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Incontrare l'estraneo Due prospettive a confronto: Bernard Waldenfels e Marcelo Dascal

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Academic year: 2021

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“I muri con cui teniamo fuori gli altri,

alla fine tengono dentro noi stessi come muri di una prigione.”

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Indice

Introduzione ... 5

Capitolo 1. Paura dell’altro ... 9

1.1 Metamorfosi della paura ... 9

1.2 La paura globale ... 16

1.3 La paura delle differenze ... 31

Capitolo 2. L’estraneità al cuore dell’esperienza ... 41

2.1 L’ordinario e lo straordinario ... 41

2.2 “Al principio era la risposta” ... 57

2.3 Esperienza corporea tra me e l’altro ... 77

2.4 Prospettive fenomenologiche sull’interculturalità ... 83

2.5 Dalla fondazione ontologica della fenomenologia dell’altro alla teoria delle controversie. ... 93

Capitolo 3. La sfida delle differenze ... 99

3.1 Dialogo tra razionalità ... 99

3.2 Un’altra idea di tolleranza ... 109

3.3 Teoria delle controversie ... 116

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3.5 La possibile risoluzione dei conflitti contemporanei………..133

Conclusioni ... 145

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Introduzione

Questo lavoro nasce dall’esigenza di studiare e comprendere il rapporto con l’altro che oggi si identifica nell’estraneo e nell’ignoto. La relazione che ci lega all’estraneo è caratterizzata da paura e insicurezza, causate dalla potenzialità della presenza dell’estraneo stesso di mettere in discussione il nostro mondo e i nostri punti fermi. La paura dell’altro, a cui ho dedicato il primo capitolo, si trasforma oggi in paura della contaminazione, in quanto l’altro mina la nostra stessa identità, il nostro stile di vita e le nostre certezze ormai affermate. L’altro viene spesso vissuto come un pericolo potenziale e come un intruso in casa propria, da rimandare, possibilmente al più presto, fuori dai nostri confini. La globalizzazione porta alla creazione di paesi sempre più multietnici, dove avvicinarsi all’altro e interagire con lui o lei è diventato esperienza comune di quasi tutti i soggetti umani, attraverso incontri reali nella quotidianità della nostra vita comunitaria. In particolare, in questo momento storico assistiamo ad un flusso migratorio di grandi dimensioni, nei confronti del quale occorre pensare e agire. Noi oggi siamo chiamati in causa e interrogati da incontri concreti e frequenti con l’altro che superano le distanze e intrecciano i destini: l’altro appartiene al nostro mondo.

Attraverso due prospettive filosofiche odierne sul tema dell’altro e del rapporto con esso ho cercato di sviluppare un percorso di riflessione che tenta di definire ontologicamente l’altro attraverso la fenomenologia responsiva di Bernard Waldenfels, nel secondo capitolo, e di individuare una strada comunicativa che permetta un confronto produttivo con l’estraneo attraverso la teoria delle controversie di Marcelo Dascal, trattata nel terzo capitolo.

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Al centro dell’attenzione di Waldenfels c’è il tema dell’estraneità, considerato, in controtendenza con le teorie più diffuse, elemento originario dell’esperienza. La sua fenomenologia mette a fuoco tutti i passaggi in cui l’ordinario e lo straordinario, il soggetto e l’altro s’intrecciano. In tal modo la filosofia di Waldenfels fa vedere al lettore come nei diversi fenomeni dell’esperienza sia sempre presente, come motivo originario, una stra-ordinarietà. Rivelare che l’estraneità non è solo esterna, ma dimora persino nella nostra stessa intimità comporta il riconoscimento che lo straniero, definito nella sua estraneità inaccessibile, non sorge semplicemente fuori di me. Egli è annidato già dentro me stesso presentandosi nei termini di un’alterità intrasoggettiva e intraculturale. La radicalità che caratterizza l’esperienza dell’estraneità mette in evidenza non solo la necessità dell'accoglienza dell'altro, ma il fatto che l'alterità si trova in tutto ciò che ci circonda, anche in noi stessi. L’altro è e rimane altro nella sua irrimediabile alterità. Solo su questa base il “pungolo dell’estraneo” potrà stimolare una risposta innovativa da parte dell’interpellato. Nella fenomenologia responsiva di Waldenfels emerge la necessità di prestare attenzione e dare risposte all'altro. L’estraneo, proprio in quanto estraneo, esige una fenomenologia responsiva basata sul pathos e sulla inevitabile risposta che scaturisce dalla richiesta dell’estraneo. Il fine che il filosofo tedesco si propone di raggiungere è quello di superare le demarcazioni, ma al tempo stesso di conservare l’identità e di evitare l’abrogazione di ogni differenza culturale. Traspare così tutta la distanza di Waldenfels rispetto alle proposte culturaliste di chi mira a innalzare muri di separazione, ma non meno evidente è il divario nei confronti dei tentativi di raggiungere il traguardo di una comprensione totale fondandosi su un

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appiattimento delle differenze.

Marcelo Dascal ricerca e propone nuove modalità di relazioni interculturali. Egli elabora una nuova lettura del concetto di tolleranza e di razionalità sulla scia della filosofia di Leibniz, che lo portano ad approdare ad un modello dialogico che si mostra capace, non solo di contribuire alla crescita della conoscenza, ma anche di proporre valide risoluzioni dei conflitti generati dalle differenze culturali e religiose.

Prendendo coscienza della pluralità delle identità si rivela inadeguata, secondo Dascal, l’idea di tolleranza nata nella modernità, secondo la quale l’altro, il diverso va tollerato nel senso peggiore del termine, ovvero guardandolo dall’alto, rimanendo fermi nella convinzione della superiorità delle nostre certezze. Dascal propone così un concetto di tolleranza massimalista, dove tollerare l’altro significa prestare attenzione alla sua cultura e alle sue idee, attraverso le quali potremmo conoscere nuove verità. Inoltre, il filosofo israelo-brasiliano riscontra in Leibniz la presenza di un’altra tipologia di razionalità oltre a quella logica, la razionalità mite. Quest’ultima permette, applicata alla nuova forma di dialogo che Dascal propone, di risolvere i conflitti nei quali occorre trovare un punto comune, anziché stabilire chi ha ragione o chi ha torto attraverso calcoli matematici. Questo diverso modo di tollerare l’altro e la tesi, riscontrata in Leibniz, secondo cui esistono diversi tipi di razionalità in grado di dialogare tra loro sono i pilastri concettuali su cui poggia la teoria delle controversie. Il modello dialogico della controversia è caratterizzato da un’apertura di entrambi i partecipanti, la quale è fondamentale per imparare dall’altro ed è indispensabile per porsi in ascolto delle rivelazioni dell’altro. L’attitudine con cui ci si approccia

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a un tale confronto dialogico è quella del rispetto dell’altro nella sua diversità, evitando di volerlo ridurre a se e al proprio modello di ragione. È questa la sfida che le differenze ci pongono d’innanzi, la possibilità di arricchirci attraverso il confronto con la diversità.

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Capitolo 1. Paura dell’altro

1.1 Metamorfosi della paura

Nella storia della filosofia l’attività razionale è spesso contrapposta alla vita degli affetti, considerata, viceversa, una manifestazione incontrollata e inconsapevole che avvicina l’uomo alla sfera animale. Le passioni sono definite alterazioni dell’animo: stati emotivi carichi di contraddizioni, nelle quali il soggetto assume una condizione psichica, caratterizzata da desideri, pensieri e comportamenti non sempre compatibili con le dinamiche di una vita individuale e collettiva ben regolata. Con la riflessione moderna si svela l’ambivalenza delle passioni umane; esse, infatti, non sono solo più forze cieche e irrazionali, ma divengono anche il frutto di un calcolo razionale capace di orientare le nostre decisioni, convinzioni e valori. Possiamo parlare inoltre di metamorfosi delle passioni. Infatti, pur essendo strutture universali e comuni a ogni epoca, la loro natura e il loro ruolo subiscono di volta in volta importanti trasformazioni a seconda del contesto storico e sociale nel quale operano. ‹‹Comprendere le passioni›› detto in termini spinoziani, permette quindi di acquisire una maggior consapevolezza del nostro tempo, configurando eventualmente possibilità e scenari alternativi a quelli del presente1. Ogni epoca ha le sue passioni e in ogni epoca queste assumono sfumature emotive nuove, impreviste che corrispondono ai mutamenti individuali e sociali, e ne rivelano la natura. Questo è il caso della paura, di cui vediamo oggi un inequivocabile ritorno, sotto varie forme, e che occupa prepotentemente la scena globale.

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La paura, che, come la speranza, è una passione d’attesa, genera nell’individuo un particolare bisogno di sicurezza e diviene per questo una condizione affettiva particolarmente importante nella sfera politica e sociale. Diverse sono state le paure di cui l’uomo è stato vittima, ma anche le risposte e le elaborazioni opposte suscitate da esse. La paura paralizza o genera strategie, ci aiuta a scegliere tra cosa ci può danneggiare e cosa no, se indirizzata e sfruttata correttamente. Se non proviamo paura non abbiamo la forza neanche di costruire il nostro mondo, ma la paura, così come ci porta ad aprirci al nuovo e ad inventare simboli, linguaggi e norme, può anche indurci a chiuderci all’interno di un gruppo e a non pensare più, riducendoci a vivere in una povertà di comportamenti che porta prima o poi alla scomparsa del gruppo stesso.

Come passione primordiale e più antica, la paura è la risposta emotiva universale che, pur appartenendo anche al mondo animale, caratterizza in modo peculiare l’esperienza umana. Questo perché l’uomo è l’unico essere vivente ad avere paura della morte e, secondo gli studi antropologici e filosofici del novecento, l’uomo ha una capacità di ‹‹apertura al mondo››, intesa come l’interazione fra la gracilità umana e l’estrema pericolosità dell’ambiente naturale, che lo espone a un confronto con un ‹‹mondo esterno›› (Welt), al di fuori dei confini rassicuranti dell’‹‹ambiente›› (Umwelt) e con un mondo interno istintivo che è in continuo movimento2. L’uomo infatti è vittima di pulsioni che lo espongono a difficoltà anche psichiche, come ad esempio la solitudine, la mancanza di amore, il disprezzo degli altri.

2 Cfr. Gehlen A., Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Klostermann Frankfurt

a. M. 1996; trad. it. L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983, pp. 60-67.

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L’incrocio fra l’uomo come ‹‹essere carente›› e il mondo come nemico della vita umana crea le premesse della paura3. L’uomo da sempre ha cercato di rispondere a queste paure attraverso i miti, la magia, il divino, cercando di ridurre ciò che è ignoto a qualcosa di accessibile e familiare. Poiché l’uomo non riesce a gestire la paura e a rispondere ai pericoli che si creano attraverso la sua natura, lo fa artificialmente costruendo una seconda natura fondata su un agire pianificato, capace di dominare la natura stessa attraverso le istituzioni politiche e la tecnica, delegando a quest’ultime la protezione della propria sicurezza e della propria vita. Sono il pensiero, l’abilità di apprendimento, le relazioni sociali, la cultura, le caratteristiche distintive dell’homo sapiens che permettono all’uomo il ricorso ad interventi tecnologici e a istituzioni politiche capaci di superare le sue ‹‹carenze›› e di modificare l’ambiente naturale a proprio vantaggio. La politica gestisce le paure organizzando il nostro presente in una modalità che ci permetta di vivere dignitosamente in un futuro prossimo. Essa però può anche creare delle paure artificiali per poi promuoversi come l’agire che le risolverà. La tecnica dall’altra parte ha il ruolo di contenere le paure attraverso il dominio della natura. Essa però, sfuggendo ormai al controllo umano, produce oggi nuove forme di paura che sono indeterminate e capaci di mettere a rischio la sopravvivenza della specie umana.

Se pensiamo al mondo premoderno le paure si identificano sul piano collettivo nel contesto della natura. La paura degli eventi e delle calamità naturali ignote evidenzia lo stato di vulnerabilità dell’uomo di fronte alla

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natura, che sarà superato nella modernità attraverso le scoperte scientifiche e la sovranità dell’individuo. La modernità libera l’uomo da minacce legate alla sua condizione di minorità attraverso una nuova modalità di rapportarsi con il mondo; per l’individuo sovrano l’ignoto e i fenomeni naturali non rappresentano più una fonte di paura e di disorientamento, ma qualcosa che stimola la curiosità e la conquista di nuove scoperte. Nonostante questi aspetti la paura persiste nella vita dell’uomo moderno, assumendo però forme nuove. Le paure moderne sembrano nascere paradossalmente dalle conquiste che caratterizzano questo periodo storico. Le numerose possibilità che si creano, infatti, generano un senso di insicurezza legato alla legittimità dell’autoaffermazione di ogni individuo. Le possibilità di realizzazione, di soddisfare i propri interessi divengono infatti fruibili da tutti in quanto individui e, quindi, gli uomini nel costruire il proprio progetto di vita si dovranno inevitabilmente scontrare con il progetto di vita altrui. Se nel mondo premoderno il pericolo proviene dalle numerose manifestazioni della natura, nella modernità sembra provenire dall’altro, in quanto quest’ultimo si delinea come ostacolo al raggiungimento dei propri desideri e degli interessi illimitati dell’individuo sovrano.

Sulla paura reciproca si fonda anche la nascita dello stato hobbesiano, modello rappresentativo della modernità. La paura dell’altro che emerge nel paradigma di Hobbes deriva dalla condizione di uguaglianza in cui si trovano gli uomini, ovvero dal fatto che gli uomini hanno gli stessi diritti e le stesse passioni. Nel perseguire diritti e passioni essi arrivano, inevitabilmente, allo scontro e alla reciproca aggressione. La paura qui è anche paura della morte,

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più precisamente della morte violenta che potrebbe infliggerci l’altro in quanto nemico. La competizione per il potere è alimentata dalla forza distruttiva delle passioni che porta al conflitto e quindi a mettere in pericolo il bene primario di ogni individuo che è l’autoconservazione. A questa situazione di guerra di tutti contro tutti, gli individui rispondono costruendo artificialmente lo Stato capace di frenare le passioni distruttive come la vanagloria e di garantire una condizione di ordine, di sicurezza e di pace. Per scampare alla minaccia della morte l’uomo fa il suo ingresso nella vita civile. Come scrive Hobbes all’interno della sua opera il Leviatano, sta proprio nella paura dell’altro e nella volontà di realizzare i propri obbiettivi la possibilità per l’uomo di emanciparsi dallo stato di natura4:

Le passioni che inclinano gli uomini alla pace sono il timore della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie per condurre una vita comoda, e la speranza di ottenerle mediante la loro industria. La ragione poi suggerisce convenienti articoli di pace su cui gli uomini possono essere tratti ad accordarsi. Questi articoli sono quelli che vengono altrimenti chiamati leggi di natura5.

Nel configurare la paura come una passione ragionevole che spinge gli individui ad una soluzione consensuale attraverso il patto sociale, Hobbes ribadisce il ruolo ambivalente delle passioni e mostra la funzione produttiva e costruttiva della paura capace di condurre l’uomo a trovare una soluzione politica più idonea per il mantenimento della sua integrità. La creazione artificiale dell’istituzione politica trasforma la paura reciproca dello stato di

4 Cfr. Pulcini E., La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri

editore, Torino, 2009, p.123.

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natura in una paura certa e comune, che risiede nel timore delle sanzioni da parte dello stato se non si rispetta il patto reciproco. Vediamo nella teoria hobbesiana una manifestazione della trasformazione della paura che non abbandona mai la condizione dell’uomo, ma cambia forma.

Un altro aspetto della paura, che si evince dalla gran parte della riflessione moderna compreso Hobbes, è che alla forza delle passioni si può rispondere solo con una forza uguale o contraria; in altre parole le passioni si combattono con le passioni. Al desiderio illimitato dell’individuo sovrano si può rispondere solo con la paura che porterà l’uomo a compiere scelte razionali, come la costruzione di uno Stato. Si verifica però un impedimento a questo principio quando gli uomini si trovano a scegliere tra una passione presente e un possibile bene futuro. Hobbes intuisce che la paura della morte è inefficace nell’indurre a rispettare le leggi della natura dove il danno non è imminente, ma si sposta nel futuro. La paura quindi non è in grado di condurre a scelte razionali di fronte alla prospettiva di un male futuro. Anche se Hobbes ci parla di un’ansia per il futuro come motore di azioni preventive, tuttavia quando la distanza temporale tra l’azione e i suoi possibili effetti è ampia e le conseguenze sono viste solo come condizioni remote, la forza della passione presente per il desiderio di un bene immediato vince sulla raffigurazione del futuro. L’uomo agisce irrazionalmente quando c’è distanza tra causa ed effetto attraverso il meccanismo di difesa dell’autoinganno che porta gli individui a formarsi una credenza contrastante alla realtà empirica e quindi ad agire in modo diverso rispetto a ciò che la ragione suggerirebbe6. Questo aspetto si

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ripresenta anche nelle forme di paura globale dove si assiste ad un'ulteriore dilatazione del tempo tra l’azione presente e le sue conseguenze. Nel paradigma hobbesiano il problema della distanza temporale viene risolto dallo Stato attraverso le immediate punizioni che seguono la trasgressione di una legge. E’ dunque a partire da un confronto con Hobbes e il pensiero moderno che è più semplice capire e percorrere le metamorfosi contemporanee della paura, al fine di mostrare differenze e congruenze tra la modernità e l’età globale inerenti in particolare alla figura dell’altro.

Dopo la modernità la paura continua a caratterizzare la condizione umana ed è presente tanto più viene negata dall’ottimismo illuministico e dalle sue illusioni razionalistiche. Con la globalizzazione e l’evoluzione della tecnica cambiano gli scenari e gli oggetti della paura; l’altro non è più il mio simile o qualcuno dotato dei miei stessi diritti con cui concorro per la realizzazione dei miei desideri, ma diviene il diverso, lo straniero da cui difendersi e la tecnica creata dall’uomo per controllare l’imprevedibilità della natura, diviene a sua volta produttrice di enormi rischi di cui gli uomini, pur essendone gli artefici, sembrano in parte essere inconsapevoli. Alle classiche paure individuali, sociali e politiche si vanno aggiungendo paure non catalogabili. Il predominio della tecnica e della globalizzazione ha generato una mitologia dell’infinita possibilità che si presenta come un volto della libertà, ma torna indietro sotto forma di paura, di angoscia che diviene il residuo negativo di questa libertà. Nella contemporaneità si può parlare di una paura globale che incarna tutte le problematiche e le caratteristiche del nostro tempo.

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1.2 La paura globale

Nella contemporaneità la passione della paura si diffonde e pervade più profondamente la vita degli uomini. L’antropologo Arnold Gehelen definisce la paura un’emozione adattiva che consente all’uomo di adattarsi ad un determinato ambiente, di predisporre una serie di strumenti sociali e politici che consentano alla specie umana di ridefinire tale ambiente, superando le situazioni di crisi. La paura è un’emozione che l’uomo prova quando percepisce una situazione di pericolo, di messa a rischio della propria individualità, dei propri legami e dei propri beni. Alla paura possono seguire, come abbiamo accennato prima, due reazioni: l’uomo impaurito può reagire alla propria condizione emotiva attraverso delle risposte di totale inattività, oppure può essere indotto ad una reazione che gli permetta di modificare a proprio vantaggio la situazione di pericolo.

Nell’età globale la paura sembra perdere la sua funzione costruttiva e trasformarsi in una paura paralizzante e improduttiva. La paura globale si stacca dagli oggetti immediati e si trasforma in un senso di minaccia costantemente avvertito. Si sono moltiplicate a tal punto le cause di paura, tanto che questa si è trasformata in un senso di angoscia generale, che di volta in volta può essere condotta da agenti esterni a focalizzarsi su un elemento rilevante. L’origine di questa metamorfosi risiede nel mutamento delle fonti e della natura stessa del pericolo. Le cause della paura, identificate nella natura per l'età premoderna e nell’altro come caratteristica della modernità sono ancora oggi presenti, ma necessitano di una ridefinizione perché assumono una diversa e più drammatica connotazione. Il pericolo nell’accezione moderna intende riferirsi a qualcosa di identificabile e riconoscibile, che è possibile affrontare sotto la spinta della paura,

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attraverso l’elaborazione di soluzioni politiche, rituali o sociali al fine di creare le condizioni per una vita stabile e più sicura. A partire dalla potenza incontrollabile della natura fino alle pretese di aggressione dell’altro, l’uomo ha cercato di difendersi attuando strategie razionali motivate dallo scopo di salvaguardare la propria vita e i propri interessi. Il generarsi di queste strategie oggi si arresta di fronte al fatto che le fonti del pericolo sono spesso incerte e indeterminate e ciò compromette le soluzioni adottate tradizionalmente al fine di mutare la paura in un agire razionale.

La natura della modernità, oggetto esterno all’agire dell’uomo da controllare, dominare e sfruttare secondo i propri desideri, diventa oggi sempre più un costrutto umano e artificiale, così legato alla tecnica da essere portatore di nuovi rischi sconosciuti all’uomo. Questo cambiamento è legato alla trasformazione che ha subito l’uomo da homo faber a homo creator, prodotto inedito della globalizzazione tecnologica. La condizione di vulnerabilità che è costitutiva del soggetto fin dalle origini della modernità è stata rimossa a causa dell’egemonia dell’homo faber e lo sviluppo della tecnica ha prodotto una sorta di perversione di questa figura nell’ homo creator, provocando una scissione psichica tra il fare e il prevedere. In altri termini, spinto dall’imperativo della tecnica in virtù del quale ‹‹ciò che si può fare si deve fare›› l’uomo agisce senza prevedere le conseguenze del proprio agire7. Gunther Anders utilizza l’immagine dell’homo creator per spiegare proprio quel rovesciamento che ha subito l’illimitatezza delle possibilità umane divenendo impotenza.

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Con la denominazione homo creator intendo il fatto che noi siamo capaci, o meglio, che ci siamo resi capaci, di generare prodotti dalla natura, che non fanno parte (come la casa costruita nel legno) della categoria dei ‹‹prodotti culturali››, ma della natura stessa8.

Anders evidenzia il cambiamento decisivo dell’uomo che non si ferma più a trasformare la natura, ma acquisisce la capacità di creare la natura introducendo prodotti nuovi quali, ad esempio, la bomba nucleare, le manipolazioni genetiche. Questo è ciò che differenzia l’uomo contemporaneo da quello moderno identificabile invece nell’homo faber dominatore e sfruttatore della natura ma ancora in grado di rispettarne le leggi e di usare la tecnica solo per raggiungere certi fini. L’individuo creatore segna la ‹‹perversione››9

dato che è colui che si trova ad asservire i comandi di quella tecnica nata originariamente per servire l’uomo nella costruzione del proprio mondo (Welt) culturale. Questo processo verificatosi agli inizi della seconda metà del novecento prende il nome di ‹‹terza rivoluzione industriale›› nella riflessione di Anders e indica il capovolgimento dalla funzione di mezzo della tecnica alla sua autonomizzazione come fine, a cui sono subordinate anche le esigenze umane. Ciò che è fabbricato dall’uomo non è più strumento atto a soddisfare i bisogni e i desideri umani per vivere in un mondo più comodo, ma diviene una seconda natura che non è più oggi una metafora, ma è la realtà prodotta dalle tecniche di fronte alle quali ci sentiamo inadeguati e ‹‹antiquati››10. Da qui nasce il desiderio di liberarsi dei limiti dell’organico perché

le macchine che abbiamo creato superano l’umano, trascendono il corpo e la

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Anders G., Die Antiquiertheit des Menschen, I : Uber die Seele im Zeitalter der zweiten

industriellen Revolution, Beck, Munchen; trad. it. (2007), L’uomo è antiquato, I: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino,1956, p.

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Ivi, p. 54.

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Aggettivo usato da G. Anders per definire come l’uomo contemporaneo si sente di fronte alle nuove tecnologie che hanno ormai superato le capacità e i limiti umani.

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natura e configurano scenari futuri postumani nei quali è possibile che si verifichi la scomparsa dell’intero mondo.

In questo ambito prende corpo lo slittamento del pericolo al rischio che è un prodotto della globalizzazione tecnica e la caratteristica peculiare della società globale. I rischi globali consegnano gli uomini all’insicurezza e alla paura di minacce caratterizzate dalla loro indeterminatezza. Analizziamo ora la nozione di rischio con la riflessione sociologica contemporanea realizzata da Urlich Beck, il quale ha distinto la nozione di pericolo da quella di rischio evidenziando che la caratteristica di quest’ultimo risiede nell’essere il risultato dell’azione e della decisione umana.

Il rischio, nozione già presente nel mondo premoderno, assume un significato rilevante con la modernità, quando viene introdotta la possibilità di calcolare gli effetti potenzialmente dannosi derivabili da determinate azioni. Il trionfo della calcolabilità del rischio, nell’età moderna, non si sarebbe verificato se non avesse comportato dei vantaggi fondamentali, permettendo di evitare conseguenze negative attraverso la prevenzione. L’elemento di novità rivoluzionaria sta nell’anticipare una condizione del mondo che ancora non c’è e renderla calcolabile. I rischi sono eventi condizionati dal sistema e necessitano di una regolamentazione politica per produrre risultati positivi di prevenzione come oggi, ad esempio, nel caso di malattie legate in parte all’ambiente come il cancro. Il rischio de-individualizza nella responsabilità delle conseguenze e forma contemporaneamente un campo d’azione politica. Il calcolo del rischio consente una sorta di moralizzazione della tecnica che non si serve più di imperativi etici, ma li sostituisce, ad esempio, con i tassi di mortalità che corrispondono a

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determinati livelli di inquinamento atmosferico. Il calcolo del rischio simboleggia così l’etica matematica dell’era della tecnica11. L’ontologia del rischio non

privilegia nessuna forma di sapere, ma confronta tutte le diverse pretese di razionalità, le combina e sceglie la soluzione più idonea in vista di conseguenze future.

Il nesso tra decisone e rischio si perde tanto più ci troviamo di fronte al calcolo di effetti sconosciuti e spesso irreversibili, legati allo sviluppo scientifico e tecnologico, che fanno crollare ogni pretesa di calcolabilità. I rischi della tarda modernità che Beck definisce rischi globali presentano una nuova caratteristica:

(…) per loro natura essi minacciano la vita sulla terra in tutte le sue forme. Al loro confronto, i rischi professionali della prima industrializzazione appartengono ad un’altra era. Le basi normative per il loro calcolo (il concetto di incidente e di assicurazione, di prevenzione medica ecc.) non sono più adeguate alle dimensioni di fondo di queste moderne minacce. Questo significa che le modalità di calcolo del rischio, come sono state sinora definite dalla scienza e dalle istituzioni legali, collassano12.

La funzione strategica della tecnica di liberare gli uomini dalla paura, si rivela produttrice di rischi nuovi, portatori a sua volta di nuove paure. Gli uomini sono diventati i principali generatori di tali rischi che oggi minacciano ciò che era, a partire da Hobbes, il principio sul quale la modernità aveva fondato e legittimato le sue scelte, ovvero l’autoconservazione degli individui. Assistiamo a un paradosso e ad un’ambiguità etica dello sviluppo delle nuove tecnologie, laddove,

11

Cfr. Beck U., Weltrisikogesellschaft. Auf der Suche nach der verlorenen Sicherheit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2007; trad. it. Conditio humana. Il rischio nell’età globale, a cura di C. Sandrelli, Editori Laterza, Bari 2011, p. 46.

12

Beck. U., La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci editore, Roma, 2013 p.28-29.

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infatti, la tecnica ci aiuta ad abitare più comodamente il mondo, oggi è capace di renderlo anche più scomodo e inabitabile, essendo in grado potenzialmente di distruggere il genere umano e il mondo stesso13.

Non tutti i rischi sono riconducibili allo sviluppo della tecnica come ad esempio la criminalità organizzata, la disoccupazione o i conflitti interpersonali, ma la tecnica conferisce al rischio un carattere inedito, trasformando la nozione di pericolo in quella di rischio e collegando il rischio alla nozione di incertezza degli eventi di cui diventa impossibile precedere gli effetti. Con le sfide attuali sono minati i fondamenti della logica convenzionale del rischio, dovendosi confrontare con la possibilità nuova di autodistruzione di ogni forma di vita sulla terra, provocata dall’uomo. Beck parla, infatti, di società globale del rischio, una società senza assicurazione che convive con la possibilità di danni irreparabili, non prevedibili e con un inizio ma non con una fine certa, come nel caso del cambiamento climatico. I nuovi rischi hanno il carattere della globalità per la loro qualità di oltrepassare i confini degli stati producendo effetti a catena e generando la perdita di controllo, che espone gli individui della società globale alla sensazione dell’impotenza.

Le biotecnologie e la rivoluzione informatica sono due esempi di una tecnica produttrice di rischi nuovi. Nel campo dell’ingegneria genetica oggi con l’homo creator muta l’obiettivo inerente al benessere della nostra specie e, al conservare l’umanità attraverso mezzi tecnici, poiché si aggiunge lo scopo di migliorare la nostra specie. S'intravede così il pericolo, già denunciato da Anders, di uno stravolgimento delle leggi dell’evoluzione che potrebbero ridurre la

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presunzione dell’homo creator in homo materia, oggetto di esperimenti di laboratorio nei quali si mette a repentaglio anche l’unicità stessa dell’individuo, pensiamo ad esempio alla clonazione.

Sebbene la possibilità di un mondo post umano abitato da figure ibride sia ancora qualcosa solo di immaginabile nella nostra mente o di visibile nei film fantascientifici, è vero che alcuni aspetti sono già realtà; per esempio la tendenza a ridurre il corpo ad un insieme di organi e a oggetto passivo sul quale si possono applicare tecniche invasive che ne possono minare l’integrità. In merito a questo argomento Barbara Duden ha condotto un percorso storico di ricerca sul corpo della donna, evidenziando non tanto gli effetti materiali (economi, fisici, psicologici) del pensiero tecnologico e del progresso dell’ingegneria genetica, bensì le loro conseguenze sul piano simbolico14. Oggi l’individuo, portatore di una storia, è ridotto al suo bagaglio genetico, e in un’ottica deterministica è spinto a identificarsi con un programma la cui astrattezza non ha più nulla a che vedere con il corpo sensibile. Invece di lasciare che sia la biotecnologia ad avere l’ultima se non l’unica parola sul corpo dell’uomo, occorre riappropriarsi della capacità di sentire, di ritrovare un vissuto corporeo, suggerisce Barbara Duden.

In ogni caso, questi sono segnali dell’emergere di nuove minacce indeterminate e siamo costretti a utilizzare la tecnica per difenderci da esse, la stessa che le ha create. La tecnica però non è produttrice di senso e non indirizza l’agire umano, ci indica come fare una determinata azione, ma non quale fare. Inerente a questo tema sono un esempio i robot, dispositivi con sembianze umane e con un sistema interno che gli permette di muoversi nello spazio, sono

14

Cfr. Duden Barbara, Die Gene im Kopf – der Fotus in Bauch. Historisches zum Frauenkoerper, Offizin- Verlag, Hannover 2002; trad. it. (2006) I geni in testa e il feto nel grembo. Sguardo

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costruiti con caratteristiche mirate a renderli sempre più autonomi nelle scelte delle azioni da compiere e ad avvicinarli ai soggetti morali. Ora, anche se i robot sono in grado di scegliere quale azione compiere attraverso dei sistemi nei quali si è sviluppata una specie di capacità cognitiva, quando prendono la decisione, essi non rinunciano all’alternativa che non hanno scelto, come si trovano a fare invece gli esseri umani. I robot scartano le altre opzioni per portare avanti l’obiettivo che è inserito nella loro programmazione. Non possiamo parlare di libertà o di scelta nel caso dei robot o di qualsiasi macchina capace di compiere un’azione, non c’è riferimento ad una dimensione di senso che giustifica la decisione presa15.

Il carattere sfuggente di questi nuovi rischi legati alla biotecnologia ci provoca ansia e questi sono intrinsechi anche nella rivoluzione informatica, dove la realtà virtuale simula e sostituisce il mondo reale, appiattendo l’aspetto materiale dell’esperienza.

L’informatica e il mondo di internet con la creazione della realtà virtuale hanno provocato una sorta di de-realizzazione del mondo attraverso l’abbattimento di barriere spazio temporali. La distanza e la velocità non sono più impedimenti nella realtà virtuale grazie alle sue capacità di estensione e di invasione globale. Tutto questo indica il rischio contemporaneo per l’uomo di perdere il contatto con il corpo e con la materialità del mondo reale, che non risiede in un evento che si verifica episodicamente, ma è endemico e costitutivo, in grado d’intervenire simultaneamente ovunque, presentando, infatti, un carattere globale. Il nostro rapporto con questi nuovi mezzi tecnologi pervade interamente il nostro campo dell’esperienza e anche la nostra mentalità, cambiandoli.

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Le biotecnologie e la rivoluzione industriale sono due esempi di una tecnica produttrice di nuovi rischi e di nuove paure, tuttavia è impossibile non riconoscere quelli che sono gli effetti positivi di tali sviluppi tecnici. C’è un'innegabile ambivalenza che vede questi due settori, come altri legati alle conquiste tecniche, promotori del miglioramento della vita umana e allo stesso tempo generatori di danni. Un aspetto positivo nel mondo informatico, ad esempio, è l’uso solidaristico della rete che unisce individui promotori di movimenti d’emancipazione in reti civiche, dove si coopera per cercare soluzioni tecniche basandosi sul principio di reciprocità e attraverso le quali si favorisce la comunicazione interattiva dei cittadini, come ad esempio, la rete civica di Amsterdam.16 In questo caso l’innovazione di internet è stato il prodotto della vita democratica mossa dal principio di condivisione e dal bisogno di ragionare insieme al fine di trovare soluzioni comuni per i problemi della vita associata. Nel caso delle biotecnologie cito, come aspetto positivo, le promesse che vengono dalla ricerca sulle cellule staminali embrionali che sembrano poter offrire la speranza per nuove terapie.

Può ancora trovare spazio allora quella fiducia, accompagnata da una corretta e indispensabile criticità, nei sistemi esperti in vari settori se ci soffermiamo sugli aspetti positivi che essi dimostrano produrre.

Oggi però quest’ambivalenza sembra che stia scomparendo a favore della parte negativa, soprattutto di fronte ai rischi ambientali. Il cambiamento climatico, gli incidenti nucleari, le scorie radioattive, l’inquinamento e la perdita della

16

Le reti civiche nascono negli Stati Uniti intorno agli anni settanta. In Europa le esperienze più significative sono state la Città digitale di Amsterdam e la rete civica di Bologna Iperbole entrambe nate nel 1994. La diffusione delle reti civiche è esplosa in tutto il mondo grazie ad Internet, in particolare nei paesi in via di sviluppo, nei quali si sono prodotte esperienze caratterizzate da un rafforzamento della vita civica.

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biodiversità sono tutte conseguenze non desiderate dell’agire tecnico dell’uomo che mettono a repentaglio la sopravvivenza non solo del genere umano, ma dell’intero pianeta. Si entra così nella dimensione di danni irreversibili, che possiamo provare a contrastare solo attraverso una tecnica ancora più sofisticata di quella che li ha provocati. Gli effetti negativi vincono oggi su quelli positivi a causa anche di un giustificato scetticismo degli individui nel risolvere tali problemi. I danni provocati non colpiscono poi solo i responsabili delle scelte che li hanno causati o agli addetti ai lavori, ma coinvolgono tutti e l’ambiente circostante, come nel caso di Chernobyl, ed è in questa potenzialità che ritroviamo il loro carattere globale. I rischi globalizzati anche dove non colpiscono l’umanità intera, ad esempio in occasione dello scoppio della bomba atomica ad Hiroshima, portano conseguenze negative che riguardano l’intero mondo e i suoi abitanti allo stesso modo, come le scorie radioattive o le nubi tossiche e rimane la difficoltà dell’imputabilità di tali danni.

Lo scenario che tali rischi aprono è costituito da insicurezza e da adito a nuove paure che sono alimentate dalla perdita di fiducia dell’uomo nei confronti dei due dispositivi da lui costruiti per liberarsi della paura, la tecnica e la politica che hanno perso la loro efficacia. La prima come abbiamo visto moltiplica i rischi e le rispettive paure da questi derivate invece che arginarli e la politica, intesa nell’accezione moderna quindi statuale, non è in grado di risolvere o di farsi carico delle sfide globali, le quali sono capaci di scavalcare i confini geografici provocando una perdita di controllo e una sensazione di spaesamento. L’incrinarsi della fiducia nei sistemi istituzionali alimenta la paura e l’angoscia, che assumono dei connotati diversi nel mondo globale e provocano anche dei meccanismi di

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difesa nuovi. La globalizzazione ha trascinato con sé un progressivo indebolimento delle strutture sociali, reali e simboliche, artificialmente costruite dall’uomo occidentale a partire dal Seicento e per tutta l’età moderna al fine di rassicurarsi e porsi al sicuro rispetto alle proprie paure.

Le due paure dell’uomo globalizzato su cui intendo concentrare la mia riflessione sono la paura del futuro e successivamente la paura dell’altro. La paura del futuro nasce nella modernità, periodo storico in cui l’uomo prende coscienza del suo futuro come uno spazio aperto di possibilità da cui nasce la preoccupazione di garantirne l’esistenza. Hobbes nella sua opera il Leviatano definisce questa paura ansia prometeica: un’ansia che l’individuo moderno prova per la sua capacità di progettare il futuro di fronte ad un orizzonte aperto assicurandosi i beni materiali per la sua sopravvivenza. L’uomo moderno è colpito da ansia per l’orizzonte incerto che si trova davanti, ma è capace di prevedere ed agire attraverso strategie razionali. L’uomo prometeico con la spinta della paura calcola e prevede con dei piani, rinunciando anche a qualche cosa, ad esempio alla libertà nel caso dello stato hobbesiano, volti a garantire la propria sicurezza nel futuro. Lo stato, forte perché capace di avvalersi della violenza legale, diviene qui il grande dispositivo di controllo atto a tutelare la sicurezza dei privati cittadini, sia dai pericoli interni, come la delinquenza oppure la guerra civile, sia dai pericoli esterni come la guerra mossa da un altro stato. Nella dottrina politica di Hobbes appare come la sicurezza sia l’altro volto della libertà: solo l’individuo sicuro è l’individuo libero, nella misura in cui essere al sicuro significa poter disporre liberamente di tutte le proprie facoltà. Nel corso della storia saranno

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aggiunti all’ambito della sicurezza personale, il dovere dello stato di garantire non solo la sicurezza ma anche la libertà personale.

Nella contemporaneità la paura del futuro è ancora la passione dominante, ma assume una diversa connotazione perché il futuro è compromesso a causa dei rischi globali citati in precedenza e per la prima volta non siamo più in grado di controllarlo, di gestirlo e perfino di immaginarlo. Questo pone l’umanità di fronte alla perdita del futuro che non è più solo una patologia individuale, ma è una possibilità concreta che potrebbe verificarsi. La paura per il futuro s'identifica sia nella sfera personale di ogni individuo ed è legata alle condizioni materiali della propria vita, all’assenza di lavoro e alla nostra impotenza di fronte a questo per l’incontrollabilità dei poteri forti, sia nei rischi globali che abbiamo descritto come effetti imprevisti e indesiderati delle nostre azioni, incerti e irreversibili.

Si tratta oggi di una passione diversa da quella che caratterizza la modernità, legata più allo stato affettivo dell’angoscia proprio perché il problema risiede nel carattere indeterminato del pericolo che non riusciamo a definire e a controllare. Quest'angoscia produce reazioni diverse rispetto alla paura hobbesiana: non porta a una reazione produttiva che cerca soluzioni, ma fa scattare meccanismi di difesa che tendono in primo luogo a ridimensionare il pericolo. L’individuo globalizzato attua delle strategie di ‹‹diniego della realtà››17

. Il diniego è un termine freudiano che indica l’operazione nella quale l’Io, pur riconoscendo razionalmente una realtà difficile e dolorosa, fa in modo che questa non raggiunga la sfera motiva. Il meccanismo di difesa contro la realtà esterna del diniego dimostra che noi sappiamo quello che succede e conosciamo le minacce

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che caratterizzano il tempo in cui viviamo, grazie anche a un'informazione fruibile da tutti facilmente, ma allo stesso tempo non sappiamo. Il diniego è un atteggiamento che ci permette di capire le patologie del sentire del mondo contemporaneo. Questo paradosso di sapere e non sapere ci consente di vivere in una condizione emotiva di apatia e indifferenza verso gli eventi al fine di proteggerci dalla presa di coscienza di pericoli troppo grandi e spaventosi, che non sono facilmente elaborabili dalla nostra psiche. Anders ha utilizzato la metafora del diniego per indicare la reazione di difesa del popolo giapponese di fronte alla minaccia nucleare dopo l’evento di Hiroshima.

(…)Hiroshima è stata completamente ricostruita. Il positivo raggiunto con la loro ricostruzione era una doppia negazione. A quell’epoca rimproverai il sindaco di Hiroshima: ‹‹Avete distrutto la distruzione. Bisogna forse distruggere doppiamente? Nessun bambino d’oggi sa più com’era la devastazione: Avete devastato anche l’immagine del ricordo!››. Ma era già troppo tardi. A dire la verità, in vita mia non ho mai visto una simile rimozione (non solo psicologica ma anche fisica). Si è andati così oltre che gli abitanti che non hanno fatto esperienza con il blitz, volevano avere a che fare il meno possibile con le vittime ancora in vita, monito di quel giorno terribile.18

Anders ha parlato di ‹‹dislivello prometeico›› per descrivere l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, una distanza che si fa ogni giorno più grande.19 Si evidenzia così la disparità che c’è tra il fare e il prevedere gli effetti e tra il conoscere e il sentire emotivamente, che caratterizza l’individuo contemporaneo. L’uomo ad esempio conosce oggi le

18

Cfr. Anders G., Gewalt. Ja oder nein. Eine notwendige Diskussion, 1987; trad. it. Il mondo dopo

l’uomo. Tecnica e violenza, Mimesis Edizioni, Milano 2008, p. 81. 19

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possibili conseguenze di uno scoppio nucleare, ma non permette a se stesso di provare davvero paura, mettendo in atto una sorta di sedazione della paura.

Un altro comportamento che varia dal diniego e che è adeguato per spiegare le nostre reazioni di fronte alle sfide globali, di cui il global warming rappresenta il fenomeno più pervasivo è l’autoinganno. Atteggiamento psichico dell’uomo contemporaneo descritto e analizzato dettagliatamente nella riflessione filosofica di Elena Pulcini, l’autoinganno richiama quell’intuizione hobbesiana inerente all’incapacità della paura di produrre soluzioni di fronte ad un male troppo lontano rispetto al desiderio immediato da realizzare. Il carattere remoto del pericolo, molto spesso invisibile e inafferrabile, la difficile imputabilità favoriscono la tendenza degli individui a mentire a se stessi sulle possibili conseguenze disastrose di un’azione impedendo così il sorgere della paura. L’io globale si chiude in un individualismo illimitato, come lo ha definito Elena Pulcini, per autodifesa a causa dello sgretolamento delle protezioni tradizionali e mette muri di apatia. L’individuo è sempre più solo, senza legami sociali capaci di rassicurarlo, e come tale è sempre più vittima e soggetto della propria condizione emotiva che vive un’immediatezza pericolosa.

Questi meccanismi di autodifesa dalla realtà non coinvolgono più solo l’individuo, ma caratterizzano i comportamenti delle intere società globali. Essi consentono di negare i rischi che abbiamo di fronte e quindi anche la nostra condizione di vulnerabilità, per questo assistiamo alla perdita di quella paura produttiva che riusciva a mobilitarci contro il pericolo.

La politica sembra alimentare questo atteggiamento mostrando la sua inefficacia di fronte a questa perdita del futuro che l’uomo contemporaneo sta

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vivendo. L’incapacità della politica è legata al carattere globale di queste sfide che travalicano i confini nazionali e la rendono quindi impotente ed anche alla volontà di continuare a difendere gli interessi dei poteri forti causa ad esempio del fallimento dei vari congressi internazionali sul clima20. Il silenzio della politica di fronte alle sfide globali e alla paura del futuro acuiscono l’indifferenza trasformando gli individui contemporanei in spettatori passivi degli eventi. Si è prodotto ormai da anni un processo di continuo e costante indebolimento del ruolo, delle funzioni e del potere detenuto dagli stati nazionali, senza tuttavia che a questo progressivo indebolimento sia corrisposta l’emersione di soggetti politici trans-nazionali forti, in grado di assumere decisioni economiche e sociali condivise. La riduzione del potere degli stati europei nel campo della politica economica ma anche militare sono fenomeni evidenti. Nel corso del novecento è cambiata la forma stessa di condurre la guerra. Forma davanti alla quale le tecniche strategiche tradizionali sono sempre più inefficaci. Si pensi, ad esempio, alla difficoltà e debolezza dello stato nell’affrontare una guerra non più portata da un nemico esterno, chiaramente identificabile, come uno stato, ma da un nemico che si nasconde nella società civile, come il pericolo terrorista.

L’insicurezza e l’illimitatezza, che emergono da questo scenario globale, accomunano le tre figure nelle quali è possibile identificare le patologie dell’individualismo nell’età globale: l’individuo spettatore, creatore e consumatore21. Gli effetti sono riscontrabili nell’indebolimento d’identità,

20

L’incontro a New York delle maggiori potenze mondiali nel settembre 2014 ha lasciato sperare l’attuazione di qualche possibile strategia per ridimensionare il problema dell’inquinamento climatico.Più recentemente è stato raggiunto un accordo a Lima nel dicembre 2014.

21

Nella riflessione filosofica di E. Pulcini emergono queste tre patologie relative all’io globale e sono frutto rispettivamente dei vari processi economici, culturali e scientifici portati dalla globalizzazione.

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nell’erosione del legame sociale causato da un’incapacità di proiettarsi al di fuori delle proprie ansie, desideri o interessi ed infine un agire senza scopo e senza senso che non permette nessuna previsione del futuro.

Alle nuove patologie dell’individualismo si contrappone una nuova esigenza di appartenenza e di condivisione che sfocia in un bisogno di comunità. Questo bisogno nasce dall’insicurezza e dalla paura dell’altro e da vita a comunità basate sull’assolutizzazione delle differenze, sfociando in fondamentalismi di varia natura. La politica anche qui si mostra inadeguata, infatti, strumentalizzando spesso la paura dell’altro finisce per moltiplicare la violenza e le reazioni di chiusura.

1.3 La paura delle differenze

L’indeterminatezza caratterizza anche un’altra fonte della paura globale, che ha segnato il passaggio alla modernità e risiede nella figura dell’altro. Lo scenario di questa paura oggi è profondamente cambiato rispetto all’età moderna perché muta la figura dell’altro. Quest’ultimo oggi non è più ciò che compare nello scenario hobbesiano caratterizzato da una premessa di uguaglianza, dove l’altro è uguale a me, è il mio simile, qualcuno dotato dei miei stessi diritti, interessi e bisogni. Hobbes partendo da questa condizione di uguaglianza presenta l’altro come il nemico e il rivale all’interno di una relazione conflittuale concreta e certa. La paura della morte violenta provata da due individui che si fronteggiano ad armi pari per l’autoconservazione e per l’acquisizione di beni ci riporta alla materialità del conflitto. L’altro quindi nella modernità non è solo noto e identificabile in una certa corporeità, ma è anche qualcuno con cui si può

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patteggiare per ottenere una condizione che liberi tutti dalla paura, come nel caso del patto sociale hobbesiano che mostra la funzione produttiva della paura stessa.

Nella contemporaneità, al contrario, l’altro non ha più le caratteristiche di uguaglianza e similarità, egli diventa il diverso, lo straniero. Dal punto di vista delle società occidentali l’altro è colui che invade le nostre società ormai multiculturali, considerando anche i grandi flussi migratori che la globalizzazione ha portato. E’ qualcuno che non gode più dei miei stessi diritti e di una stessa condizione di uguaglianza, ma che è presente e mi sfida, mi mette alla prova con la sua irriducibile e angosciante differenza etnica, religiosa e culturale.

La globalizzazione investe questa figura con un cambiamento radicale che ci richiama al tema dell’indeterminatezza dell’oggetto che ci provoca paura. Nelle società contemporanee si è incrinato il meccanismo di espulsione dell’altro fuori dai nostri confini, che nella modernità permetteva di difendersi. L’altro nella storia ha assunto spesso il ruolo di ‹‹capo espiatorio››22

, secondo un meccanismo che consente di spingere le proprie paure al di là dei confini rafforzando il legame interno secondo la logica del dentro/ fuori che ha caratterizzato la modernità. Questa dinamica attraverso la quale puoi confinare all’esterno il diverso, lo straniero, colui che ti provoca paura, per costruire l’identità di un noi, non funziona più nella realtà globalizzata. I confini territoriali che oggi demarcano le nazioni non sono più ben definibili e riconoscibili, non separano più come nella modernità e non sono garanti di immunità. Possiamo palare di ‹‹straniero interno››23

, concetto presente nella riflessione di George Simmel, che sta ad

22 Pulcini E., La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, cit., p.144. 23

Cfr. Simmel G., Soziologie. Untersuchungen uber die Formen der Vergesellschaftung, Dunken e Humblot, Leipzig, 1908; trad. it. Excursus sullo straniero, in Sociologia, edizioni di Comunità, Milano, 1989, p. 580-584.

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indicare colui che viene per restare e non è assimilabile alla propria realtà perché egli si presenta e mantiene la sua identità che è differente e non si può nemmeno espellere in un altrove, dato che non esiste più nella società globale un confine netto tra il dentro e il fuori.

Presentandosi come qualcuno di esterno ma vicino, l’altro nella società globale è una figura indeterminata, che diventa fonte di paura endemica e fa fallire le strategie di difesa tradizionali a causa della minaccia costante di una presenza diffusa e multiforme che non può essere né assimilata né esportata.

La paura dell’altro si trasforma in paura della contaminazione24, infatti l’altro, il diverso non minaccia soltanto la nostra vita o la nostra sicurezza come in Hobbes, ma mina alla nostra stessa identità, al nostro stile di vita e alle nostre certezze ormai affermate. Le attuali e inquietanti immagini degli sbarchi sul mediterraneo di migliaia di profughi sono un esempio della paura della contaminazione che proviamo di fronte a masse indistinte di corpi che ci appaiono senza volto e portatori di minacce sconosciute.

Di fronte a questo pericolo gli individui rispondono attraverso modalità difensive e aggressive creando la contrapposizione Noi e Loro. Loro diventano i capri espiatori su cui convergono i malcontenti delle intere società e a cui si attribuisce le responsabilità di tutti i mali che ci troviamo di fronte. Poiché oggi, come abbiamo accennato precedentemente, non possiamo espellere il diverso in un altro luogo e né assimilarlo completamente perché portatore di differenze, la sua presenza porta ad un conflitto e ad una violenza che apparentemente sembra non avere soluzione.

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Gli attacchi alle minoranze e i conflitti etnico religiosi che ne derivano da questi hanno come movente la volontà di rimuovere le differenze omologandole. La nuova figura dello straniero che arriva per rimanere annullando il tradizionale confine tra dentro e fuori, carica di indeterminatezza, produce una radicalizzazione dei meccanismi di difesa generando atteggiamenti persecutori sul diverso. Questo ci dimostra che la paura perde la sua funzione produttiva trasformandosi in rancore e odio.

L’uomo occidentale sentendosi minacciato nella propria identità e sicurezza risponde con la costruzione di muri nei confronti del diverso che non lasciano spazio all’individualità della persona. La globalizzazione ha portato un bisogno identitario, la necessità di ritrovare all’interno di queste società multiculturali un punto fermo a cui ancorarsi. La creazione di spazi comunitari è il fenomeno che risponde a questa esigenza e testimonia un desiderio di delimitazione all’interno del disordine globale. L’assenza di confini infatti porta alla perdita di punti di riferimento ad un sentimento di incertezza e di angoscia. Lo spaesamento di fronte alle infinite possibilità dell’uomo portate dalla globalizzazione e la contemporanea perdita dell’identità fanno assumere agli individui atteggiamenti difensivi alla ricerca di sicurezza. La costruzione della comunità che sembra in parte contrastare la chiusura dell’uomo globale in quella che Elena Pulcini definisce “la patologia dell’individualismo illimitato”25, risponde sia allo smarrimento di senso che a quello dell’identità fissando degli obbiettivi e portando avanti dei progetti condivisi. All’interno di queste comunità la volontà di difendere quello per cui sono nate ovvero la costruzione di

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un’identità collettiva, portano con sé dei meccanismi di esclusione tendendo ad omologare al proprio interno tutte le possibili differenze.

Le minoranze culturali, etniche e religiose non trovano spazio in queste comunità endogamiche26 e vengono così escluse diventando vittime di una incertezza identitaria.

L’emergere di questa passione comunitaria è alimentata dalla crisi dell’identità politica e della cittadinanza e a sua volta dello stato.

La politica, istituzione nata originariamente per garantire una vita buona ai propri cittadini e gestire le varie paure umane oggi non è più in grado di portare avanti il suo ruolo. Essa ha fatto leva sul sentimento della paura, promettendo sicurezza e conquistando per questa via, più o meno meritatamente, coesione e consenso sociale.

Se lo stato moderno nasce precisamente sull'istanza di governare la paura, trasformandola da passione disordinante dello stato di natura in elemento ordinatore della società, quello che oggi abbiamo di fronte a noi è uno scenario in cui la politica, più che governare la paura, ne è governata: ne subisce le ondate paranoiche e risponde con ondate securitarie altrettanto paranoiche, che a loro volta non la riducono ma la alimentano, senza che ne derivi ordine bensì disordine. Stati Uniti ed Europa negli ultimi decenni hanno mostrato in alcune occasioni come l’uso strumentale di questa passione contribuisca alla costruzione mentale e artificiale del nemico e legittimi la logica del capro espiatorio de-umanizzando il diverso27. Quello che gli stati definiscono strategie in nome della sicurezza sono comportamenti che finiscono per acutizzare i conflitti e aumentare

26

Pulcini E., La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, cit., p.84

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la violenza. La reazione della politica statunitense, ad esempio, dopo l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, si è basata sul ritorno di politiche limitanti nei diritti internamente e nella politica estera su guerre devastanti tuttora irrisolte. In Europa ne è un esempio la legge sull’immigrazione varata da Sarkozy in Francia che prevedeva un aumento delle sanzioni e una rigidità normativa al fine di portare avanti la lotta contro l’immigrazione clandestina e contro il terrorismo.28 Recentemente con le politiche di governi progressisti abbiamo assistito al cambiamento di alcune cose che potrebbero far riaffiorare la speranza nell’abbandono da parte delle istituzioni dell’uso strumentale della paura, ma rimane più difficile credere nella possibilità che la politica riesca a contrastare razzismi molto radicati e presenti a livello sociale e che tornano fuori incarnandosi ogni volta in leaders diversi. Proprio la politica infatti ha spesso alimentato queste forme di diffidenza e di paura verso l’altro per l’influenza che essa ha sull’informazione pubblica.

Come scrive la filosofa statunitense Judith Butler:

«La sfera pubblica è costituita in parte da ciò che può apparire, e la regolamentazione della sfera del visibile è un modo per stabilire ciò che è reale e ciò che non lo è»29.

28

Nel novembre 2003 è entrata in vigore in Francia la nuova legge Sarkozy sull’immigrazione che regolamenta in maniera molto rigida gli ingressi sul territorio francese, riduce pesantemente la possibilità di ottenere la "carta di residenza" introducendo il cosiddetto "contratto di integrazione", aumenta da 12 a 32 giorni la detenzione in attesa dell’espulsione dal paese, introduce la schedatura attraverso le impronte digitali e i dati biometrici per tutti coloro che faranno richiesta di visti e permessi di soggiorno. In nome della "lotta all’immigrazione clandestina e al terrorismo", questa nuova legge introduce le impronte digitali elettroniche in linea con l’accordo raggiunto nel mese di ottobre 2003 a La Baule dai Ministri degli Interni dei cinque stati più popolosi dell’Unione Europea (Francia, Spagna, Inghilterra, Germania, e Italia) e che interesserà tutta l’area Schengen.

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Un ambito cruciale e delicato, dove il modo in cui gli eventi vengono fatti risuonare rischia di produrre una vera e propria “distorsione ontologica”, la cui gravità non è pienamente compresa. Nel creare meccanismi di paura nei confronti dell’estraneo i sistemi politici compiono un processo di de-umanizzazione del nemico. Inerente a questo tema J. Butler ha compiuto delle ricerche sulle vittime di guerre volutamente lasciate senza volto e ha analizzato moltissimi casi in cui si verificano quelle che definisce “distribuzioni politiche del lutto” asimmetriche. Così come i morti arabi che non hanno né un volto né un nome, la loro vita e l’angoscia delle persone che hanno visto morire i propri cari vengono rimosse in una sorta di derealizzazione collettiva funzionale all’obiettivo militare, e che produce un «razzismo amorfo, indefinito, razionalizzato dall’appello all’autodifesa». J. Butler ha riflettuto in merito di monopolio della morte che gli americani, ma non solo, hanno attribuito a se stessi differenziando il valore della vita di uno di loro rispetto a quella del nemico. Con la modernità emerge la differenza in cui il nemico vive, rispetto a noi, ed è proprio su queste differenze che legittimiamo spesso i comportamenti discriminatori che mettiamo in atto.

L’11 settembre è una data che oltre a ricordare per sempre la tragedia americana, segna anche un cambiamento ed una scoperta dopo la quale non si torna indietro. Si tratta della messa a nudo della vulnerabilità degli Stati Uniti, luogo fino a quel momento considerato inattaccabile e la violenza si trovava al di fuori di quei confini che sembrano invalicabili. E’ stato possibile constatare che i confini nazionali sono più permeabili di quanto immaginassimo. La reazione americana di ansia e di rabbia dopo la presa di coscienza di questa propria vulnerabilità e paura verso l’estraneo si è trasformata in un desiderio di sicurezza

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e di rafforzamento di questi confini, accompagnato da un paranoico controllo degli arabi. L’informazione americana trasmettendo incessantemente messaggi di allarme ha legittimato ed aumentato le varie reazioni d’isteria razziale, diffondendo ovunque un senso di paura. Il panico che si crea è affiancato da un rafforzamento dei confini nazionali e da limitazioni nel campo delle libertà civili.

Come l’essere inondati di notizie fa si che per potersi affermare la comunicazione deve fare perno sui sentimenti del pubblico, allo stesso modo anche il candidato o la fazione politica per potersi imporre deve costantemente richiamare su di sé l’attenzione designando un contorno assolutamente drammatico e spaventevole. Emerge così una paura indistinta, un soggetto spaesato e sottoposto a stimoli paurosi continui, capace di vedere il potenziale nemico ovunque. Il punto centrale, non è quanto gli oggetti e i soggetti che ci provocano paura siano davvero pericolosi, ma la questione è con che occhi li guardiamo noi. Oggi il nostro è uno sguardo impaurito e continuamente allarmato, incapace di confidare nella politica come spazio hobbesiano garante della

sicurezza.

In questo panorama di spaesamento l’uomo non può far altro che sentirsi disorientato per la perdita di contatto con un mondo che gli appare completamente diverso da quello gli è stato tramandato e con la perdita del legame con la terra e con il mondo l’essere umano perde drammaticamente anche la sua consistenza. La contingenza e l’incertezza, dopo questa mutazione antropologica, divengono quindi, i tratti più evidenti della condizione umana. L’uomo tende a chiudersi in un individualismo senza limiti nel quale diviene spettatore, in quanto, di fronte ai rischi non desiderati e non previsti dell’agire

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umano, l’individuo sembra essere ridotto a una condizione passiva e impotente di vittima del suo stesso agire. In alternativa crea realtà comunitarie dove si cerca di omologare al massimo tutte le differenze per ritrovare un’identità collettiva che funga da riferimento.

Questa breve analisi del sentimento della paura nell’età globale ci può aiutare a capire le ragioni della ricerca identitaria, del desiderio di appartenenza e delle reazioni di esclusione e diffidenza nei confronti dell’altro che oggi appare ai nostri occhi come il diverso, l’estraneo. Quello che cercherò di dimostrare successivamente attraverso le riflessioni di due filosofi contemporanei, è che questo bisogno si esprime attraverso la pluralità dando origine ad una moltiplicazione delle differenze anziché alla loro distruzione. La differenza oggi diventa una sfida inevitabile che fa saltare i meccanismi tradizionali di risoluzione del problema dell’altro e la paura è il sentimento caratterizzante di questa esperienza.

Dovremmo cercare di accettare l’idea di una pluralità d’identità e riconoscere un pluralismo basato sulla convivenza estendendo le nozioni di straniero e diverso anche a noi stessi e non risucchiare i soggetti in categorie unitarie. Julia Kristeva invita in merito a prendere in considerazione almeno due punti:

il primo consiste nel riconoscere che le identità sono in larga misura plurali, e che l’importanza di un’identità non deve necessariamente cancellare l’importanza delle altre. Il secondo è che una persona deve fare delle scelte, esplicite o implicite, sul peso relativo da

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attribuire, in un particolare contesto, alle divergenti fedeltà e priorità, che possono essere in competizione tra loro per avere la precedenza.30

Prendendo coscienza della pluralità delle identità si mostra inadeguata anche l’idea di tolleranza nata nella modernità secondo la quale l’altro, il diverso va tollerato nel senso peggiore del termine, ovvero dall’alto rimanendo fermi nella convinzione delle superiorità delle nostre certezze.

L’esperienza dell’altro è inevitabile e sarà sempre caratterizzata dal sentimento della paura e del timore nei confronti di un qualcosa di estraneo rispetto a noi, che richiama la nostra attenzione, destabilizzandoci. Non è girandoci dall’altra parte che supereremo questa condizione e neppure cancellando ciò che ci rende diversi dall’altro potrà renderci immuni da ciò che proviamo di fronte al suo richiamo.

30Cfr. J. Kristeva, Stranieri a noi stessi. L’Europa, l’altro, l’identità, Donzelli editori, Roma, 2014,

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