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Capitolo 2. L’estraneità al cuore dell’esperienza

2.3 Esperienza corporea tra me e l’altro

Se ci chiediamo in che modo le richieste estranee sono strettamente correlate all'essere se stessi, allora ci imbattiamo nel ruolo del corpo. Il proprio corpo non è semplicemente implicato in una qualche maniera nel comportamento del rispondere, piuttosto costituisce il nucleo più autentico di questo tipo di comportamento. Non basta ipotizzare che il corpo proprio assuma tratti etici, piuttosto è l'ethos stesso che risulta, al contrario, un ethos corporeo.

La risposta che cerchiamo quando interroghiamo il corpo e i suoi sensi alla luce del problema morale è per Waldenfels una risposta ancora tutta da inventare, una risposta per la quale la percezione indica possibili aperture, con il suo volgersi a ciò che è altro. In realtà nell’accogliere un appello che si sottrae alle opposizioni di essere e dover-essere, particolare e universale, proprio ed estraneo, l’ethos stesso diventa per Waldenfels un rispondere che ha nel corpo e nei suoi sensi la prima espressione di circolarità e di sdoppiamento.

Il vero problema da affrontare è per Waldenfels la questione posta alla morale dal corpo e dal senso, o meglio dai sensi, nei quali affiora quell’alterità che noi stessi siamo. Il nostro corpo appare come qualcosa di separato da noi stessi, anche se in un certo senso ci appartiene e ce ne accorgiamo in modo particolare quando soffriamo di dolori fisici. Oltre alla duplicità per cui ciascuno è il proprio corpo e poi anche lo ha, certo in maniera del tutto peculiare, non come una proprietà, una fenomenologia del corpo dovrà inevitabilmente tener conto di questo gioco attivo e passivo di costituzione, per cui il corpo è il punto zero di ogni prospettiva, ma è anche una datità concreta e collocata, come risulta evidente nelle situazioni più banali e quotidiane dell’autoreferenzialità, per esempio guardarsi allo specchio, oppure sentire l’eco della propria voce e nel reagire al proprio nome pronunciato da altri.

L’estraneità dell’altro assume rilievo solo quando viene a contatto con un’estraneità in me stesso. Questa estraneità in me stesso si mostra con la sottrazione, in situazioni in cui mi sono vicino essendomi lontano. Ad esempio nel caso dello specchio dove ci vediamo riflessi, noi abbiamo una percezione di noi stessi, la quale però passa attraverso la mediazione dello specchio e risulta

intrecciata con una prospettiva estranea, con uno sguardo estraneo e quindi scissa. Il raddoppio della percezione si manifesta anche nell'ascoltare, con il fenomeno dell'eco, che risuona già nel sentirsi parlare, nella nostra voce che ci rimbomba nelle orecchie e nell'ascolto della voce estranea. In questo caso la duplicazione non significa che qualcosa si presenta due volte, piuttosto che qualcosa si sdoppia. L'eco somiglia allo specchio, senza esserne del tutto simile. Nello specchio vedo il mio volto come lo vedono gli altri, nell'eco al contrario non ascolto il mio udito come se l'udire avesse un lato esterno, ma l'effetto dell'eco è immediatamente presente nel parlare. Anche nel tatto, in cui si intrecciano il toccare se stessi e il toccare ciò che è estraneo, si verifica uno sdoppiamento. Il tatto significa più di un semplice toccare qualcosa. Si tratta piuttosto di un venire in contatto con qualcosa o qualcuno, che sperimenta il suo sdoppiamento, per esempio nella stretta di mano che ci scambiamo e che in qualche modo scambiamo anche con le cose. Attraverso questo raddoppio sperimentiamo come nel contatto ricambiato o evitato si dia qualcosa di non rilevabile in ciò che pure tocchiamo con mano.

Sono io a rapportarmi alle cose e agli altri, ma questo mi è possibile solo attraverso il mio corpo, il quale è sempre presente tra me e l’altro. Nessuna comunicazione è possibile senza bocca e orecchie e nessun gesto o manipolazione è possibile senza mani. Il nostro corpo partecipa in molti modi al processo dell’esperienza, ma non in quanto artefice degli atti intenzionali. Le percezioni, ad esempio, non iniziano con un atto volontario di osservazione, ma nascono da un porre attenzione che viene provocato da ciò che ci colpisce. Così come le azioni che sono segnate da ciò che ci piace o da ciò che ci ripugna, così anche la

memoria, come ci mostra anche Nietzsche nella Genealogia della morale, è caratterizzata da questo, e noi tendiamo a ricordare e immagazzinare solo ciò che ci fa male o ci segna negativamente.72 Tutto ciò che appare in quanto qualcosa non è semplicemente un qualcosa da descrivere o da collocare nel nostro orizzonte di senso, ma è un qualcosa da cui siamo colpiti, affetti, sorpresi e ci provoca una reazione che non siamo noi a mettere in moto tramite atti intenzionali. Eventi come questi sono caratterizzati da pathos, da af-fetto, e non sono riconducibili a una prospettiva in prima persona, come quando compiamo un’azione, né a una prospettiva in terza persona. Io sono in gioco fin dall’inizio non come autore dell’azione, ma come un paziente che successivamente diviene rispondente, quando risponde a ciò da cui è stato colpito. La posteriorità della risposta è dovuta dall’anteriorità del pathos che attira la nostra attenzione. Da ciò consegue che tutto quello che facciamo è staccato dalla nostra volontà. Noi siamo colpiti ed attratti da qualcosa di estraneo e questo, in base a quanto appena detto, non è dipendente dal nostro volere o dal nostro sapere, quindi non è legato alla nostra coscienza, ma rimanda al nostro corpo. La domanda sul ruolo del nostro corpo nel processo dell’esperienza e nella costituzione trova così in parte già risposta. Waldenfels, ci parla di una sorta di nascita del senso dal pathos e quindi, indirettamente, dalla risposta che attraverso il corpo formuliamo.

Dovremmo poi chiederci anche cosa accade al corpo quando risponde e a cosa risponde durante l’esperienza. L’estraneità dell’altro deriva sempre e comunque dal proprio, quindi l’altro si identifica come l’alter ego, ovvero come una specie di secondo io. Attraverso la riflessione del suo maestro Merleau-Ponty,

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Waldenfels propone di sostituire l’intersoggettività con un' intercorporeità. L’incontro con l’altro si annuncia, si manifesta attraverso il pathos e noi ci sentiamo chiamati in causa dall’altro ancora prima di poterlo identificare e definire. Quando faccio esperienza dell’altro non sono affetto da qualcuno di diverso da me, ma anzi da qualcuno che è mio simile anche se incomparabile. Non dobbiamo dare per scontato o far rientrare per forza nei canoni della normalità l’incontro con l’altro. A proposito di questo, scrive Waldenfels:

Non dobbiamo considerare l’entrata in scena dell’altro come ovvia, (…), vi è anche un “miracolo dell’altro”, un miracolo nel senso che in nessun luogo se ne trova una ragione sufficiente73.

I nostri simili rimangono comunque ineguali per la loro singolarità, la quale risiede anche nel loro esserci corporeo. Questo fenomeno Waldenfels lo definisce raddoppiamento di me stesso nel e attraverso l’altro. Così si rafforza l’estraneità di noi stessi attraverso quella dell’altro. Il pathos presenta i caratteri dell’estraneità dell’io prima di poterlo attribuire a qualcuno che lo causi. Lo sguardo o la voce, ad esempio, non sono azioni del divenire visibile o udibile, ma includono anche colui che le compie in quanto esperisce se stesso come osservato e interpellato, quindi si percepisce altrove. Questo altrove esperito deve essere distinto dal proprio. Il raddoppio del proprio corpo si prolunga in una specie di sdoppiamento dell'estraneità. L'alter ego non è semplicemente un duplicato dell'ego, non è un semplice ampliamento della sfera di proprietà, ma prende

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piuttosto la forma di un qualcos’altro. La sottrazione a sé del proprio corpo si approfondisce ulteriormente nella sottrazione estranea del corpo dell'altro. Sono presso l'altro in quanto non sono mai del tutto in me.

Il corpo quindi è definibile come luogo di transizione non solo dove agire e patire si incontrano, ma anche dove il proprio sconfina nell’estraneo e viceversa. L’esperienza corporea ci testimonia il fatto che io trovo me stesso nell’altro e l’altro in me prima ancora di incontrarci.

Tutto quanto appena descritto non deve portare ad un allocentrismo, spiega Waldenfels. Non possiamo iniziare dall’altro, infatti, senza riferirci a noi stessi e l’amore per l’estraneo non è l’amor proprio, anche se, tuttavia il primo è impensabile senza il secondo.

Non si tratta di preferire l’interesse dell’altro al proprio interesse o l’altro a noi stessi, non abbiamo qui a che fare con proposte di semplice altruismo. Non sono io ad anteporre gli altri, ma è l’esperienza stessa che lo fa. Si tratta di accettare il pathos che ci sopraggiunge e che scaturisce dall’altro come un affetto che ci sorprende e che non deve essere per forza essere normalizzato. Non raggiungeremo mai la quiete del nostro corpo perché non siamo pienamente padroni di esso e queste esperienza dell’altro, come le esperienze che travalicano i confini del possibile, ci portano inquietudine, la quale, probabilmente ci tiene in vita.