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Essenzialismo psicologico e dualismo attributivo

Pietro Perconti Università di Messina

4. Essenzialismo psicologico e dualismo attributivo

L’ostacolo consiste semplicemente nel fatto che il senso comune si rivela essenzialistico anche nei riguardi dei fatti mentali. Rivolto verso l’ambito mentale, tuttavia, l’essenzialismo tipico del senso comune dà luogo ad un atteggiamento naturale specifico, ossia al dualismo attributivo. La questione del dualismo antropologico si trova al centro del conflitto tra l’immagine più comune sulla natura umana e l’im- magine che è proposta dalla scienza. Da un lato, infatti, sembra che l’idea che gli esseri umani siano dotati di una vita interiore inosser-

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vabile sia profondamente radicata nel senso comune di ogni essere umano. Dall’altra, l’immagine scientifica sembra complessivamente militare a favore del materialismo e del fisicalismo. Per affrontare tale questione ho proposto (Perconti 2011a; 2011b) di adottare un atteg- giamento filosofico che si potrebbe chiamare dualismo attributivo e che si differenzia dal più celebre dualismo cartesiano per la sua par- simonia ontologica, ossia per il fatto che non implica alcun impegno ontologico sull’esistenza di sostanze immateriali incompatibili con il principio teorico della chiusura causale del mondo fisico. Eccone una definizione:

«Il dualismo attributivo consiste nell’inclinazione, psicologica- mente e biologicamente fondata, a vedere se stessi e altri come corpi governati da una forza interna. Non importa se siamo davvero fatti così. Sembra che non possiamo fare a meno di considerarci come corpi animati da menti o che almeno ci risulti più spontaneo fare così. Non importa se i due segmenti della celebre illusione di Muller-Lyer siano (conosciuti come) identici. Di fatto non pos- siamo fare a meno di vederli di lunghezze differenti. Analogamente non importa se la scienza ha scoperto che in realtà non siamo fatti di un corpo e di una anima. Non riusciamo a trattenerci dal ricorrere a questo schema per dar senso ai nostri e agli altrui comportamenti. Per questo, mentre possiamo disfarci del dualismo cartesiano, quello attributivo è destinato a perseguitarci per sempre» (Perconti 2011a, 76).

La tesi in favore della quale sto argomentando è che il dualismo attributivo è il punto di equilibrio desiderabile tra la tendenza naturale a essere dualisti e i risultati della scienza sperimentale. Il dualismo attributivo è ispirato all’interpretazionismo e all’atteggiamento inten- zionale di Daniel Dennett (1987). Invece che tentare di rispondere alle tipiche domande ontologiche sulla mente, come: «Cosa è la libertà?», «Esistono gli stati intenzionali?» o «Cosa è la causazione mentale?», ecco un altro genere di domanda, meno impegnativa dal punto di vista ontologico e più sofisticata dal punto di vista epistemologico, ossia: «Qual è la grammatica dell’attribuzione psicologica?». Il dualismo attributivo è una posizione che Dennett dovrebbe accettare come una conseguenza delle sue stesse premesse teoriche. Se qualcosa dovesse trattenerlo dall’accettare tali conseguenze, il principale candidato sa-

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rebbe senz’altro la legittimità che il discorso di senso comune ha nel dualismo attributivo e che, al contrario, viene negata nell’eliminati- vismo, una posizione con cui spesso Dennett viene associato.

Sono d’accordo con le cautele suggerite da Marc Slors (2015), se- condo cui le nostre pratiche di attribuzione psicologica non possono esaurire l’intero ambito di significato del mentale. Ma sono più fidu- cioso di lui che la scienza cognitiva sia in grado di riempire la stra- tegia del come se con abbastanza prove empiriche da giustificare la legittimità epistemologica che il discorso di senso comune ha nella strategia revisionista del dualismo attributivo, oltre che da giustificare l’azzardo quotidiano insito nelle pratiche interpretative del comporta- mento delle altre persone. Le prove empiriche mostrano come nella mente umana ci siano diversi grilletti capaci di far scattare la compul- sione a rendere conto del comportamento in termini intenzionali.

Tra questi occorre menzionare almeno la predisposizione naturale a classificare in modo diverso le creature viventi da quelle artificiali sulla base del riconoscimento spontaneo del loro movimento (Johansson 1973). Siamo in grado di identificare in modo spontaneo, precoce ed indipendente dall’educazione (Simion, Regolin, Bulf 2008), il movi- mento biologico e di distinguerlo da quello artificiale sulla base delle ri- spettive e particolari caratteristiche cinematiche a cui il cervello umano sembra selettivamente sensibile. È notevole, inoltre, che tale sensibilità al movimento biologico sia associata nel caso di quello umano anche alla capacità di associarvi diversi tratti psicologici secondari, come la tristezza e la felicità, oppure caratteristiche di genere, come il ricono- scimento della camminata di una donna o di un uomo.

Oltre al riconoscimento del movimento biologico, un secondo gril- letto per il dualismo attributivo è costituito dalla inclinazione a rico- noscere delle facce in certi tipi di configurazioni percettive. Come nel caso del movimento biologico, anche il riconoscimento dei volti è una capacità spontanea, incapsulata informazionalmente, almeno in parte, e presente molto precocemente nello sviluppo tipico. Tramite l’inter- pretazione spontanea dei pensieri e delle emozioni che sono veicolati dalle facce altrui sembriamo creature naturalmente predisposte alla vita sociale. Un terzo grilletto per il dualismo attributivo è la capacità di seguire lo sguardo altrui e di condividere l’attenzione con un’altra per- sona. Tale abilità, che sembra talmente spontanea da apparire ubiqua, è invece una rarità nella cognizione animale, nonché una acquisizione

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cruciale nello sviluppo psicologico infantile. Si tratta, infatti, di una capacità essenziale per lo sviluppo comunicativo dei bambini e per il corretto funzionamento delle abilità di attribuzione alle altre persone di stati mentali ed emozioni al fine della predizione comportamentale e del coordinamento delle condotte. In una parola, senza attenzione condivisa non ci sarebbero né i processi di attribuzione psicologica né il linguaggio verbale, e quindi in definitiva nessuna società nel senso umano del termine.

I tre grilletti mentali appena menzionati sono in grado di predi- sporre naturalmente gli esseri umani in una direzione sociale sulla base del riconoscimento spontaneo di caratteristiche che apparten- gono tipicamente alle persone umane, come il possesso di interessi ed emozioni il cui senso è veicolato dal modo in cui ci muoviamo nell’ambiente, dal nostro sguardo e dalle emozioni che sono riflesse nei nostri volti. Detto altrimenti, quando capita di imbattersi in un in- dividuo che sollecita i processi mentali prima esaminati, allora siamo naturalmente inclini a trattarlo come una persona, ossia con la stessa considerazione che tributiamo a noi stessi. Questa inclinazione natu- rale precede i successivi processi di simbolizzazione culturale, tramite i quali a volte ciò che eravamo inclini a trattare come una persona può essere successivamente considerata altrimenti.

Per esempio, un nazista potrebbe essere stato condotto a conside- rare in modo compassionevole una sua vittima sulla base dei grilletti del dualismo attributivo e soltanto in un secondo momento, correg- gendo tramite la categorizzazione culturale la propria inclinazione na- turale, potrebbe essere giunto a considerare come indegna di rispetto sociale quella stessa vittima. L’inclinazione naturale di cui stiamo par- lando, infatti, non è responsabile dei giudizi che successivamente ri- guarderanno ciò che ha azionato i grilletti. Quei giudizi, del resto, pos- sono essere di ogni tipo e rispondono a logiche diverse da quelle che hanno regolato i processi mentali che sottostanno al funzionamento dei grilletti mentali. Questi ultimi, però, ci mettono su una strada che è costituita essenzialmente di processi empatici, ossia di capacità di immedesimazione sociale verso ciò che le altre persone percepiscono e provano interiormente.

Il modo in cui il discorso ordinario considera il comportamento sociale sembra radicato in tendenze psicologiche profonde e biolo- gicamente fondate. La dose di dualismo insita nel senso comune,

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almeno riguardo alle pratiche psicologiche attributive, non sembra in definitiva a disposizione di una revisione linguistica che la renda inte- ramente conforme all’immagine scientifica sulla mente veicolata dalla scienza cognitiva. Per questo motivo, il desiderio di Nannini, secondo cui il senso comune dovrebbe comportarsi allo stesso modo quando pensa che le entità sociali collettive siano riconducibili ad individui in carne e quando allude al rapporto tra processi mentali e cerebrali, sembra purtroppo difficilmente esaudibile. Indipendentemente dalle nostre preferenze teoriche, infatti, il senso comune sembra impedito naturalmente a superare la differenza essenziale tra un corpo osserva- bile e una mente inosservabile. Inoltre, come abbiamo notato, quanto alle entità sociali il senso comune sembra condizionato dal suo tipico essenzialismo psicologico e, perciò, impossibilitato ad operare una piena riduzione dei fatti sociali a fatti individuali.

Riferimenti bibliografici

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Slors M. (2015), Interpretivism and the Meaning of Mental State Ascriptions:

Comments on Bruno Mölder’s Mind Ascribed, Studia Philosophica

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Simion F., Regolin L., Bulf H. (2008), A predisposition for biological motion in