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Capitolo 1. Paura dell’altro

1.3 La paura delle differenze

L’indeterminatezza caratterizza anche un’altra fonte della paura globale, che ha segnato il passaggio alla modernità e risiede nella figura dell’altro. Lo scenario di questa paura oggi è profondamente cambiato rispetto all’età moderna perché muta la figura dell’altro. Quest’ultimo oggi non è più ciò che compare nello scenario hobbesiano caratterizzato da una premessa di uguaglianza, dove l’altro è uguale a me, è il mio simile, qualcuno dotato dei miei stessi diritti, interessi e bisogni. Hobbes partendo da questa condizione di uguaglianza presenta l’altro come il nemico e il rivale all’interno di una relazione conflittuale concreta e certa. La paura della morte violenta provata da due individui che si fronteggiano ad armi pari per l’autoconservazione e per l’acquisizione di beni ci riporta alla materialità del conflitto. L’altro quindi nella modernità non è solo noto e identificabile in una certa corporeità, ma è anche qualcuno con cui si può

patteggiare per ottenere una condizione che liberi tutti dalla paura, come nel caso del patto sociale hobbesiano che mostra la funzione produttiva della paura stessa.

Nella contemporaneità, al contrario, l’altro non ha più le caratteristiche di uguaglianza e similarità, egli diventa il diverso, lo straniero. Dal punto di vista delle società occidentali l’altro è colui che invade le nostre società ormai multiculturali, considerando anche i grandi flussi migratori che la globalizzazione ha portato. E’ qualcuno che non gode più dei miei stessi diritti e di una stessa condizione di uguaglianza, ma che è presente e mi sfida, mi mette alla prova con la sua irriducibile e angosciante differenza etnica, religiosa e culturale.

La globalizzazione investe questa figura con un cambiamento radicale che ci richiama al tema dell’indeterminatezza dell’oggetto che ci provoca paura. Nelle società contemporanee si è incrinato il meccanismo di espulsione dell’altro fuori dai nostri confini, che nella modernità permetteva di difendersi. L’altro nella storia ha assunto spesso il ruolo di ‹‹capo espiatorio››22

, secondo un meccanismo che consente di spingere le proprie paure al di là dei confini rafforzando il legame interno secondo la logica del dentro/ fuori che ha caratterizzato la modernità. Questa dinamica attraverso la quale puoi confinare all’esterno il diverso, lo straniero, colui che ti provoca paura, per costruire l’identità di un noi, non funziona più nella realtà globalizzata. I confini territoriali che oggi demarcano le nazioni non sono più ben definibili e riconoscibili, non separano più come nella modernità e non sono garanti di immunità. Possiamo palare di ‹‹straniero interno››23

, concetto presente nella riflessione di George Simmel, che sta ad

22 Pulcini E., La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, cit., p.144. 23

Cfr. Simmel G., Soziologie. Untersuchungen uber die Formen der Vergesellschaftung, Dunken e Humblot, Leipzig, 1908; trad. it. Excursus sullo straniero, in Sociologia, edizioni di Comunità, Milano, 1989, p. 580-584.

indicare colui che viene per restare e non è assimilabile alla propria realtà perché egli si presenta e mantiene la sua identità che è differente e non si può nemmeno espellere in un altrove, dato che non esiste più nella società globale un confine netto tra il dentro e il fuori.

Presentandosi come qualcuno di esterno ma vicino, l’altro nella società globale è una figura indeterminata, che diventa fonte di paura endemica e fa fallire le strategie di difesa tradizionali a causa della minaccia costante di una presenza diffusa e multiforme che non può essere né assimilata né esportata.

La paura dell’altro si trasforma in paura della contaminazione24, infatti l’altro, il diverso non minaccia soltanto la nostra vita o la nostra sicurezza come in Hobbes, ma mina alla nostra stessa identità, al nostro stile di vita e alle nostre certezze ormai affermate. Le attuali e inquietanti immagini degli sbarchi sul mediterraneo di migliaia di profughi sono un esempio della paura della contaminazione che proviamo di fronte a masse indistinte di corpi che ci appaiono senza volto e portatori di minacce sconosciute.

Di fronte a questo pericolo gli individui rispondono attraverso modalità difensive e aggressive creando la contrapposizione Noi e Loro. Loro diventano i capri espiatori su cui convergono i malcontenti delle intere società e a cui si attribuisce le responsabilità di tutti i mali che ci troviamo di fronte. Poiché oggi, come abbiamo accennato precedentemente, non possiamo espellere il diverso in un altro luogo e né assimilarlo completamente perché portatore di differenze, la sua presenza porta ad un conflitto e ad una violenza che apparentemente sembra non avere soluzione.

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Gli attacchi alle minoranze e i conflitti etnico religiosi che ne derivano da questi hanno come movente la volontà di rimuovere le differenze omologandole. La nuova figura dello straniero che arriva per rimanere annullando il tradizionale confine tra dentro e fuori, carica di indeterminatezza, produce una radicalizzazione dei meccanismi di difesa generando atteggiamenti persecutori sul diverso. Questo ci dimostra che la paura perde la sua funzione produttiva trasformandosi in rancore e odio.

L’uomo occidentale sentendosi minacciato nella propria identità e sicurezza risponde con la costruzione di muri nei confronti del diverso che non lasciano spazio all’individualità della persona. La globalizzazione ha portato un bisogno identitario, la necessità di ritrovare all’interno di queste società multiculturali un punto fermo a cui ancorarsi. La creazione di spazi comunitari è il fenomeno che risponde a questa esigenza e testimonia un desiderio di delimitazione all’interno del disordine globale. L’assenza di confini infatti porta alla perdita di punti di riferimento ad un sentimento di incertezza e di angoscia. Lo spaesamento di fronte alle infinite possibilità dell’uomo portate dalla globalizzazione e la contemporanea perdita dell’identità fanno assumere agli individui atteggiamenti difensivi alla ricerca di sicurezza. La costruzione della comunità che sembra in parte contrastare la chiusura dell’uomo globale in quella che Elena Pulcini definisce “la patologia dell’individualismo illimitato”25, risponde sia allo smarrimento di senso che a quello dell’identità fissando degli obbiettivi e portando avanti dei progetti condivisi. All’interno di queste comunità la volontà di difendere quello per cui sono nate ovvero la costruzione di

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un’identità collettiva, portano con sé dei meccanismi di esclusione tendendo ad omologare al proprio interno tutte le possibili differenze.

Le minoranze culturali, etniche e religiose non trovano spazio in queste comunità endogamiche26 e vengono così escluse diventando vittime di una incertezza identitaria.

L’emergere di questa passione comunitaria è alimentata dalla crisi dell’identità politica e della cittadinanza e a sua volta dello stato.

La politica, istituzione nata originariamente per garantire una vita buona ai propri cittadini e gestire le varie paure umane oggi non è più in grado di portare avanti il suo ruolo. Essa ha fatto leva sul sentimento della paura, promettendo sicurezza e conquistando per questa via, più o meno meritatamente, coesione e consenso sociale.

Se lo stato moderno nasce precisamente sull'istanza di governare la paura, trasformandola da passione disordinante dello stato di natura in elemento ordinatore della società, quello che oggi abbiamo di fronte a noi è uno scenario in cui la politica, più che governare la paura, ne è governata: ne subisce le ondate paranoiche e risponde con ondate securitarie altrettanto paranoiche, che a loro volta non la riducono ma la alimentano, senza che ne derivi ordine bensì disordine. Stati Uniti ed Europa negli ultimi decenni hanno mostrato in alcune occasioni come l’uso strumentale di questa passione contribuisca alla costruzione mentale e artificiale del nemico e legittimi la logica del capro espiatorio de- umanizzando il diverso27. Quello che gli stati definiscono strategie in nome della sicurezza sono comportamenti che finiscono per acutizzare i conflitti e aumentare

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Pulcini E., La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, cit., p.84

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la violenza. La reazione della politica statunitense, ad esempio, dopo l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, si è basata sul ritorno di politiche limitanti nei diritti internamente e nella politica estera su guerre devastanti tuttora irrisolte. In Europa ne è un esempio la legge sull’immigrazione varata da Sarkozy in Francia che prevedeva un aumento delle sanzioni e una rigidità normativa al fine di portare avanti la lotta contro l’immigrazione clandestina e contro il terrorismo.28 Recentemente con le politiche di governi progressisti abbiamo assistito al cambiamento di alcune cose che potrebbero far riaffiorare la speranza nell’abbandono da parte delle istituzioni dell’uso strumentale della paura, ma rimane più difficile credere nella possibilità che la politica riesca a contrastare razzismi molto radicati e presenti a livello sociale e che tornano fuori incarnandosi ogni volta in leaders diversi. Proprio la politica infatti ha spesso alimentato queste forme di diffidenza e di paura verso l’altro per l’influenza che essa ha sull’informazione pubblica.

Come scrive la filosofa statunitense Judith Butler:

«La sfera pubblica è costituita in parte da ciò che può apparire, e la regolamentazione della sfera del visibile è un modo per stabilire ciò che è reale e ciò che non lo è»29.

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Nel novembre 2003 è entrata in vigore in Francia la nuova legge Sarkozy sull’immigrazione che regolamenta in maniera molto rigida gli ingressi sul territorio francese, riduce pesantemente la possibilità di ottenere la "carta di residenza" introducendo il cosiddetto "contratto di integrazione", aumenta da 12 a 32 giorni la detenzione in attesa dell’espulsione dal paese, introduce la schedatura attraverso le impronte digitali e i dati biometrici per tutti coloro che faranno richiesta di visti e permessi di soggiorno. In nome della "lotta all’immigrazione clandestina e al terrorismo", questa nuova legge introduce le impronte digitali elettroniche in linea con l’accordo raggiunto nel mese di ottobre 2003 a La Baule dai Ministri degli Interni dei cinque stati più popolosi dell’Unione Europea (Francia, Spagna, Inghilterra, Germania, e Italia) e che interesserà tutta l’area Schengen.

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Un ambito cruciale e delicato, dove il modo in cui gli eventi vengono fatti risuonare rischia di produrre una vera e propria “distorsione ontologica”, la cui gravità non è pienamente compresa. Nel creare meccanismi di paura nei confronti dell’estraneo i sistemi politici compiono un processo di de-umanizzazione del nemico. Inerente a questo tema J. Butler ha compiuto delle ricerche sulle vittime di guerre volutamente lasciate senza volto e ha analizzato moltissimi casi in cui si verificano quelle che definisce “distribuzioni politiche del lutto” asimmetriche. Così come i morti arabi che non hanno né un volto né un nome, la loro vita e l’angoscia delle persone che hanno visto morire i propri cari vengono rimosse in una sorta di derealizzazione collettiva funzionale all’obiettivo militare, e che produce un «razzismo amorfo, indefinito, razionalizzato dall’appello all’autodifesa». J. Butler ha riflettuto in merito di monopolio della morte che gli americani, ma non solo, hanno attribuito a se stessi differenziando il valore della vita di uno di loro rispetto a quella del nemico. Con la modernità emerge la differenza in cui il nemico vive, rispetto a noi, ed è proprio su queste differenze che legittimiamo spesso i comportamenti discriminatori che mettiamo in atto.

L’11 settembre è una data che oltre a ricordare per sempre la tragedia americana, segna anche un cambiamento ed una scoperta dopo la quale non si torna indietro. Si tratta della messa a nudo della vulnerabilità degli Stati Uniti, luogo fino a quel momento considerato inattaccabile e la violenza si trovava al di fuori di quei confini che sembrano invalicabili. E’ stato possibile constatare che i confini nazionali sono più permeabili di quanto immaginassimo. La reazione americana di ansia e di rabbia dopo la presa di coscienza di questa propria vulnerabilità e paura verso l’estraneo si è trasformata in un desiderio di sicurezza

e di rafforzamento di questi confini, accompagnato da un paranoico controllo degli arabi. L’informazione americana trasmettendo incessantemente messaggi di allarme ha legittimato ed aumentato le varie reazioni d’isteria razziale, diffondendo ovunque un senso di paura. Il panico che si crea è affiancato da un rafforzamento dei confini nazionali e da limitazioni nel campo delle libertà civili.

Come l’essere inondati di notizie fa si che per potersi affermare la comunicazione deve fare perno sui sentimenti del pubblico, allo stesso modo anche il candidato o la fazione politica per potersi imporre deve costantemente richiamare su di sé l’attenzione designando un contorno assolutamente drammatico e spaventevole. Emerge così una paura indistinta, un soggetto spaesato e sottoposto a stimoli paurosi continui, capace di vedere il potenziale nemico ovunque. Il punto centrale, non è quanto gli oggetti e i soggetti che ci provocano paura siano davvero pericolosi, ma la questione è con che occhi li guardiamo noi. Oggi il nostro è uno sguardo impaurito e continuamente allarmato, incapace di confidare nella politica come spazio hobbesiano garante della

sicurezza.

In questo panorama di spaesamento l’uomo non può far altro che sentirsi disorientato per la perdita di contatto con un mondo che gli appare completamente diverso da quello gli è stato tramandato e con la perdita del legame con la terra e con il mondo l’essere umano perde drammaticamente anche la sua consistenza. La contingenza e l’incertezza, dopo questa mutazione antropologica, divengono quindi, i tratti più evidenti della condizione umana. L’uomo tende a chiudersi in un individualismo senza limiti nel quale diviene spettatore, in quanto, di fronte ai rischi non desiderati e non previsti dell’agire

umano, l’individuo sembra essere ridotto a una condizione passiva e impotente di vittima del suo stesso agire. In alternativa crea realtà comunitarie dove si cerca di omologare al massimo tutte le differenze per ritrovare un’identità collettiva che funga da riferimento.

Questa breve analisi del sentimento della paura nell’età globale ci può aiutare a capire le ragioni della ricerca identitaria, del desiderio di appartenenza e delle reazioni di esclusione e diffidenza nei confronti dell’altro che oggi appare ai nostri occhi come il diverso, l’estraneo. Quello che cercherò di dimostrare successivamente attraverso le riflessioni di due filosofi contemporanei, è che questo bisogno si esprime attraverso la pluralità dando origine ad una moltiplicazione delle differenze anziché alla loro distruzione. La differenza oggi diventa una sfida inevitabile che fa saltare i meccanismi tradizionali di risoluzione del problema dell’altro e la paura è il sentimento caratterizzante di questa esperienza.

Dovremmo cercare di accettare l’idea di una pluralità d’identità e riconoscere un pluralismo basato sulla convivenza estendendo le nozioni di straniero e diverso anche a noi stessi e non risucchiare i soggetti in categorie unitarie. Julia Kristeva invita in merito a prendere in considerazione almeno due punti:

il primo consiste nel riconoscere che le identità sono in larga misura plurali, e che l’importanza di un’identità non deve necessariamente cancellare l’importanza delle altre. Il secondo è che una persona deve fare delle scelte, esplicite o implicite, sul peso relativo da

attribuire, in un particolare contesto, alle divergenti fedeltà e priorità, che possono essere in competizione tra loro per avere la precedenza.30

Prendendo coscienza della pluralità delle identità si mostra inadeguata anche l’idea di tolleranza nata nella modernità secondo la quale l’altro, il diverso va tollerato nel senso peggiore del termine, ovvero dall’alto rimanendo fermi nella convinzione delle superiorità delle nostre certezze.

L’esperienza dell’altro è inevitabile e sarà sempre caratterizzata dal sentimento della paura e del timore nei confronti di un qualcosa di estraneo rispetto a noi, che richiama la nostra attenzione, destabilizzandoci. Non è girandoci dall’altra parte che supereremo questa condizione e neppure cancellando ciò che ci rende diversi dall’altro potrà renderci immuni da ciò che proviamo di fronte al suo richiamo.

30Cfr. J. Kristeva, Stranieri a noi stessi. L’Europa, l’altro, l’identità, Donzelli editori, Roma, 2014,