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IN FORME DIVERSE ALCUNE IPOTESI CRITICHE

Nel documento Camillo Capolongo (pagine 81-92)

«Dicendo “allegorie di altre necessità” si vuol dire una cosa assai ovvia e cioè che talvolta è dato proprio alla metrica esprimere l’essenza ultima di certi conflitti»

F.FORTINI, Metrica e libertà

Se si volge lo sguardo alle diverse direzioni intraprese negli ultimi venti-trent’anni, da un lato si assiste alla composizione di una metrica che, anche quando recupera strutture più regolari e formalizzate, si affida a criteri di misurazione dettati soprattutto dal ritmo. Dall’altro alla definizione di una metrica visiva e spazializzata che si propone come superamento del verso stesso, anche alla luce dell’apporto di altre forme espressive. Certo è che in quadro di totali mutamenti come quello attuale le forme letterarie sono le prime ad essere investite da smottamenti e a registrare la messa in crisi degli istituti tradizionali o quantomeno una loro sostanziale metamorfosi. Per dare conto di un panorama tanto frastagliato al suo interno, può essere utile partire da esperienze maturate in un contesto dominato dalla pervasività dei media elettronici e nate da un comune ripensamento dei modelli formali ereditati dalla tradizione. Con la precisazione cautelativa che parlare di scritture tanto prossime a noi, se comporta il rischio di approssimazioni e distorsioni interpretative, consente tuttavia di marcare con più forza lo scarto con il passato, di rilevare le differenze insieme alle invarianti.

Accanto a poeti ad alto tasso di formatività in metrica, quali Gabriele Frasca e gli autori già appartenenti al collettivo del gruppo ’93, oggi si fanno via via più frequenti gli esperimenti di poesia in prosa, nel segno di una ripresa in chiave attualizzante del prosimetro, fino alle forme di scrittura cosiddette di «prosa in prosa» (Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, fra i tanti) che tentano di superare ogni residuo epigonico di prosa letteraria.

Non potendo qui affrontare un argomento tanto sfaccettato e ricco di complicazioni ci si limita ad osservare che se la poesia in prosa di autori quali Stefano Dal Bianco e Antonella Anedda – che nei loro ultimi libri, rispettivamente Prove di libertà e Salva con nome, usciti entrambi nel 2012, alternano efficacemente poesie in versi a pezzi in prosa – sembra essere provocata da un’estenuazione del linguaggio lirico tradizionale, per sondare nuove possibilità espressive, gli esperimenti più recenti di poesia non versificata scaturiscono invece da un contatto più ravvicinato con le scritture in prosa, chiamate a contaminare, finanche a sporcare il dettato, attingendo a un grado zero della metrica. Una voce ormai certa entro questo ricco filone è senza dubbio quella di Giampiero Neri, capace di attivare la prosa nel dominio della poesia, facendola agire nel concreto della sintassi metrica e riducendo al mimino il ricorso ad artifici retorici, con risultati a tutt’oggi convincenti, come dimostra il recente Il professor Fumagalli e altre figure (2012).

E certo l’interazione tra prosa e poesia è uno dei campi più interessanti da esplorare per il critico, anche se pone problemi di non facile risoluzione, in parte dovuti alla non facile catalogazione di esperienze nate in territori sempre più marcatamente ibridi e da una ridefinizione dei generi letterari, per cui possono dirsi “poetiche” scritture prossime piuttosto alla forma-saggio, all’appunto filosofico o all’aforisma.

Il superamento della misure versali canoniche può procedere poi tanto in direzione di un verso- linea, portato ben oltre il “versetto” di matrice withmaniana (si pensi alla produzione di Florinda Fusco, studiosa di solida formazione, con saggi all’attivo su Edoardo Cacciatore e Amelia Rosselli, e artefice in proprio di suggestive linee-verso), quanto in quella di una concentrazione estrema del verso, fino a un congelamento, per così dire, della forma stessa, tra rarefatta dimensione mentale e densa materia corporale (si pensi alla produzione in versi di Elisa Biagini e Laura Pugno, attive anche su altri fronti artistici).

Data la complessità irriducibile dei temi trattati, si è scelto in questa sede di analizzare un campione molto ristretto, ma nondimeno significativo, che può corrispondere anche a differenti modi di

rifondare una metrica del discorso nel contemporaneo, fatta salva la possibilità di estendere il campo d’indagine in altre analisi future.

La poesia biometrica di Italo Testa

La scrittura in versi di Italo Testa è tra le più interessanti fra quelle maturate nel panorama poetico attuale, non solo per l’orizzonte di temi e problemi messi in campo, ma anche perché consente di cogliere alcuni tratti qualificanti l’evoluzione che ha interessato le forme metriche nell’ultimo scorcio di secolo. Nella produzione poetica di questo autore nato negli anni settanta, si segnala in particolare il libro Biometrie (Manni, 2005), che fin dal titolo veicola l’idea di una metrica affidata non già a criteri astratti, bensì alla scansione dei battiti corporei, a una precisa geometria del volto e delle mani, all’intonazione e al timbro particolari della voce, un po’ come accade nelle tecniche di identificazione biometriche. In una nota autoriale di chiarezza cristallina, Testa scrive: «La poesia è invece un’arte biometrica arcaica, mossa da una tensione trasfigurante: una biologia della voce, che dà corpo e forma al grido primordiale. Non si tratta, in questo caso, di registrare passivamente delle identità date bensì di misurarle ed articolarle. [...] Questa scansione dell’esistenza trova la sua unità di misura nel verso. Pertanto la poesia è sempre metrica: misurazione del respiro»(1). La poesia sembra così recuperare il compito fondativo che un grande poeta del Novecento, Giovanni Giudici, le assegnava, ovvero quello di farsi autobiologia, trasfigurazione del dato esperienziale, ricondotto agli impulsi biologici primari, per via di una pratica d’ascolto percettivamente affinata. Il libro si articola in nove sezioni differenti, che corrispondono ad altrettanti modi metrico-ritmici, secondo una notevole varietà stilistica, oltre che tematica. Assai significativa e di valore programmatico è la doppia epigrafe alle soglie del testo che, come ci informa la ricca nota esplicativa apposta in calce, deriva da un sonetto caudato di Michelangelo e dal primo coro di Bestia da stile di Pasolini. Da un punto di vista formale, la duplice citazione colloca fin da subito il testo nel segno di un recupero di forme chiuse e implicitamente di una loro negazione, se l’estratto pasoliniano così recita: «Versi senza metrica/ Intonati da una voce che mente onestamente/ Vengono destinati/ A rendere riconoscibile l’irriconoscibile -// Liberi versi non-liberi/ Ornano qualcosa che non può essere che disadorno». Una tale premessa, difficilmente estranea a intenzioni di poetica, con la sua successione di antitesi paradossali spiazza in certo modo anche il lettore, incerto se fare affidamento a una parola per definizione contraddittoria, perché essendo «intonata da una voce che mente onestamente», si presenta come irresolubile intreccio di verità e menzogna. A ben vedere la citazione da Pasolini funge da perfetta sinossi (in senso anche cinematografico) del libro, evidenziandone stile e modus operandi specifici: come si vedrà, anche laddove recupera forme apparentemente più tradizionali, la complessa partitura di Biometrie “finge” l’adeguamento a uno schema metrico regolare, per mascherare il disordine sepolto al fondo del reale e a un tempo per tentare di dargli una forma. La sopravvivenza di forme metriche apparentemente chiuse qui non sembra pertanto corrispondere né a un’intenzione ironica o parodica, né a un mero gioco citazionista, semmai a un’estrema misura di ordine nel caos. In parallelo un nutrito gruppo di componimenti si caratterizza per una tessitura metrica ibrida e maggiormente segnata dalla deviazione dalla norma. Regolarità e irregolarità, misure brevi e misure lunghe, frammentazione e costruzione sintattica del verso, lirismo e tentazione avanguardistica possono convivere entro l’intero corpus testuale, senza peraltro compromettere la coerenza e la singolare tenuta della struttura d’insieme.

A partire dal componimento incipitario, Scandire il tempo, nella sezione «In bassa frequenza», il libro muove dalla ricerca progettuale di una nuova metrica del discorso che, pur anche affidata a strutture strofiche regolari, alla ricorsività della rima e alla serie martellante dei parallelismi sintattici, si regge piuttosto su alcuni espedienti ritmici, chiamati a mobilitare la stessa distribuzione visiva della materia verbale:

Devi intonare la litania dei corpi
 di quelli esposti nel riverbero dei fari
 di quelli accolti nel marmo degli ossari, devi orientarti per i tracciati amorfi
 tra le scansie dei centri commerciali
 scandire il tempo di giorni disuguali,
 


devi adattarti al ritmo delle sirene
 lasciare i ripari, esporti agli urti
 abbandonarti al canto degli antifurti,

trasalire nel lucore delle merci
 cullarti al flusso lieve dei carrelli
 sognare animali e corpi a brandelli, devi nutrirti di organi e feticci
 profilare di lattice ogni fessura
 pagare il conto e ripulire con cura, recitare il rosario dei volti assenti
 svuotare gli occhi, ritagliare le bocche
 aderire alla carne e schioccare le nocche.

Il ritmo del testo sembra essere qui dato non tanto dalla successione di endecasillabi regolari o solo “allusi”, quanto dalla serie di accenti forti (perlopiù a tre) che determinano la scansione interna dei versi, imprimendovi il suggello di una cadenza assai riuscita e a tratti perfino cantabile. D’altra parte, la svalutazione del computo sillabico a favore di una metrica di tipo accentuativo rappresenta l’esito di un processo iniziato, secondo un’intuizione felice di Franco Fortini, nel corso degli anni cinquanta, quando è andata definendosi una nuova metrica, liberata dall’ossequio verso gli obblighi formali e fondata su «una fortissima accentuazione dei suoi elementi ritmici»(2).

Da notare, poi, in questa e in altre poesie della raccolta (si veda almeno, nella stessa sezione, la poesia Retine, che recupera sotto mentite spoglie la forma del sonetto), la peculiare disposizione tipografica dei versi, i cui margini a un primo sguardo paiono non essere collocati in asse rispetto al bordo del foglio, ma solo perché prima sottoposti a un processo digitale di formattazione. Ne consegue che una certa forma metrica spesso finge solo da involucro grafico entro il quale va a disporsi il continuum versale. La visualizzazione del discorso precede, per così dire, la metrica e in qualche mondo la fonda. Al tempo stesso la griglia formale sembra rappresentare l’ultimo baluardo di resistenza all’urto prodotto dai ritmi artificiali provenienti dall’esterno (bastino, per questo, i sintagmi: «ritmo delle sirene», «canto degli antifurti», «flusso lieve dei carrelli»), che regolano i tempi dell’intonazione.

In Biometrie agiscono, quindi, due spinte simultanee, insieme opposte e complementari, l’una di marca sperimentale, volta a liberare la versificazione da un reticolato riconoscibile, attraverso un’operazione accorta di mixaggio, non di rado fondata su principi di variazione e riprese seriali (più evidenti nella sezione intitolata «Adattamenti»); l’altra per converso portata a rimettere in gioco il serbatoio di nuclei espressivi della tradizione, facendoli confliggere con i linguaggi del presente. Non v’è dubbio infatti che uno degli aspetti di più sicuro interesse del libro preso in esame risieda nell’energia tensiva sprigionata dall’attrito tra il linguaggio letterario e il linguaggio fluido(3) dei vari media, dalla radio, al cinema, dalla televisione alla rete. Altrettanto fitta è la trama di

citazioni che accompagnano il testo, tra riferimenti musicali ai Tindersticks e ai Massive Attack, rimandi letterari, filmici, fotografici e pittorici, come emerge dai “crediti” finali, in tutto assimilabili ai titoli di coda dei film e delle produzioni televisive, o dei cd musicali.

L’organizzazione metrica del discorso sembra prendere corpo dal magma dei reagenti artistici e adattarsi ai vettori portanti di un certo sound elettronico e digitale, che interviene a modellare i versi, orientandone la disposizione spaziale sulla pagina. A conferma dell’influenza esercitata dal dispositivo tecnologico sulla costruzione diretta del testo, si possono assumere i versi di

Anamorfica, nella terza sezione, quasi una metapoesia:

Foglio schermo, membrana che rimanda l’onda del sangue: ricorda di noi

il segno duplice, sillaba i volti su un fascio luminoso di elettroni. Sotto traccia si diradano le vene, s’intrica il foglio che proietta il mondo su plasma lucido di specchi ustori si traccia la sua morfologia, un regno. Sopprimi, schermo, tra noi le distanze di queste lastre, plastica anamorfica recidi, di noi due, la lontananza che si raccolga al punto d’indifferenza.

Questi versi, che l’io della poesia immagina di rivolgere alla superficie lucida dello schermo, invitano a stabilire un nesso niente affatto casuale tra versificazione e videoscrittura, cogliendone il singolare intrico di naturale e artificiale e auspicando un’abolizione delle distanze tra reale e virtuale, come lasciano sottintendere i due versi conclusivi, dietro l’esibita ripresa montaliana, anche se di segno rovesciato. Del resto, non sono poche nel libro le occorrenze di vetri, specchi, superfici riflettenti che, in accordo con il titolo della poesia appena citata, ci autorizzano a pensare ai testi di Biometrie come a dei veri e propri esercizi di anamorfosi, in quanto rimandano, se osservati da un certo punto prospettico, visioni alterate, immagini ottiche deformate, svelando figure a prima vista non percepibili. Non ci sarà allora da stupirsi se anche la voce modulata da un corpo umano innervato elettronicamente si pone all’incrocio tra sonorità naturale e riproduzione meccanica, all’origine di un timbro distorto, simile a quello riprodotto dalle registrazioni vocali o dalle sonorità artificiali della rete: «Nei cavi si consumano le notti:/ tra il crepitio meccanico dei tasti/ il cuore si sfibra ed emette suoni/ alieni. Un flutto gelido smuove/ la rete al ritmo del refresh, gli occhi/ si innervano, lambiti dai cursori/ nella fluida geometria del dolore» (da Refresh, nel III movimento «Forme in replay»). La scomposizione delle forme è poi del tutto parallela, va da sé, alla frantumazione della storia individuale in tanti frammenti biografici: «preso nel laccio non vedi figure/ nel fondo del sogno scendi, ricadi,/ disincagli frammenti di specchi». Ne risulta una realtà in continua metamorfosi, il cui corrispettivo formale sono composti verbali del tipo “s’imbruna”, “s’imperla”, “t’imbesti”, “s’attorce”, di marca tutta dantesca.

E certo meriterebbe di essere indagato più a fondo, al di là della singola campionatura proposta, il ruolo svolto dai software di scrittura, paragonabile all’azione strutturante un tempo appannaggio della macchina da scrivere, capace di agire concretamente sulla fisionomia del verso.

L’esempio più riuscito di tale intreccio nel libro è senz’altro la IX sezione, intitolata «Suite berlinese», una delle più sperimentali sotto il profilo grafico e visivo, per l’apertura al linguaggio abbreviato tipico della comunicazione via sms (si veda ixione) e la tensione a modulare in modo nuovo la sintassi metrica, come in karl-marx-allee, da cui si preleva la prima parte:

niente avrebbe detto, quell’intercalare fatto di brevi sospiri, soffi

nel ricevitore,

malignità in quelle parole,

anche se avevano la durezza di un vetro,

quasi gli uscivano senza volere, niente a che fare con le minacce,

i ricatti che erano il tessuto di quei colloqui,

niente era il suo intercalare, e lì, in quel tic, potevi leggere la conferma di quello che pensava, lamentoso

e sprezzante: niente

Se da un lato questo testo è debitore di certi esperimenti dei Novissimi (Elio Pagliarani in primis), per l’uso dei versi “a gradino”, che frantumando la linearità sintattica a un tempo valorizzano la dimensione spaziale delle linee versali; dall’altro lato sono riconoscibili indicatori formali che presiedono a intenzioni diverse e configurano una nuova idea di metricità: di tale specie sono tanto la ricorrenza quasi ossessiva della punteggiatura, in funzione prevalentemente ritmica e aggregatrice, quanto i sintagmi anaforici e i parallelismi. La tecnica prossima al montaggio cinematografico, che tanta parte ha avuto nel processo di liberazione delle forme metriche nel Novecento, sembra qui combinarsi efficacemente con gli effetti prodotti dagli strumenti comunicativi oggi dominanti, immettendo nel testo tracce di un’oralità secondaria. Su questo ordine di problemi invitava a riflettere pochi anni fa, con la consueta lucidità critica, Guido Guglielmi:

Si diffondono i mass-media destinati a cambiare in profondità, e più di quanto avesse fatto il cinema, i nostri modelli culturali. E le arti dovevano esserne investite. Ai lenti processi di formazione e crescita delle lingue si sostituiscono processi tecnologici. L’uso delle lingue non si sviluppa più dal basso, ma è disposto dall’alto. La vecchia oralità che aveva nutrito la scrittura, soprattutto romanzesca, è sostituita da un’oralità di massa(4).

Il riferimento all’esperienza dei “novissimi” non pare del tutto fuori luogo, se lo stesso Testa, interrogato di recente sull’eredità della loro lezione, ne ha proposto una lettura originale ma non meno densa di prospettive, di fatto fornendo un’autoesegesi molto perspicua dei propri modi compositivi. In questo intervento critico(5), l’autore, oggettivato in una terza persona singolare (forse utile a garantire un filtro distanziante) rilegge l’antologia uscita nel ’65 a cura di Giuliani come «un trattato sui fantasmi», individuandone i portati più fecondi nella «texture metrica svincolata dalla disposizione sillabica» e nella «visione schizomorfa della composizione», ma a un tempo individuando anche i rischi cui condurrebbe un’assunzione troppo rigida di queste formule, da considerarsi invece nella lunga durata. Come ricorda lo stesso autore, l’idea di un «fantasma della metrica» al centro del saggio di Giuliani su La forma del verso, risale a un’affermazione di Eliot per cui «il fantasma di una qualche metrica potrà sempre aleggiare anche tra le pieghe del più libero dei versi; riapparirà minacciosamente se ci assopiamo; magari scomparirà se siamo desti»(6). Il saggio si chiude con un invito programmatico: «Considera l’ipotesi che la poesia sia un modo per liberarsi dai fantasmi. Procedi». Liberare la metrica dai fantasmi delle convenzioni incrostate, così come da un’assunzione poco responsabile dei modelli del passato, all’origine di tanto epigonismo di ritorno: ecco il compito che attende la poesia del futuro. Il problema allora sarà quello non già, o non tanto, di riprendere o aprire forme chiuse, ma di dinamizzare forme già aperte(7), riattivandole nel presente, e semmai trovarne di nuove, più adatte a riscrivere l’orizzonte mutato della contemporaneità. La poesia che in Biometrie apre la sezione «Moti e richiami», intitolata Primo

movimento, rappresenta un tentativo in questa direzione e non per caso è dedicata ad Antonio Porta,

il principale artefice di una «metrica accentuativa», intesa anzitutto, e in senso davvero nuovo, come «un metodo di penetrazione»(8). Laddove riaprire le forme significherà, va da sé, riaprire anche il discorso, mantenendo vitale l’energia che ne aveva animato il progetto originario.

immettendovi timbri in parte nuovi, a partire da un’accentuazione della componente ritmico-sonora in funzione coesiva e strutturante. A contare più della riconoscibilità metrica – entro una raccolta che pure non disdegna il recupero di forme della tradizione, tanto da chiudersi con un quasi-sonetto di portata straniante – è qui, più ancora che altrove, il ritmo cadenzato del verso, tra le basse frequenze dell’intonazione prosastica («allora ho visto che nulla torna,/ che la fragilità ci insidia/ dall’interno, dentro le giunture,/ s’insinua nelle vene, riveste/ la piega opaca dei discorsi») e le intermittenze prodotte dalla meccanicità di suoni artificiali («tre del mattino. le pale meccaniche/ ritagliano in campi blu la notte:// alle fermate d’autobus lo sterno/ s’alza, s’abbassa, segue un suo ritmo// sordo, illuminato dal bagliore/ del gas che avvampa sui cantieri»). La matrice sonora della raccolta è del resto dichiarata fin dal titolo che si rifà alle atmosfere vibranti del gruppo dei Joy Division e, agendo in contrappunto con una luce di stoffa metafisica, giunge a simulare le movenze di una partitura drammatica, al limite del recitativo: «la luce bacia il tuo seno pieno,/ offerto per quando aspetteremo/ un frutto a questo lungo amore,/ per quando in una sala d’attesa/starai ferma e in una strana luce/ dirai che è il momento, che viene/ l’ora di alzarsi, andare, dividere/ la gioia e la pena, farsi altri,/ lasciare che una maschera nuova/ ci guardi, mentre noi commedianti/ ci stringiamo nell’ultima scena».

Nel quadro di un canzoniere si direbbe rovesciato, le misure irregolari dei versi, da lunghi a

Nel documento Camillo Capolongo (pagine 81-92)