regole vengono espressi anche dall’inconscio; e questo, checché ne pensassero loro, non rappresenta il fallimento della loro sperimentazione, bensì piuttosto la prova che la collettività e il rito collettivo hanno radici profonde persino nella psiche individuale.

Proprio per questo è possibile una ricerca espressiva che sia insieme anche ricerca metrica, in cui le forme che esprimono la soggettività del discorso dell’autore siano riconoscibili in certi casi come forme cui sia possibile accordarsi collettivamente. La ricerca formale della poesia dal Romanticismo in poi è esattamente questa; ed è la ricerca che caratterizza un’epoca che, per dirla con Adorno, ha definitivamente perduto l’età dell’innocenza, e non può mai dare per scontato un principio di accordo collettivo precedente.

Così, non basta escludere l’io dal discorso per pensare di potersi posizionare dopo la lirica. L’io lirico e la soggettività vivono prepotentemente già nell’innovazione formale, e nella ricerca metrica. Quello che la contemporaneità può fare è, al più, di cercare forme espressive che siano anche forme su cui ci si possa riconoscere collettivamente, magari richiamandosi alla metrica canonica italiana, o

magari ad altre metriche canoniche, oppure mettendo in gioco ancora altri tipi di vincoli, già noti al pubblico anche soltanto in contesti differenti, e quindi riconoscibili – ma qui ugualmente carichi di forza espressiva in quanto sufficientemente nuovi per il contesto poetico.

Il petrarchismo, in questo senso, non è il termine di paragone negativo per il superamento della lirica. L’espressione soggettiva che domina nei soggetti delle poesie petrarchesche e petrarchiste è sempre inserita nel contesto di una metrica non solo assolutamente canonica, ma i cui vincoli sono addirittura più stretti di quelli standard (un esempio tra i vari, il divieto di accento sulla settima sillaba dell’endecasillabo) e di conseguenza ancora più facilmente riconoscibili. Il lirismo petrarchista viene perciò, molto più di quello romantico, mediato dalla dimensione rituale che questa metrica rigorosa mette in gioco.

Si tratta di un rapporto tra espressione soggettiva e Stimmung collettiva che rimane inattingibile alla poesia contemporanea, per la quale il metro non riesce più a essere qualcosa di dato a priori, ma è sempre scelto, persino quando si sceglie il metro italiano più canonico possibile.

È la condizione paradossale in cui si trova a esistere un genere che continua a perseguire la

Stimmung collettiva in un’epoca in cui domina il discorso, inteso come espressione soggettiva (di

passionali emozioni o razionali opinioni) di un individuo che viene comunque considerato il centro rilevante delle concezioni sociali. Ci piaccia o non ci piaccia, il ruolo dell’individuo nel gioco sociale è oggi molto più sentito come rilevante che non in qualsiasi altra epoca che abbia preceduto la nostra.

Di conseguenza, qualsiasi epos che sia per noi riconoscibile come a noi contemporaneo sarà inevitabilmente un epos di individui. Non c’è da stupirsi che l’universo della poesia coincida sostanzialmente, dal Romanticismo in poi, con quello della lirica: la lirica è la nostra epica, è la nostra tragedia, ed è lirica, in fin dei conti, anche la nostra satira.

Poesia sonora, orale, scritta e visiva

Credo che per chiarire le condizioni di questa analisi sia opportuno impostare una distinzione di fondo tra quelli che potremmo definire quattro diversi tipi di poesia, che chiamerò rispettivamente

poesia sonora, poesia orale, poesia scritta e poesia visiva. Intenderò per poesia orale non solo

quella che nasce come tale (ammesso che in Italia esista ancora) ma anche e soprattutto quella poesia che è destinata prima di tutto a una fruizione orale, e la cui versione scritta può davvero essere considerata solo un supporto mnemonico, una specie di partitura. La poesia orale confina con la poesia sonora, che è forse più un’arte del suono che della parola, avvicinata alla musica almeno dagli esperimenti concreti di Pierre Schaeffer in poi. Non mi interessa discutere in questa sede se la poesia sonora possa ancora davvero essere considerata poesia: semplicemente, per gli scopi di questo discorso, si trova fuori dai confini di ciò di cui mi interessa parlare. La poesia visiva, analogamente, sul confine opposto, sarà quella che si sviluppa in maniera sostanziale sul proprio supporto visivo, carta o video che sia, e che può prescindere del tutto da un’esecuzione vocale. La sua eventuale esecuzione vocale non è impossibile, ma si tratta comunque della creazione di un’opera altra, di un “liberamente tratto da” – quasi come se si eseguisse vocalmente un dipinto. Anche della poesia visiva, in particolare della sua variante concreta, si può discutere se essa rimanga ancora nell’ambito della poesia o se già si trovi in quello delle arti figurative; ma non mi interessa farlo qui. Parlerò di poesia visiva solo come limite, e più in particolare per le importanti ricadute che ha sulla poesia scritta.

Il vasto territorio che si trova tra la poesia orale e quella visiva è infatti quello della poesia scritta, che vive una natura ambigua tra la scrittura (visiva) e la possibilità della sua vocalizzazione. La gran parte della poesia italiana recente è ovviamente di questo ultimo tipo.

La poesia che nasce per la vocalità e che vive la sua più autentica esistenza nelle performance orali tende frequentemente a una ricerca metrica che si rifà a modelli canonici, oppure a modelli arcaici,

che potremmo definire pre-canonici, con qualche elemento in comune con la metrica delle canzonette musicali – pur se, di solito, con un diverso livello di consapevolezza.

Così non va, non va, non va, ti dico che così non va: come una supernova esplosa come un astro strizzato di fresco come la tua bocca stanca e tesa accelerata come particella ora non so più nemmeno se sia una stella o invece pajette incollata allo sguardo scheggia di diamante che ti fora le pupille o desiderio di luce che sfarfalla all’orizzonte dell’ultimo oltremondo viaggio condanna che ci danna panna acida che ingozza la parola che ora già ci strozza perché così non va, non va, non va: è ormai soltanto un buco nero di sentimenti e fiati amore addomesticato casalingo come un tigre prigioniero o invece credi che dovremmo dimissionare l’anima e restar lì a vedere se alla fine ci sarà il premio il lingotto la crociera che ci crocifigge lo sforzo che infine ci infigge nel ricordo lo share di un suicidio spettacolare e notiziabile sintesi ultima dello scibile di noi genere umano di noi genere estinto di noi umani generati usati rottamati

(se ti parlo ormai non mi parlo, se mi parlo ormai non ti parlo e se ne parlo credimi è solo perché nel fiato che si elide in pensieri resta la nostalgia di quando era ieri)

Questo Lai del ragionare lento, di Lello Voce (da Piccola cucina cannibale, 2011) rimanda per esempio ai generi medievali persino nel titolo, e condivide con la poesia fondamentalmente orale dell’epoca dei trovatori l’oscillazione “tra il principio sillabico di misurazione del verso attraverso il computo delle sillabe e il principio tonico di misurazione del verso attraverso il computo delle parole”(5). A questi possiamo aggiungere l’uso, anch’esso di origine medievale, dei parallelismi lessicali.

Sono tutte caratteristiche che si ritrovano, spesso con aspetto differente, nell’andamento del rap, al cui ritmo ossessivo, solcato da un ritorno frequente ma imprevedibile di rime, si avvicina comunque l’esecuzione vocale di Voce. In tutti questi casi, poesia trobadorica, canzonetta e rap, il computo delle sillabe è inevitabilmente approssimativo, perché il battito di riferimento è di carattere musicale e concreto, e la voce del performer (recitante o cantante che sia) può facilmente giocare di piccoli rallentamenti e accelerazioni nell’esecuzione delle singole sillabe per adeguare la cadenza degli accenti al battito, neutralizzando le piccole differenze nel computo.

Così, il gioco dei rallentamenti e delle accelerazioni locali si presta a sua volta alle necessità espressive, mentre la regolarità del battito garantisce la possibilità di una Stimmung. Qua e là, l’esecuzione può persino permettersi di occultare prosodicamente la cesura di fine verso, mettendo in evidenza la scarsa significatività, qui, del verso in quanto tale. Del resto, la rilevanza della misura versale viene negata anche dalla posizione irregolare delle rime – le quali nascono invece, storicamente, proprio nel tipo di poesia medievale cui Voce fa riferimento, per rafforzare l’identità del verso, non sufficientemente sostenuta dalla debolezza delle altre misure, sillabica o tonica. Non si tratta perciò di una ripresa per citazione, di un neo-trobadorismo, ma di un semplice recupero di alcuni aspetti dell’ultima poesia italiana schiettamente orale, per produrne di nuova, sposati con altri aspetti più facilmente riconoscibili come contemporanei – e quindi più adatti alla

Stimmung.

L’esempio di Voce non copre ovviamente l’intero campo della poesia orale, la quale è comunque sempre poesia chiaramente metrica, anche se possono variare i sistemi metrici tradizionali di riferimento, e il modo in cui li si tratta.

L’aspetto interessante della poesia visiva per il nostro discorso è che essa introduce nel campo della poesia una serie di vincoli che non sono in nessun modo di carattere metrico, in quanto – appunto –

Nel documento Camillo Capolongo (pagine 112-133)