• Non ci sono risultati.

È certo che non esiste, a ben guardare, qualcosa come un'ontologia del ritmo (nemmeno inteso come ripetizione periodica), e di conseguenza, a voler essere sinceri, nemmeno un'ontologia del

Nel documento Camillo Capolongo (pagine 36-39)

IL REALISMO DEL RITMO: SULLE FIGURE DI RIPETIZIONE LESSICALE IN COSTA

4. È certo che non esiste, a ben guardare, qualcosa come un'ontologia del ritmo (nemmeno inteso come ripetizione periodica), e di conseguenza, a voler essere sinceri, nemmeno un'ontologia del

per designarlo, testo, è una metafora, cui altre se ne potrebbero appaiare; e di metafora in metafora, “per li rami”, a non temere la vertigine di percorrerli con coerenza, il testo si potrebbe sfaldare in un pulviscolo di parole senza relazione alcuna le une con le altre. Si può aggiungere che una identificazione corretta di ciò che è un testo poetico può avvenire solo a posteriori, tenendo in conto, contrattualmente, le intenzioni dell'autore: sicché poetici risultano essere testi in versi liberi, testi recanti i segni delle metriche più varie e disparate, testi in prosa, testi caratterizzati dai più diversi argomenti, testi esclusivamente visivi e pittorici. Così, il testo poetico esiste solo post rem, ed è l'autore a inscriverlo in una determinata forma di esistenza, attraverso una serie di pratiche testuali, che riguardano piuttosto l'epistemologia del discorso, che la sua ontologia.

Eppure, il testo poetico che leggiamo sui libri di poesia, o su internet, è anche affetto da una sorta di malattia infantile che potremmo definire platonismo: una malattia incurabile, probabilmente. Ciò che leggiamo viene pensato, infatti, come riproduzione di un archetipo originario, anche – ma non solo – in senso filologico. Ci si deve allora domandare qual è il luogo in cui si inscrive, o almeno l'autore ritiene si inscriva, il testo da lui prodotto. Dove avviene, insomma, il testo? Cosa riproduce? A maggior ragione ci si chiede ciò di un testo poetico, in cui, di là da ogni disaccoppiamento possibile, anche quello statutario nella nostra esperienza quotidiana extrapoetica ed extratestuale, per lo meno a livello finzionale il problema della sua veridicità non si pone: il testo è veridico in quanto vero, ed è vero in quanto testo poetico. In questa tautologia, in cui si annida la credenza superstiziosa del testo poetico come espressione immediata della voce d'autore, si tende a dimenticare come sempre il testo funzioni (finzioni?) attraverso la proiezione di simulacri.

Dove si situi questa voce e cosa riproduca la pagina che abbiamo in mano e consultiamo è dunque interrogativo cruciale. Si potrebbe tentare di rispondere dicendo che il testo di volta in volta riproduce – o finge di riprodurre – un momento di elaborazione, di produzione del testo avvenuta in uno spazio e un tempo dislocato rispetto al tempo e luogo della lettura. Ma non ci si può accontentare: è evidente che ciò che il testo riproduce si poggia su un medium che non è detto sia lo stesso cui allude la rappresentazione poetica. Si può aggiungere che, talora, in modo puramente finzionale, il testo poetico ha giocato a far coincidere il momento della lettura con quello della produzione, fingendo che la lettura ricrei, raddoppi le condizioni in cui per la prima volta si è data l'occasione dell'enunciazione poetica; trasformando così il lettore in cassa di risonanza per l'egotismo dell'autore. L'abbandono dell'Ich-Erzählung e soprattutto la pratica del reading, che conosce una nuova fase di fioritura, inibisce questa coincidenza finzionale tra autore e lettore, e mostra come si fronteggino in poesia due paradigmi: quello della fusionalità (tipico della poesia lirica) e quello della frontalità; paradigma quindi dell'immedesimazione contro quello della disidentificazione e del giudizio posto dall'esterno. Il ritmo e la proiezione dei simulacri di enunciazione, fenomeni strettamente connessi, sarebbero in un certo senso ciò che resta in comune tra questi due paradigmi, e fa sì che due cose diversissime si mantengano dentro lo stesso genere di testo.

Il testo potrà dunque, di volta in volta, riprodurre il discorso endofasico di una istanza di rappresentazione autoriale, o un testo orale (sia come origine sia come destinazione), o una forma assoluta che si situa al di fuori della mimesi di un architesto pensato o immaginato. Insomma, l'autore, quando elabora un testo poetico deve pensare necessariamente un luogo in cui l'enunciazione poetica avvenga. Che sia in un assoluto fuori dal tempo e dello spazio, in un mondo parallelo (come in certi ex-voto in cui l'intervento divino sembra squarciare, attraverso il diaframma di una nuvola, la scena della rappresentazione portandovi un'altra temporalità e localizzazione), o in un tempo localizzato, che sia attraverso un medium ben preciso o attraverso l'assoluto di una parola trascendente, la produzione-riproduzione del testo poetico soggiace alla necessità che l'autore proietti tuttavia un'istanza finzionale – e per certi versi, metaforica dell'enunciazione reale – di enunciazione del testo. In sintesi, la proiezione di un simulacro dell'istanza di enunciazione comporta anche la proiezione di un simulacro del medium dell'enunciazione.

Possiamo supporre che vi siano poeti che immaginano i loro testi poetici come declamati di fronte a un pubblico: la scena dell'enunciazione presupposta dal testo sarebbe insomma una scena pressoché

teatrale, e la voce con le sue inflessioni sarebbe il medium presupposto finzionalmente: ma certo il fatto non toglie che il testo possa poi essere letto tramite la lettura silenziosa. Si può d'altro canto immaginare che alcuni poeti possano giocare su questa ambivalenza.

Costa era un lettore magnifico, straordinario di poesia – della propria poesia. Eppure, sostenere che il simulacro di istanza enunciativa proiettato nel testo delle poesie di Costa proiettasse anche una situazione di enunciazione in cui il medium era la voce è forse azzardato(13). Un testo poetico, solo orale, di Corrado Costa, ci può aiutare a capire dove Costa situi o immagini l'ontologia dei suoi testi poetici. Il testo si chiama Retro(14), ed è contenuto in un cd allegato agli atti di un convegno di qualche anno fa(15); ma lo si può ascoltare anche a questo indirizzo internet:

http://www.youtube.com/watch?v=TLoKkRAUcZk. In Retro, non per caso basato su una sequenza interminabile di

ripetizioni della parola retro, il poeta dichiara a più riprese che il testo non è quello che viene ascoltato, ma si trova piuttosto sul retro del nastro. In questo testo, che non è esclusivamente un gioco goliardico – o forse: in forza della sua libertà di gioco goliardico – si postula così un'immane problematizzazione di cosa sia appunto questa ontologia del testo poetico: a) il testo non è quello che si sta ascoltando (ma è quello che si sta ascoltando); b) il testo si trova su un nastro, è già sempre riproduzione di un qualcosa, di una situazione di enunciazione (non può dunque mai per definizione fiutare sé stesso); c) il testo nell'atto di esistere nega sé stesso, in qualche modo rientra dentro sé stesso attraverso la negazione, si inabissa nella negazione: e questo inabissarsi si compie anche attraverso il ritornello nonsense della ripetizione lessicale. Ciò che, come si era visto all'inizio, dovrebbe risultare uno dei punti di intersezione tra intenzionalità e soggettività autoriale, acquista un aspetto di tale abnormità da risultarne semmai la negazione.

Ecco allora che forse il luogo di inscrizione della testualità poetica eletto da Costa è nella negazione del testo poetico stesso, nel continuo disfarlo e rincominciarlo, nel ritmarne la distruzione attraverso una temporalità in cui la ripetizione è posta e negata al tempo stesso. Il testo poetico deve contenere il principio della sua negazione. Il luogo di inscrizione del testo poetico è, metatestualmente, il testo poetico, ossia un frammento di nulla circoscritto: «A misura che si verifica la situazione licantropica “la natura perde la specie umana”: la poesia perde la specie logica e le parole il valore semantico: oltre questo limite baudelairiano del nulla»(16).

Quando, in un film, personaggi che dovrebbero adottare idiomi differenti, parlano nella stessa lingua, comprendendosi perfettamente, lo spettatore tende a trascurare questa infrazione alla coerenza della scena della mimesi, questa infrazione alla verisimiglianza; mantenendo viva la cosiddetta suspension of disbelief. In questa tendenza continua del fruitore a riaffermare i diritti della mimesi anche in presenza di sue palesi infrazioni è coinvolta anche la poesia. Il fruitore continua a cercare una coerenza anche là dove coerenza non c'è; un senso anche dove senso non c'è; un ritmo anche dove il senso non è ritmo. Una coscienza estetica – e un suo doppio, un inconscio estetico – non possono esimersi da affermare una pulsione organizzatrice del caotico. È proprio questo fenomeno che pare evidenziato da Costa: non per caso l'autore si rivolge continuamente agli ascoltatori del nastro apostrofandoli come testoni. Anche di fronte al nonsense, all'illogico, allo sghembo ritmicamente, all'ostensione del nulla, chi legge va cercando gli elementi di un riconoscimento poetico. Sceglie di trascurare ciò che gli mostra la destituzione del senso, e di organizzare in testo ciò che, propriamente, al limite, può essere concepito come sua degradazione: «La poesia si degrada assumendo lo sfregio. La lingua della poesia degradata è una lingua sfregiata»(17).

Lingua sfregiata, ritmo sfregiato, autorialità sfregiata: anche Costa è uno di quegli autori che più hanno problematizzato l'immagine dell'autore, del nome d'autore, dell'autorialità nel testo. L'ipotesi principale del presente scritto è allora che distruzione del ritmo e problematizzazione dell'autorialità vadano di pari passo. Il ritmo distrutto, il ritmo negato, il ritmo sfregiato è allora un organo della problematizzazione del ruolo della soggettività autoriale nel testo. Non è un caso che Costa cominciasse una breve nota autobiografica come segue: «Corrado Costa sono due fratelli»(18). Ma il ritmo viene da Costa destituito attraverso svariati strumenti, in primo luogo la metatestualità, che presuppone un controllo coscientissimo del testo da parte dell'autore, ma sembra d'altronde fare in

modo che il testo si inabissi in se stesso, rendendosi metaforicamente autosufficiente da ogni istanza di rappresentazione della soggettività autoriale. In ogni caso il paradosso della destituzione metatestuale del ritmo, è che può essere compiuta solo attraverso gli strumenti del ritmo: disponendo cioè nel testo elementi di interruzione che invoglino il lettore ad andare alla ricerca di una qualche regolarità. E quindi anche con elementi che rimandano a figure dell'ordine, che tuttavia si dispongono nel testo solo allo scopo di essere continuamente contraddetti.

5. Vorrei concludere ora questo testo con una breve ipotesi, appena abbozzata: le testualità che, nel

Nel documento Camillo Capolongo (pagine 36-39)