Memoriré è una raccolta di centotré(1) componimenti nei quali prevale la forma della strofa
tetrastica, organizzata in diversi tipi di combinazioni. Le poesie composte da due strofe tetrastiche (4 + 4) sono quaranta(2), una delle quali ha un verso singolo che anticipa le due strofe(3): si tratta dunque del gruppo di gran lunga più nutrito. Seguono, per frequenza, le trenta poesie formate da tre strofe tetrastiche (4 + 4 + 4)(4), le undici formate da quattro strofe tetrastiche (4 + 4 + 4 + 4)(5) – due delle quali scritte di seguito con le barre inclinate a dividere versi e strofe(6) – e l’unicum di una strofa tetrastica, una esastica e un’altra tetrastica (4 + 6 + 4; un’allusione a un possibile sonetto scaleno?)(7). I sonetti sono in tutto ventuno, diciannove tradizionali(8), uno inverso(9) e uno ampliato da una strofa tetrastica (4 + 4 + 4 + 3 + 3)(10), che si presenta scritto senza gli a capo, ma solo con le barre inclinate a dividere versi e strofe. Per quanto i numeri diano la supremazia alla strofa tetrastica in gruppi di due, tre e quattro consecutive, il sonetto ha un ruolo preminente, sia perché è protagonista di una intera sezione, sia perché apre (con un sonetto inverso) e chiude (con un sonetto tradizionale) il volume, trovando in questo modo un posto di rilievo anche entro gli
Apici.
I versi usati da Ceriani vanno da misure estremamente brevi, come il quadrisillabo sdrucciolo «– dài compàrtiti –» (L’idromè alla mela, v. 2), a misure molto lunghe, come «sagoma d’uccello che in un emistichio leonardesco si stecchiva?» che chiude la poesia di apertura di Ancora gli apici, Una
stella occhiuta è al firmamento. Vedremo nel particolare i versi dei componimenti che si vanno ad
analizzare.
In questa sede si vuole dare una lettura metrica di alcuni casi esemplari di Memoriré, tenendo sempre presente gli ottimi saggi di Zucco(11) e Giovannetti(12), che già hanno fornito analisi accurate e approfondite della poesia di Ceriani.
Il primo sonetto della seconda parte di Memoriré, intitolata appunto Sonetti, graficamente è un classico sonetto all’italiana, ma lo è solo per l’occhio, perché se si segue l’andamento rimico si deduce che si tratta invece di un sonetto shakespeareano camuffato:
Introìbo
È un’emicrania a stomaco d’uccello che sta al portone venereo di Gobi giurando con la frana del coltello erculeo del dramma che il tuo robi vecchi baratta una gamba di sgabello
per l’impiccato con una partitura al clavicordio aprente i ventricoli della scala temperata al vello di una foglia che recita il suo congedo con l’esordio di un’altra foglia consorella che abolì la toga dell’albero per spiare Gesù per aures il lobi vecchi appiccare il fuoco a noce e mogano ma non al mobilio scuro che i tuoi probi viri accatastano in una via dal crocicchio sguardato dalla cervicale del rio picchio.
Lo schema rimico ABAB ACAC DBD BEE può adattarsi facilmente a uno schema di tre quartine e un distico finale: ABAB ACAC DBDB EE. Si vedano in dettaglio le rime: A ha l’uscita in ELLO (uccello : coltello : sgabello : vello); B in OBI (Gobi : robi : lobi : probi); C in ORDIO (clavicordio : esordio); D in OGA (toga, mogano, eccedente); E in ICCHIO (crocicchio, picchio). Il ritornare delle rime A e B della prima strofa rispettivamente anche nei vv. 5-7 e 10-12 crea un effetto di ridondanza fonica che si protrae per tutto il sonetto e lo rende compatto, supportando con i
suoni il legato creato dai frequenti enjambement, anche interstrofici, e dalla totale assenza di punteggiatura, estranea al sonetto tranne che per il punto fermo finale. Lo stesso effetto è raggiunto anche con la ripetizione di giochi di parole e suoni, in enjambement, che percorrono la poesia, come la tmesi robi // vecchi ai vv. 4-5, lobi / vecchi ai vv. 10-11, probi / viri ai vv. 12-13, con la ripresa della consonante /v/, suono che anch’esso ritorna più volte nei versi (venereo 2, clavicordio 6,
ventricoli e vello 7, via 13 e cervicale 14). Inoltre si noti l’insistenza sulla /a/ («giurando con la
frana del coltello / erculeo del dramma che il tuo robi // vecchi baratta una gamba di sgabello», vv. 3-5), che, creando assonanze interne, dà ai versi un ulteriore senso di ampiezza(13). Per quanto riguarda i versi, essi sono compatti attorno alla misura dell’endecasillabo nella prima strofa, per dilatarsi fino a raggiungere le diciassette sillabe nella seconda; poi via via degradano tornando a una misura di tredici sillabe nei versi finali. Sembra un incipit ossequioso alle regole delle misure versali tradizionali, ma dopo la prima strofa esso sfugge alle maglie strette dell’endecasillabo e i versi si allungano e si stirano; nelle terzine si nota un ritorno a misure più brevi rispetto alla seconda quartina ma sempre più lunghe dell’endecasillabo. Nel dettaglio, ci sono quattro versi della misura dell’endecasillabo nella prima strofa (con sineresi in «venereo», v. 2, e dieresi in «erculeo», v. 4); in questi non si riconosce alcuna costante ritmica, se non il ritorno, senza regolarità, del susseguirsi di tre sillabe atone fra due toniche. Dalla seconda strofa i versi si allungano: il primo è un dodecasillabo, poi i tre versi lunghi sono composti rispettivamente da sedici, diciassette e di nuovo sedici sillabe. Anche il ritmo si dilata seguendo la misura dei versi, perché se nei primi le toniche sono separate da una, due o tre sillabe atone, nella seconda quartina le toniche sono molto lontane fra loro: «per l’impiccato con una partitura al clavicordio / aprente i ventricoli della scala temperata al vello» (vv. 6-7) sono versi che hanno un susseguirsi di accenti ben più lontani, rappresentabili così:
– – – + – – – – – – + – – – + – / – + – – + – – – – + – – – + – + –.
La “fuga in avanti” dei versi prosegue anche nella prima terzina, dove ci sono due versi di quindici sillabe e poi di nuovo uno di undici; ma qui gli ictus si fanno più frequenti: la pausa più lunga fra toniche vede al massimo tre atone di seguito nei versi di quindici sillabe,
– + – + – – – + – – – + – + – e – + – – – + – – + – + – – + –, mentre l’endecasillabo sdrucciolo ha un andamento giambico: + – – + – + – + – + – –.
La terzina di chiusura si assesta tra versi di dodici (vv. 12 e 13) e tredici sillabe (v. 14), ma l’assenza di ictus frequenti, soprattutto negli ultimi due versi (dove ci sono addirittura quattro e cinque atone consecutive), restituisce lo stesso senso di ampiezza della seconda quartina, dai versi molto lunghi (+ – – + – – – – + – – + – e – + – – – – – + – – – + –).
Quello in apertura del volume è un sonetto inverso, che propone prima le due terzine e poi le due quartine:
Ante quem di visa e più losco visto nel suo post quem è chiedere a quel verbo ausiliario: Della morte è aoristo
la morte stessa che sull’ara fa che il nerbo schiocchi con una puntura d’ago o schisto sì che a deverbale affermi di proverbio: per la morte in maschera già siamo volubile arcobaleno che alla frombola degli occasi non revoca il ricamo
delle stelle ma sì alla parca in vetta al tombolo dell’universo... Per la morte lo zibibbo servito in una cantina negromante
di veleni che per imbibermi delibo s’un tavolo molato dal diamante.
Lo schema delle rime è ABA BAB CDCD EFEF, dove A ha tre rime perfette in ISTO (visto :
aoristo : schisto), B ha due rime perfette e una quasi-rima (verbo : nerbo : proverbio), o meglio una
quasi-rima inclusiva (VERBO : proVERBiO). Anche C è una rima perfetta (siamo : ricamo), mentre
D (frombola : tombolo) è rima imperfetta all’atona finale. La rima E è imperfetta per la sola
geminata (zibibbo : delibo), F è perfetta (negromante : diamante). Rispetto al sonetto precedente, qui la punteggiatura c’è, ma è rappresentata solo dai due punti, dai puntini di sospensione e dal punto fermo finale. Si tratta di un uso enfatico, visto che nemmeno qui si presenta il segno di solito più frequente in qualsiasi scritto, cioè la virgola. Tutti i segni di punteggiatura significativamente precedono la parola ‘morte’: «è chiedere a quel verbo / ausiliario: Della morte è aoristo // la morte stessa che sull’ara fa che il nerbo / schiocchi», con forte enjambement (vv. 2-5); «sì che a deverbale affermi di proverbio: / per la morte in maschera già siamo / volubile arcobaleno» (vv. 6-8); «ma sì alla parca in vetta al tombolo / dell’universo... Per la morte lo zibibbo / servito in una cantina» (vv. 10-12). La punteggiatura sembra dunque essere ad uso specifico della parola ‘morte’: la precede per enfatizzarla, per metterla a fuoco, per produrre picchi di rilievo semantico. Anche in questo sonetto l’uso degli enjambement è diffuso, così come lo sono i frequenti richiami fonici e i giochi di parole. Prima di tutto è evidente l’insistenza sulla /v/, accompagnata da /u/: «Ante quem di visa e piÙ losco visto / nel sUo post quem è chiedere a quel verbo / aUsiliario» (vv. 1-3), che riprendono deverbale e
proverbio al v. 6, quest’ultimo in quasi rima, e il gioco della ripresa di parole quasi identiche, due
volte quem e quel. Anche oltre, nelle due quartine, il suono /v/ ritorna, rafforzato questa volta dall’allitterazione frequente anche di /r/ e /b/: «peR la moRte in mascheRa già siamo / volubile aRcobaleno che alla fRombola / degli occasi non Revoca il Ricamo / delle stelle ma sì alla paRca in vetta al tombolo // dell’universo... Per la morte lo zibibbo / seRvito in una cantina negRomante / di veleni che peR imbibermi delibo / s’un tavolo molato dal diamante». Si noti l’interessante gioco di parole creato da «imbibermi delibo», nel quale le sillabe si scambiano di posto: im- e il suo inverso
-mi aprono e chiudono la prima delle due parole, -bi- di imbibermi richiama -li- di delibo, -ber-
assuonacon -de- e -bo chiude il tutto, riproponendo il suono /b/ per la terza volta in due sole parole. Sembra un sonetto composto da parole magiche che compongono una formula capace di prendersi gioco della morte affiancandole parole con i tratti semantici della luminosità e dell’euforia, come
arcobaleno (v. 8), che apre al sereno dopo il temporale, stelle (v. 10), zibibbo (v. 11) e diamante (v.
14); le rime, i giochi di parole e i richiami fonici frequenti rafforzano il senso di incantesimo che pervade il componimento, ricordano il linguaggio dei bambini quando giocano. Prendendo a prestito quanto detto da Fernando Bandini a proposito della lingua di Meneghello, si può affermare che «il carattere preminente di questa lingua infantile è la capacità (magica) di evocare oggetti fuori da schemi logici prefissati, con una attenzione acutissima al materiale fonico»(14). È notevole che questi tratti caratterizzino l’incipit del libro.
I versi vanno da un minimo di dieci sillabe (vv. 3 e 7) a un massimo di tredici (vv. 4, 10, 11 e 13). Il verso più lungo infatti è il tredecasillabo sdrucciolo (v. 10). Sono di undici sillabe i vv. 1, 2, 9 e 14; di dodici i vv. 5, 6, 8 e 12. Dal punto di vista della misura sillabica, quindi, il sonetto è compatto, privo delle “fughe in avanti” viste nel sonetto precedente. Anche qui i versi sono di ampio respiro, perché di frequente ritornano le tre atone a separare due toniche e anche avvallamenti atoni più estesi, come nel v. 5 (+ – – – – – + – + – + –) e nei vv. 12 e 13 (– + – – – – + – – – + – e – – + – – – – + – – – + –). Per contro, si trovano anche ictus molto ravvicinati come ai vv. 1 e 2 (+ – – – + – + + – + – e – – + – + + – – – + –).
Il sonetto di chiusura è un tradizionale sonetto in due quartine e due terzine:
Sì donnelletta donzì no donnella pugnalata al salasso del camino oppure allo spergiuro della donnola nei pollai dell’astio tuo vicino
Morte sei ma di coprirti non ti riesce le spalle più della vòlta fatte curve d’osteria ove cervogia non si mesce che a bevanda alcalina sfatta d’uva a acini più meschini di lenticchie s’è al viticoltore di prammatica con umbratili incider coltellucci
il chicco a vigna che acclama il vin suo vice ma non ha che una pessima grammatica che acconsente all’anacoluto in un cantuccio.
Le misure versali sono spesso vicine all’endecasillabo: sono di dieci sillabe i vv. 4 (piano) e 10 (sdrucciolo). Sono di undici sillabe i vv. 1, 2, 3, 7, 8, 9, 11 e 13, sdruccioli i vv. 3 e 13. Sono di dodici sillabe i vv. 5, 6 e 12. L’unico tredecasillabo è al v. 14. Si nota una spiccata propensione per un andamento dattilico (una sillaba tonica seguita da due atone) nel primo verso (+ – – + – – + – – + –) e anapestico (due sillabe atone seguite da una tonica), soprattutto in apertura di verso, nel secondo (– – + – – + – – – + –), nel settimo (– – + – – + – – – + –), nell’ottavo (– – + – – + – + – + – ), nell’undicesimo (– – + – – + – – – + –), nel tredicesimo (– – + – – + – – – + – – ) e nel quattordicesimo (– – + – – – – + – – – + –). Nelle altre sedi il ritmo si frammenta in ictus privi di ripetitività modulare, dove però ritornano spesso le tre sillabe atone fra due toniche. Lo schema è ABAB CDCD EFG EFG. A non è rima perfetta: donnella : donnola è accostamento di due parole quasi omografe ma l’una piana e l’altra sdrucciola; B e C invece sono rime perfette (camino :
vicino, vv. 2 e 4, e riesce : mesce, vv. 5 e 7). La rima imperfetta sfuma nell’assonanza nelle sedi D
(curve : uva) ed E (lenticchie : vice). Ai vv. 10 e 13 (sede F) è la leonina prammatica : grammatica, mentre ai vv. 11 e14 (G) la quasi-rima coltellucci : cantuccio è arricchita dal ritorno nella parola delle consonanti /k/ e /t/. I suoni tornano frequenti anche all’interno dei versi. Si vedano ad esempio i primi due. «Sì doNNelletta donzì no doNNella» sembra uno scioglilingua o una filastrocca di bambini, con ritorno tre volte della sillaba don- e due volte di -ì (Sì e donzì), oltre all’uso delle doppie che contribuiscono a dare al verso un ritmo cadenzato e all’opposizione sì / no, che crea un effetto quasi da indovinello. Il secondo verso è completamente aperto dal suono /a/ che lo percorre, accompagnato dall’allitterazione di /l/ e /s/: «pugnaLata aL saLasso deL camino». Anche il suono /v/ è significativo nei luoghi in cui ritorna, che riconducono tutti al tratto semantico della
convivialità: «le spalle più della Vòlta fatte curVe / d’osteria oVe cerVogia non si mesce / che a
beVanda alcalina sfatta d’uVa» (vv. 6-8), «s’è al Viticoltore di prammatica» (v. 10) e «il chicco a Vigna che acclama il Vin suo Vice» (v. 12). Più degli esempi precedenti, si riconosce qui una sorta di sistematicità nel ritmo, visto il frequente uso di versi con attacco anapestico: il tutto accompagnato dal consueto gioco delle parole-rima e dei ritorni fonici interni ai versi.
Esemplare anche il sonetto scritto affidando la scansione verticale alle sbarrette oblique (semplici e doppie) anziché ai bianchi tipografici; testo inserito nella sezione Sonetti, ma che l’autore vuole idealmente unire agli altri due componimenti scritti senza a capo riunendoli tutti insieme nell’ultima parte dell’indice, come se non fossero poesie(15):
Caudìsono...: [Come spero que-
rela più del lecito a Stefano / pei suoi lutti di spighe nel campiel che fendute / spartamente ha sue falci che in volo si levano / come rondini nere che un gesso im- proprio ha canute //] così anche Stefano con proprietà inversa al suo esercito / pei suoi lutti a cen spegli nel campiel che fu fesso / da un bagliore di falce che come rondine esperta / si fa in due per
la bianca che denunzia quel ges- so // dice sì della morte noi sia- mo gli ordegni / con cui morte permette che certo il suo stame / dalla morte si sceveri come il le- gno dai legni / o il galletto di ra- me alla banderuola d’un amen // dal galletto che in via s’un lec- cio scarnente in un ceppo / con lo straccio di sangue del chic- chirichì dice a un campo / che il suo manto crociato si marita col gheppio // cui non versatile fu altra rampa altro stampo / che il legato De Ægypto exeunt... a Giu- seppo / solitario al suo silo che turbinò per un crampo
In questo sonetto la punteggiatura viene ridotta ancor più che nei precedenti, fin quasi all’azzeramento. Il punto fermo finale non c’è più, restano solo i puntini di sospensione, uno nel titolo e uno nel corpo del testo, dopo l’espressione in latino. Per aiutare il lettore a comprendere che il testo è un sonetto («ma anche per custodirne tra pareti un vettore ulteriore come se fosse lo stadio di un razzo che anlea staccarsi in un’allusione e un’illusione di infinitudine quasi a perdita di schema, quasi frantume interstellare», come sostiene l’autore stesso), Ceriani mette fra parentesi quadre i primi quattro versi. Lo schema rimico si può ricondurre al seguente, sempre tenendo conto delle imperfezioni che si vedranno nel dettaglio: [ABAB] CDCD EFEF GHG IHI. La rima A è quasi perfetta, salvo per l’oscillazione tra consonante sorda e sonora: Stefano : levano. La rima B è perfetta: fendute : canute. La quartina che dà inizio effettivo al sonetto ripropone la rima alternata CDCD, con rima perfetta per D (fesso : gesso) e una rima per l’occhio per C, dove la similarità delle due parole le fa sembrare una rima nonostante l’uscita sdrucciola della prima e piana della seconda:
ESERciTo : ESpERTa; anzi, ci si può spingere oltre e dire che si tratta di una sorta di rima
eccedente, dove la sillaba in più non è in finale di parola ma al centro: eserCIto : esperta (l’altra rima ipermetra riscontrata in questo studio è nel primo sonetto analizzato: mogaNO : toga). Quest’ultima ipotesi sarebbe giustificata maggiormente se il sonetto avesse gli a capo e l’estremità del verso fosse ben individuabile; si nota che la rima C trova il sostegno della sdrucciola interna (Stefano) e della presenza di un’altra parola sdrucciola (rondine) nel v. 7: «così anche Stefano con proprietà inversa al suo esercito / [...] / da un bagliore di falce che come rondine esperta». I versi che compongono il sonetto sono un dodecasillabo (v. 17), quattro tredecasillabi (vv. 9, 10, 16), di cui uno sdrucciolo (v. 3), cinque versi di quattordici sillabe (vv. 2, 6, 8, 15), di cui uno sdrucciolo (v. 1), sette versi di quindici sillabe (vv. 4, 7, 11, 12, 13, 18), di cui uno sdrucciolo (v. 5) e un verso di sedici sillabe (v. 14). Rispetto ai sonetti visti precedentemente, qui si nota una spiccata propensione per la ripetitività degli stessi moduli ritmici. Se si mette in colonna la rappresentazione del susseguirsi di atone e toniche il fenomeno acquista evidenza:
– – + – – + – – – + – – + – – – – + – – + – – – + – – + – – – + – – + – – + – – + – – – – + – – + – – + – + – – + – – + – + – – – – – + – – – + – – – – + – – + – – – + – – + – – – + – – + – – – – + – – + – – – + – – + – – – + – – + – – – + – – + – – + – – + – – – + – – + – – + – – + –
– – + – – + – – – – + – – + – – – + – – + – – – – + – – + – – – + – – + – + – – + – – + – – – + – – + – – + – – + – – + – – – + – – + – – – + – – + – – – – + – – – – + – – + – – – + – – + – + – – + – – – + – – + – – – – + – – + –
Di diciotto versi, quattordici si aprono sul ritmo anapestico di due atone seguite da una tonica. Iniziano in modo diverso solo i vv. 5 e 16. Spesso il modulo è ripetuto anche nelle sillabe che seguono: si vedano i vv. 1, 2, 6, 7, 8, 11, 12, 13, 15, 17 e 18. Il verso 4 lo replica complessivamente tre volte, i vv. 3, 9, 10, 11, 12 quattro volte, il v. 14 cinque. L’identità ritmica caratterizza anche i vv. 1 e 2, il primo sdrucciolo e il secondo piano, che hanno gli ictus nelle stesse sedi. I vv. 9 e 10, e in parallelo 11 e 12, hanno la stessa successione di toniche e atone. Solo nelle terzine l’andamento ritmico tende a frammentarsi. È possibile che questa maggiore regolarità dipenda dal fatto che i versi non sono chiaramente visibili, vista la mancanza degli a capo, e che si ponga quindi la necessità di qualche elemento che cooperi alla loro individuazione: «suono e senso hanno trovato un loro punto d’equilibrio all’interno dei confini autorizzati dalla tradizione»(16). Tradizione con la quale Ceriani mostra di voler giocare, piegando un metro come il sonetto alle proprie necessità espressive proprio nelle posizioni più esposte (apertura e chiusura del libro, primo sonetto della sezione Sonetti). Giovannetti sostiene che «è [...] evidente che i materiali nobili del fare poesia in “forme chiuse” [...] sono sottoposti a un’esasperazione quasi parodica: nella pratica, volta a volta, della rima forzata sino all’apocope innaturale, dell’enjambement intensissimo ma in qualche modo gratuito, dell’iperbato e dell’anastrofe, e in genere di una sintassi aggrovigliata e rilanciata sino alla resa – quasi inevitabile – dell’aposiopesi»(17); forse si può andare oltre la parodia e trovare nel gioco delle rime, dei ritmi e nelle iterazioni foniche, pur all’interno di schemi metrici tradizionali, un tentativo di esorcismo nei confronti della morte, la volontà di allontanarla. Vi torneremo.
La riconoscibilità di moduli ritmici ripetuti ci porta agli Apici.
Ah la vipera la in doglie dell’Ordine dei sibili che al marito va da moglie nel meleto degli scibili – se per strada in un col gesso sulla fronte del casale rinnegato – si imbattesse – la sua arca iperdentale...
La poesia è composta da due quartine i cui versi sono sette ottonari e un settenario. Sono ottonari i vv. 1, 3, 5, 6 e 7. È un settenario sdrucciolo il v. 2 ed è un ottonario sdrucciolo il v. 4. L’ultimo verso, con dialefe tra sua e arca, è anch’esso un ottonario. Tranne il settenario sdrucciolo, tutti gli altri versi sono composti dalla ripetizione degli stessi moduli ritmici:
– – + – – – + – – + – – – + – – – – + – + – + – – – + – – – + – – – – + – + – + – – – + – – – + – – – + – – – + – – – + – – – + –
L’attacco anapestico è seguito da tre sillabe atone, una tonica e una (o due) atone. Il secondo verso, acefalo, si incolonna perfettamente agli altri a partire dal primo ictus. I vv. 3 e 5 variano di poco il modulo inserendo un ictus nella quinta sillaba. La rima è alternata: ABAB CDCD. La prima strofa ha tutte rime paronomastiche: doglie : moglie e sibili : scibili. La seconda quartina ha una consonanza in C (gesso : imbattesse) e una rima perfetta in D (casale : iperdentale). Si noti anche qui la punteggiatura ridotta ai trattini e ai puntini di sospensione. Lo schema così semplice e l’iterazione ritmica, o meglio l’imporsi delle «ragioni del ritmo»(18), in tutto il componimento fanno pensare a una conta.
Ancora dagli Apici:
Foglio che scarto per la tua sagoma cerca un tuo sarto dal vestito di mago ma di foglio già al drappo per un paio di forbici come il labbro che allappo tredicesimdi dodici... Ematoma del requiem la cui rondine stupra
la vipera del dittafono: Semen seminis... che alla morte fu supra.
La poesia è composta da tre quartine a rima alternata. La prima quartina ha rime perfette in A (scarto : sarto) e rima franta in B (sagoma : mago ma). La seconda ha rime perfette in C (drappo :
allappo) e quasi-rima in D (forbici : dodici); la terza quasi-rima in E (requiem : Semen) e rima
perfetta in F (stupra : supra). Va notata anche l’assonanza forte fra le rime A, B e C. Inoltre l’ultima quartina ha una sorta di rima ritmica intraversale, rondine (v. 10) : vipera : dittafono (v. 11) :
seminis (v. 12), forse a supplire la mancanza di una rima sdrucciola in punta di verso, diversamente