METRICA LIBERA E BIOGRAFIA(*)
12 Ho toccàto la felicità stasera↓↑→ 3 9 11
17 (9+9) solo perché ero stato vìa | per una settimàna intera↓→ 1 - - 4 - - - 8 - - - 14 - 16 - 19 (9+10) senza pensare, lo confesso, | più di tanto a voi per tutto il tempo,↓→ - - - 4 - - - 8 - - - 12 - 14 - 16 - 18 - 11 preso da chissà quàli àltri pensieri↑→ 1 - - - 5 6 7 - - 10 -
9 – di spostamento, di lavoro –↑ - - - 4 - - - 8 - 9 mi ero come dimenticato→ - - 3 - - - - 8 - 13 della mia sòla fònte di sostentamento,↓→ - - - 4 - 6 - - - 12 - 9 del mio bambino e del mio amore,↓→ - - - 4 - - - 8 –
14 prìma di aprìre la pòrta di càsa stasèra.↓ 1 - - 4 - - 7 - - 10 - - 13 - 15 (7+9)(11+5) E la stanchezza, no, | non è svanita | in quel momento↓→ - - - 4 - 6 - - - 10 - - - 14 - 13 ma si è fidàta della vòstra leggerèzza,↓→ - - - 4 - - - 8 - - - 12 - 13 (9+5)(7+7) sciogliendosi per questo | in noi | o innalzandosi.↓ - 2 - - - 6 - 8 - - - 12 - - 16 (9+7)(5+11) In questa nostra | zona franca | ma non senza memoria→↑ - 2 - 4 - 6 - 8 - - 11 12 - - 15 - 11 siamo ancòra nel momènto in cui scrivo↓→ 1 - 3 - - - 7 - - 10 –
16 (7+11)(11+6) e mi allontano, sì, | da noi, da casa | nostra ma per poco,↓→ - - - 4 - 6 - 8 - 10 - 12 - - -15 - 15 (11+5)(7+9) per quel tanto che basta | a raccontare e ringraziare↑→ - - 3 - - 6 - - - 10 - - - 14 - 13 (7+7) di leggerèzza e vìta, | e di dimenticanza.↓ - - - 4 - 6 - - - 12 -
Il testo è qui accompagnato da una quantità di numeri e brutti segni che, come minimo, sortiranno l’effetto di allertare il lettore sui fatti formali, inibendo una fruizione immediata, ma posso garantire che in condizioni normali di lettura i pensieri del ricercatore universitario rispetto a una poesia di questo genere sono sostanzialmente due. Chi non è abituato a leggere poesia contemporanea la sente subito come troppo “sentimentale”: una sbrodolata privatistica con qualche cosa di strano. Oppure, dato che molti critici di poesia contemporanea sono ossessionati dalla posizione del soggetto nei confronti del testo, alcuni potranno condannare questa poesia considerando che il soggetto non è à la page, c’è troppo “io”; oppure la salveranno sullo stesso piano perché vi vedranno tutto il significato allegorico di questo “io”, con una serie di complicati (e magari anche corretti) ragionamenti. Il punto è che a nessuno, nemmeno se fa il critico stilistico, di solito viene in mente di considerare che lì dentro ci possa essere un sapere formale (nella prosodia, nei ritmi, nella sintassi, nell’intonazione). Al massimo sente che c’è qualcosa, appunto, di strano, ma non pensa che ciò sia analizzabile con gli strumenti della stilistica classica e con le cognizioni che ormai sono disponibili a tutti sulla metrica libera del Novecento. Non ho lo spazio di fare un’analisi formale come dio comanda, ma provo a chiosare qualcuno di quei segnacci.
Intanto: vi sono solo due endecasillabi, o meglio: uno (v. 4) più una misura di 11 sillabe con accentazione irregolare “larga” di 3ª e 7ª (quartultimo verso). Eppure, se diamo uno sguardo ai ritmi segnalati a destra, si vede come gli ictus siano giocati in larga maggioranza su sedi pari e, oltre a questo, su sedi che sono quasi sempre quelle canoniche dell’endecasillabo, indipendentemente dalla misura del verso interessato, e anche dalla misura dei versi incistati. Basta controllare per esempio il ritmo dei novenari presenti (in qualsiasi veste): sempre – con l’eccezione del v. 6 – di 4ª e 8ª, o giambico, o di 2ª6ª8ª.
Mi pare insomma che qui il dominio ritmico di ciò che fu l’endecasillabo sia quasi totale. Malgrado non ci sia niente di manifestamente ortodosso sul piano della misura dei versi, l’autore di questo testo è per forza un “classicista” e la sua psicologia della forma non può che essere derivata o almeno imparentata con quella di Petrarca. Fanno pensare alla tradizione petrarchista alcune marche tipiche, come la concomitanza di tre ictus consecutivi (!) al v. 4, fomentati anche dalle vocali toniche omotimbriche in «chissà quali altri», con sinalefe forte, dura, in sesta e settima più clausola esametrica. Va da sé un conseguente rallentamento auto-riflessivo del verso («preso da chissà quali altri pensieri»). La stessa clausola esametrica dopo ictus di sesta e settima ritorna più sotto, con diversa morfologia, alla fine del quintultimo verso, che appunto, volendo, termina con un endecasillabo («zona franca ma nòn sènza memoria»), dove la figura ritmica, per passare inosservata, si affida al bassissimo tenore accentuale dei due termini interessati.
Faccio notare di passaggio che queste realizzazioni sono molto diverse da quelle anni Sessanta del poeta che più ha cercato di misurarsi con la rappresentazione della lingua viva in quegli anni, che è Sereni, il quale è anche il mio nume tutelare e il mio idolo polemico. Dire «preso da chissà quali altri pensieri» è diverso che dire «che sui terrazzi un vivo alito muove» o «con le rade ci bacia ultime stille»: da una parte si gioca con l’espressione parlata e dall’altra si gioca con Parini e forse con D’Annunzio. Da una parte il petrarchismo fa di tutto per passare inosservato, dall’altra il petrarchismo funge da contraltare nobilitante e da lasciapassare per i toni colloquiali che Sereni infonde alchemicamente nei suoi testi.
Una caratteristica generale della poesia in esame è proprio il basso tenore accentuale, che si deve a diversi fattori, primo dei quali è il tono lessicale e sintattico, che si mantiene sempre rigorosamente su modalità realistiche e “parlate”, così parlate da risultare a volte eccessive, sbagliate: faccio gli errori o le imperfezioni di stile di chi pensa parlando. Depongono a favore, per esempio, la determinazione «più di tanto» (v. 3) che è semanticamente e melodicamente pleonastica, troppo cavillosa per un testo scritto, o l’uso para-dubitativo del come in «mi ero come dimenticato» al v. 6, e ancora «per quel tanto» (penultimo verso), che con disinvoltura eccessiva viene posto a contatto con un «per poco», dove per altro tanto vuol dire appunto poco, «un tot»: espressioni nelle quali vi è sì qualche cosa di ricercato, ma anche di sgraziato, di buttato via. Nel complesso anche l’accentazione sembra piuttosto “distratta”, apparentemente fuori controllo perché l’esecuzione stessa è di continuo attirata, attratta, da fattori diversi, di natura soprattutto intonativa ma anche timbrica e prosodica, fattori che costituiscono una specie di rumore di fondo, con effetti non secondari sulla scansione stessa. È questo frastuono di fondo, e le ambiguità che genera, che ci obbliga al rallentamento del dettato, come in ogni lirica che si rispetti. Sappiamo però che quando si persegue un andamento di lingua parlata, come qui, il numero degli accenti cala, la densità degli ictus nei versi di solito è bassa. E questa poesia non fa eccezione: gli ictus di norma sono distanziati, come nel discorso comune, tanto più che nei tre momenti di maggiore densità ritmica, dove si indulge un poco verso sequenze giambiche, che sono i versi 3, quintultimo e terzultimo, in realtà il tenore accentuale si abbassa particolarmente, come è quasi normale che accada ai ritmi giambici in contesti discorsivi.
Riassumendo i tratti fin qui enucleati, la poesia si distingue per: ritmo endecasillabico, lingua di registro parlato, accenti lontani tra loro e/o piuttosto deboli. Ma allora perché non si corre? Perché l’effetto è sempre di una dizione rallentata? Non mi soffermo su quelli che sono i fattori prosodici del rallentamento in atto e cerco di descrivere quello che avviene sul piano melodico intonativo, che è forse il punto di maggiore impegno del testo, ed è anche il livello che permea di sé tutto il resto. Le piccole frecce poste alla fine dei versi rappresentano un tentativo maldestro di segnalarne il profilo intonativo. Freccia in giù (↓) = intonazione discendente, assertiva o conclusiva di un discorso. Freccia in su (↑) = intonazione ascendente, quando ci si aspetta una risposta melodica al verso successivo (è anche, grosso modo, il profilo tipico delle incidentali o parentetiche, come in «– di spostamento, di lavoro –», v. 5, con inalzamento melodico sensibilissimo alla fine del profilo stesso. Freccia orizzontale (→) = intonazione sospesa, in quei casi dove certamente il discorso non si chiude, ma nemmeno viene formulata una domanda melodica forte, poiché non è chiaro se la risposta che ci si attende debba venire per forza al verso successivo, oppure se si debba star sospesi, appunto.
Ciò che conta è che in questa poesia, e forse particolarmente nella prima strofa, l’intonazione non è mai del tutto univoca. Non lo è del tutto, secondo me, nemmeno nei versi di chiusura dei tre periodi-strofe, sebbene io l’abbia segnalata discendente (↓). In generale, l’intonazione è ambigua, o
meglio sempre dibattuta, in bilico tra un profilo ascendente o sospensivo, e la tentazione di chiudere lì ogni volta il discorso, quasi a ogni finale di verso. Tutto ciò è assolutamente e immediatamente petrarchesco. Gli effetti di rallentamento di cui cerco di parlare sono dovuti soprattutto al disorientamento melodico del lettore/ascoltatore, che è costretto a fermarsi per capire che cosa sta accadendo. La categoria è quella di un “sublime dal basso”, una ricerca di lirismo “alto” attraverso i mezzi della lingua comune.
Bisognerà sottolineare che questi determinati effetti di spaesamento ritmico intonativo, così come certe compagini e certi controcanti di questi con la sintassi, sono privilegio di un regime di metrica libera. La durata di un verso, per esempio, è fondamentale per il suo assetto intonativo. Un verso lungo reclama di per sé un’intonazione discendente molto più di un verso breve, un verso sesquipedale, a maggior ragione, è sempre interessato da un certo “sfinimento enunciativo”, eccetera. La libertà e quindi la facoltatività dell’andare a capo aprono un ventaglio infinito di possibili variazioni melodiche, e la poesia contemporanea è molto lontana dall’aver esaurito le proprie potenzialità in tal senso.
Faccio notare, ancora di passaggio, che quanto fin qui descritto è altra cosa rispetto a ciò che accade in Sereni. Qui non c’è, come in Sereni, dialettica o fusione tra “aulico” e “colloquiale”, ma tutto è giocato sul luogo comune, sulla lingua comune, e l’aulico si insinua nei versi tendenzialmente all’insaputa e come sotto il naso del lettore: sfiderei chi vuole a definire come “letterariamente connotati”, e non invece rispondenti a possibilità reali di un certo tipo di idioletto “parlato”, i lievi spostamenti sintattici presenti nella mia poesia.
Ma parlavo di ripercussioni non secondarie sulla scansione. Devo prenderla un po’ alla larga. L’aspetto che voglio sottolineare è questo: nell’endecasillabo italiano, e nel genere “lirica”, la successione di parecchie sillabe atone può essere portatrice di instabilità ritmica, producendo fenomeni che chiamerò di “aura accentuale” su termini normalmente atoni. Voglio dire che in certi particolari contesti accade il contrario di ciò che dovrebbe accadere normalmente: ossia che a un numero limitato di ictus corrisponda una esecuzione veloce. Non sto parlando, o non solo, dei casi – relativamente frequenti in tutti i secoli – di tonificazione “forzata” di una sillaba per il cosiddetto criterio dello “spazio atono”, come l’ictus sulla seconda sede in «e nòn raggiungeranno il crudo azzurro» (Zanzotto) o in «e còn quell’imbroglione da operetta» (Valduga, nel brano riportato sopra): qui non c’è nessuna instabilità ritmica, ma solo un reale ictus di seconda, necessario all’esecuzione più che ad astratti schemi di scansione, in un endecasillabo che altrimenti sarebbe di sola sesta. Di norma infatti, in presenza di un ictus in prima sede, non si sente la necessità di accenti ulteriori fra prima e sesta, nemmeno dove sarebbe pur possibile («ànni dove l’attèsa mi dissolse» (ancora Zanzotto). Questo farebbe pensare che per avere tali fenomeni di tonificazione lo spazio atono non dovrebbe essere inferiore alle 5 sillabe. Nell’endecasillabo ciò accade più spesso prima della 6ª, oppure fra 4ª e 10ª sede, come in Saba («fumo lontano della vaporiera», «pieno di canti e di malinconia») e Zanzotto («su tutto il folto della primavera», «e invernali ombre di reticolati», «cerule all’orlo della solitudine»). Ma questi casi fra 4ª e 10ª sono diversi da quelli che si verificano prima della 6ª. Qui non siamo affatto obbligati a far sentire l’ictus di 6ª sulle preposizioni e, soprattutto se il contesto è di metrica libera, questi endecasillabi potrebbero benissimo essere classificati come ritmicamente anomali e veloci, tanto è vero che ne possiamo rinvenire a iosa in altri autori più “prosastici” dei due citati. Ad essere determinante perché noi sentiamo di essere alla presenza di un elemento di instabilità ritmica e non di un verso fatto male, magari anche
volutamente male, è il contesto, il tono generale del contesto, il grado di rallentamento lirico cui
l’autore sottopone la sua dizione nella sequenza specifica, grazie ad accorgimenti specifici e analizzabili con gli strumenti della stilistica. Quei versi, presi singolarmente, non ci parlano. Se invece li leggessimo nel loro contesto immediato, chiunque sentirebbe che lì c’è sotto qualcosa di molto simile a un accento, che è appunto quello che oserei definire “accento d’aura”. Il primo effetto del quale non è tanto di tonificare o meno la sillaba interessata, bensì di produrre instabilità, ambiguità ritmica e dunque rallentamento, autoriflessività, proprio in corrispondenza di elementi secondari della catena sintattica, che sono posti sotto “l’aura” istituzionale di ciò che fu un ictus di 6ª nella tradizione endecasillabica.
Ma che cosa succede fuori dell’endecasillabo, cioè in contesti di metrica libera? Proviamo a cercare gli intervalli di cinque sillabe atone nella poesia che abbiamo. Ciò si verifica quattro volte: ai vv. 1, 2, 7 e all’ultimo. Ufficialmente diciamo che il verso 7 («della mia sola fonte di sostentamento») è un tredecasillabo di 4ª6ª12ª, ma spero che tutti sentano che il monosillabo di in 8ª sede risplende di “aura ritmica”. L’ultimo verso («di leggerezza e vita, e di dimenticanza») è del tutto identico
(4ª6ª12ª più un’8ª “auratica” su di) con in più la virgola e altri fattori di rallentamento autoriflessivo, che sono la stessa posizione finale del verso, la assillabazione “cacofonica” di di («di
dimenticanza»), la tonica omotimbrica su vita e l’insistenza sulle dentali. Ci sono però dei fattori
comuni ai due versi, oltre a quelli intonativi generali del testo, che favoriscono l’aura su di: il ritmo di 4ª e 6ª (endecasillabico) che spinge per inerzia orizzontale sull’8ª, e la presenza di un pentasillabo finale (sostentamento e dimenticanza) fatto in modo che la seconda sillaba (cioè la 10ª in un presunto endecasillabo) è passibile di accento secondario (sosténta-mento, diménti-canza) un accento in entrambi i casi motivato linguisticamente e percepibile per il fatto che è un accento originario (tematico) di una parola ottenuta con pesante suffissazione (cfr. sosténto e diméntico). Allora in questi casi il di è “auratico” per il fatto di proseguire un ritmo giambico di 4ª e 6ª e per essere seguito da uno pseudo ictus sulla 10ª. I due versi sono para-endecasillabici e la preposizione in 8ª sede eredita anche quel poco di “tono” che sarebbe nella 10ª sillaba. Inoltre il ritmo giambico continua in dodicesima. Il discorso vale anche se consideriamo le differenze fra i due: il primo è un endecasillabo con “giunta” bisillabica iniziale («della mia sola fonte di sostentamento»), il secondo è un doppio settenario («di leggerezza e vita, | e di dimenticanza»), ma la resa sul profilo istituzionale è identica. Non mi soffermo sui vv. 1 e 2 (aura su la e su una), dove il discorso si complica e il lettore è libero di sentire l’aura o meno. Io la sento soprattutto al primo verso, dove la questione è spinosa proprio perché, essendo l’incipit, non abbiamo a disposizione il contesto. Avremmo però a supporto due fattori di rallentamento dell’elocuzione: il timbro ribadito della vocale a («toccàto là felicità») e l’intonazione del verso davvero molto ambigua.
Chiudo qui, e ripeto: non credo che l’evenienza di questi “accenti d’aura” su elementi atoni si possa razionalizzare in una legge generale, né che si tratti di una caratteristica prosodica dell’italiano. In autori e contesti diversi tutto ciò non ha motivo di accadere. Si tratta solo del fatto che certi autori, in situazione di metrica libera, giocano sulla memoria ritmica della tradizione endecasillabica e attraverso determinati accorgimenti di rallentamento generale della sequenza, in contesti caratterizzati da un’attesa di “lirica”, sfruttano queste possibilità di aura accentuale. La versificazione libera contemporanea è fatta anche di queste cose.
Stefano Dal Bianco
Note.
(*) Pubblico qui senza variazioni un intervento rimasto inedito per varie vicissitudini. Il testo, che risente della sua
prima destinazione orale, fu pronunciato al convegno «Metrica italiana e discipline letterarie» (Università di Verona, 8- 10 maggio 2008). Era dunque rivolto a un pubblico di studiosi e specialisti di metrica italiana.
(1) Parlo supergiù dei nati nel decennio 1955-65, con eccezioni soprattutto all’indietro, tra i più anziani (Umberto Fiori,
Silvia Bre).
(2) Si veda Un’altra storia. Petrarca nel Novecento italiano, Atti del Convegno di Roma, 4-6 ottobre 2001, a cura di
Andrea Cortellessa, Roma, Bulzoni 2004, numero monografico di «Studi (e testi) italiani», 14, 2004.
(3) Pier Vincenzo Mengaldo, Questioni metriche novecentesche, in La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino,
Einaudi 1991, p. 65.
(4) Sui rapporti tra l’Ipersonetto zanzottiano e alcuni poeti successivi rimando al mio articolo L’influenza di Zanzotto sulla poesia recente, «Baldus», V, 3, III Quadrimestre 1995, Nuova serie, pp. 88-92.
(5) Milano, Garzanti 1996. (6) Torino, Einaudi 2001.
(7) Particolarmente in Frasca, la monotonia ritmico intonativa è certo voluta e funzionale alla poetica performativa
dell’autore, che peraltro, e proprio per questo, evita di misurarsi con le inflessioni del parlato. Si noti anche che la probabile tonificazione della prima sillaba di disperatamente, nell’ultimo verso, si deve a inerzia ritmica verticale: dunque niente di trascendentale, ma ci servirà più avanti.
(8) Un discorso a parte meriterebbe la disinvoltura ritmica degli endecasillabi di Cesare Viviani, soprattutto ne L’amore delle parti (1981) e nel successivo Merisi (1986), mirata a depsicologizzare i contenuti in funzione di una liberazione
dall’ossessione del senso nei lettori di quegli anni.
IL VERSO LIBERO E IL VERSO NECESSARIO