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Il caso del finalismo: Cartesio prima di Darwin?

Emanuela Scribano Università Ca’ Foscari Venezia

3. Il caso del finalismo: Cartesio prima di Darwin?

Eliminare il problema dell’esistenza di Dio dall’orizzonte filoso- fico del mondo non è un piccolo passo nella direzione di una spiega- zione naturalistica del vivente e della mente. Superato questo osta- colo, rimane comunque l’onere di una spiegazione alternativa a quella finalistica e teologica. Anche in questo caso Sandro riconosce un punto fermo, un’acquisizione definitiva del pensiero, ovvero la teoria evoluzionista di Darwin. A questo proposito Sandro apre un capitolo importante, attraverso un plesso di nozioni centrali nel pensiero filo- sofico, come “macchina”, “organismo”, “finalità”. Su questo plesso di nozioni vorrei intervenire perché Sandro evoca, a mezza strada tra il finalismo premoderno e l’evoluzione darwiniana, la figura a me molto cara di Cartesio. Credo che discutere del ruolo di Cartesio nella evolu- zione di queste nozioni possa portare qualche elemento nella direzione di uno degli argomenti avanzati da Sandro a favore della storia della filosofia, ovvero il contributo che questa può portare a illuminare la formazione dei presupposti inconsapevoli del nostro lessico filosofico. Mi muoverò qui in una direzione che già Sandro ha percorso, quando ha riconosciuto a Cartesio il merito di aver sostituito nel lessico filoso- fico la parola ʻmenteʼ a quella intrisa di pensiero religioso di ʻanimaʼ, e cercherò di mostrare che Cartesio è anche all’origine dell’uso che Sandro fa del paragone tra il vivente e la macchina, un uso segnato da una cesura tra il nostro orizzonte filosofico e il pensiero pre-carte- siano. Anche in questo caso, credo, Cartesio è stato determinante nella formazione dei nostri pregiudizi inconsapevoli depositati nell’uso delle parole.

Sandro ricorda che Cartesio ha proposto una fisica senza finalismo, e che il cammino è stato completato da Darwin per il vivente.2 In

questo, Sandro si schiera dalla parte di un importante storico della scienza, Georges Canguilhem. Secondo Canguilhem, l’anti-finalismo cartesiano nello studio della natura doveva considerarsi limitato alla cosmologia. In biologia, invece, l’antifinalismo cartesiano si limi- terebbe allo studio del funzionamento del vivente, mentre per l’ori- gine del vivente Cartesio rimarrebbe finalista. Lo testimonierebbe il Traité de l’Homme, dove Cartesio evoca esplicitamente la mano di

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Dio nella costruzione della macchina del corpo umano (e animale): «Suppongo che il corpo altro non sia se non una statua o macchina di terra che Dio forma espressamente per renderla il più possibile a noi somigliante…»3 Nell’ottica di Canguilhem, il vivente avrebbe rappre-

sentato una sfida insormontabile persino per il meccanicista Cartesio che, in biologia, avrebbe bensì utilizzato una spiegazione meccanica per il funzionamento del corpo, ma, come la maggior parte dei suoi predecessori, avrebbe dovuto far ricorso alla mano di Dio, e quindi al finalismo, nella formazione dell’organismo vivente.

Ancor più della esplicita evocazione della mano di Dio, la spia del ricorso al finalismo si nasconderebbe nello stesso paragone tra il corpo vivente e la macchina. La macchina, infatti, e nella fattispecie l’oro- logio al quale nel Discours de la méthode sono paragonati gli animali, è la spia dell’assimilazione della natura all’arte, in questo caso divina. E se il corpo vivente è una macchina, questa è impensabile senza un artefice intelligente che l’abbia progettata in funzione delle prestazioni che questa macchina avrebbe dovuto svolgere. Artificialismo e fina- lismo, insomma, sarebbero componenti intrinseche dell’analogia con la macchina, e quindi chiavi esplicative utilizzate da Cartesio per la formazione del vivente.

Per noi moderni, e per Sandro quando la usa, la nozione di mac- china sembra invece aver perso del tutto questa connotazione. Quando Sandro parla degli animali-macchina di Cartesio, lo fa pensando all’e- lemento più sconvolgente della teoria cartesiana sugli animali, ovvero l’esclusione della sensibilità: «Gli animali, al pari degli orologi, non provano né piaceri né dolori»;4 «la tradizione cartesiana che vuole ri-

durre gli animali a semplici automi privi di coscienza».5 E’ molto signi-

ficativo che parlando degli animali-macchina di Cartesio, a Sandro non venga in mente di evocare il costruttore della macchina, ma piuttosto l’assenza di sensibilità. E così l’uso che Sandro fa della parola ʻmac- chinaʼ per paragonarla al vivente presenta un interessante paradosso: da un lato Sandro può condividere l’assunto di Canguilhem sul fatto che la biologia pone un limite all’anti-finalismo cartesiano nello studio della natura, e dall’altro utilizza la nozione di macchina dissociandola

3 Descartes AT XI, 120. Sottolineatura mia; Cfr. Canguilhem, 1971, ch. IV. 4 Nannini, 2007, 24.

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dal collegamento con l’artefice che, nell’ottica di Canguilhem, soste- neva proprio l’assunzione del finalismo in biologia. Ora, come vorrei mostrare, la dissociazione tra la macchina e l’artefice ormai ovvia nel paragone corrente tra il vivente e la macchina, è dovuta proprio al gesto cartesiano, un gesto rimasto nascosto a Canguilhem, con il quale Cartesio ha separato la macchina dall’artigiano.6

Stupirà forse anche molti studiosi di storia della filosofia appren- dere che il paragone tra gli animali e gli orologi, ovvero tra gli animali e le macchine, non è inventato da Cartesio ma si trova già in Tommaso d’Aquino, e precisamente nella Summa theologiae, all’interno dell’as- similazione dei prodotti della natura alle opere dell’arte. Tommaso si serve di questo paragone per dimostrare che, come le opere dell’arte rivelano la presenza di un artefice, lo stesso accade nelle opere della natura, e utilizza questo paragone accanto al suo preferito, quando si tratta di assimilare la natura all’arte : la freccia lanciata dall’arciere. Come la freccia, che, priva di ragione, non potrebbe indirizzarsi a niente spontaneamente, e tuttavia coglie il bersaglio grazie all’inten- zione dell’arciere, così la natura, priva di ragione, perviene ad uno scopo grazie all’intenzione del suo architetto, cioè di Dio :

«in tutto quel che è mosso da ragione, si manifesta l’ordine della ra- gione che muove, anche se queste cose non hanno ragione: così infatti la freccia tende direttamente al bersaglio per il moto che le è impresso dall’arciere, come se essa avesse una ragione che la dirige. E lo stesso accade nel movimento degli orologi, e di tutti i prodotti dell’ingegno umano, che sono fatti dall’arte. Come le cose artificiali sono riferite all’arte umana, così tutte le cose naturali sono riferite all’arte divina. … Questa è la ragione per la quale nelle opere degli animali bruti si ma- nifesta l’ingegnosità, perché hanno una inclinazione naturale ad alcuni processi sommamente ordinati, in quanto ordinati dall’arte somma. Ed è per questo che alcuni animali sono detti prudenti o ingegnosi: non perché in loro ci sia una quale razionalità o scelta. Il che risulta dal fatto che tutti gli individui di una stessa natura agiscono in modo simile.»7

6 Ho trattato più ampiamento questo tema in Les animaux et les horloges. Descartes contre les “esprits faibles” in Bianchi L.; Gengoux N., Paganini G. (a cura di), Philosophie et libre pensée, XVIIe et XVIIIe siècles, Paris, Honoré Champion, 137-156. 7Tommaso d’Aquino, ST, I,II, qu.I, a.2, ad 3. Corsivo mio.

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È la prima volta, a mia conoscenza, che gli animali sono paragonati a macchine sofisticate, gli orologi. Il paragone si basa su due elementi: 1. il comportamento degli animali, come quello degli orologi, mani- festa la direzione di una ragione, perché è «sommamente ordinato». 2. La ragione che è rivelata dal comportamento animale non appartiene agli animali stessi dal momento che essi compiono tutti la stessa cosa, come accade in una macchina. Ne segue che, come le opere d’arte più raffinate –gli orologi, appunto- gli animali manifestano la presenza di una mente esterna che li ha prodotti. Se ne ricava il criterio in base al quale Tommaso stabilisce che un ente è una macchina: è una macchina un ente che opera sempre allo stesso modo, ma che, al contempo, ma- nifesta ingegnosità nel suo comportamento.

La presenza della vita e della sensibilità non sono interessanti per Tommaso per decidere se siamo di fronte ad una macchina. Gli ani- mali, infatti, sono viventi e hanno sensibilità, e tuttavia sono orologi o addirittura fiamme che si muovono verso l’alto, perché le azioni istin- tive degli animali possiedono le caratteristiche essenziali per definire un ente una macchina: «appena attraverso il senso e l’immaginazione si rappresentano qualcosa al quale il loro appetito li spinge natural- mente, si muovono verso quel qualcosa senza scelta. Proprio come il fuoco si muove verso l’alto e non verso il basso senza scelta.»8

Il paragone tra gli animali e gli orologi risale dunque almeno a Tommaso. Ora Cartesio, nel Discours, utilizza il paragone tra l’ani- male e l’orologio nello stesso senso di Tommaso, ossia unicamente per dimostrare che gli animali sono sprovvisti di ragione, e per le stesse ragioni: l’uniformità del loro comportamento, cui si aggiunge, secondo quanto già detto da Aristotele, la mancanza del linguaggio. Queste caratteristiche dimostrano che gli animali «non agiscono per conoscenza, ma solo per la disposizione dei loro organi.»9

Il Discours, forse il testo più ambiguo e compromissorio di Cartesio, si inscrive così perfettamente nella linea di Tommaso d’Aquino. Questa vicinanza rende ancor più evidente un’assenza: nemmeno una parola sul fatto che il comportamento animale dimostrerebbe la pre- senza di una mente divina, il che costituiva invece lo scopo dell’ar- gomentazione di Tommaso. Al posto dell’intelligenza divina Cartesio

8 Tommaso d’Aquino, ST, I,II, qu.13, a.2 ad 2. 9 Descartes, AT VI, 57.

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rimanda alla ʻnaturaʼ, un termine generico dietro il quale potrebbe na- scondersi qualunque cosa: l’intelligenza della stessa natura, o l’intel- ligenza di Dio, o l’operazione cieca delle leggi di natura. Cartesio, per la prima volta, evoca l’orologio senza nominare l’orologiaio.10 Persino

la premessa che consentiva di risalire dall’orologio all’orologiaio è assente: Cartesio utilizza tutti gli argomenti elaborati da Tommaso per negare la ragione agli animali, ma, contrariamente a quel che aveva fatto Tommaso, non afferma né allude al fatto che l’istinto degli ani- mali dimostrerebbe la presenza di un’intelligenza qualunque. E così accadrà tutte le volte che, nelle lettere, Cartesio ripeterà il paragone tra gli animali e le macchine. Malgrado le apparenze, e la quasi calligra- fica vicinanza dei due testi, qualcosa è profondamente cambiato dalla Summa di Tommaso al Discours di Cartesio, e non si tratta di cosa di poco conto: si tratta niente meno che della dissociazione dell’orologio dall’orologiaio, e dunque del vivente dalla mano di Dio.

Per capire il senso del fragoroso silenzio cartesiano, sarà oppor- tuno tornare sul testo dal quale, seguendo Canguilhem, eravamo par- titi: il Traité de l’Homme. La frase che sembrava legittimare una let- tura finalista della formazione del vivente si trovava subito dopo la cosmogonia del Monde che, al contrario, respingeva esplicitamente il finalismo e il riferimento al progetto divino nella spiegazione della natura. La “favola del mondo” dispiegata nel Monde proponeva una descrizione ipotetica della formazione dell’ordine dell’universo11. Il

mondo avrebbe potuto assumere l’assetto attuale attraverso i soli urti di materia regolati da leggi, senza alcun intervento di un progetto intelligente e quindi di un fine. Nel caso della formazione dell’u- niverso, l’ipotesi evoluzionista rendeva superfluo il ricorso al fina- lismo e questa stessa ipotesi impediva di trasformare la fisica in una premessa della teologia. Al contrario, quando descriveva il vivente, Cartesio non evocava mai l’ipotesi evoluzionista. Al suo posto, e in direzione opposta, il paragone del corpo vivente alla macchina e dell’artefice a Dio andava nella direzione dell’assimilazione del vivente all’opera dell’arte.

10Per la persistenza del paragone tra gli animali e gli orologi e per il rinvio all’orologiaio, si veda, alle spalle di Cartesio, il testo dell’ amico e corrispondente Jean de Silhon, 1634, 472-73.

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Nella quinta parte del Discours, Descartes riassumeva l’ipotesi evoluzionista per la formazione dell’universo.12 E proseguiva, intro-

ducendo la descrizione del corpo umano, con questa notazione: «Ma siccome non ne avevo ancora sufficienti conoscenze per parlarne con lo stesso stile del resto, ossia dimostrando gli effetti attraverso le cause, e facendo vedere da quali elementi, e in che modo, la natura deve produrli, mi accontentavo (je me contentai) di supporre che Dio formasse il corpo di un uomo, interamente simile al nostro…»13

L’assunzione del vivente come di un qualcosa di già formato dalla mano divina, come avveniva nel Traité de l’Homme è presentato espli- citamente nel Discours come una ipotesi di ripiego, in mancanza di conoscenze sufficienti per produrre una teoria della formazione del vivente analoga a quella elaborata per la formazione del cosmo: «je me contentai». Cartesio rimpiange di non essere riuscito a sviluppare questa teoria in tempo per la redazione de L’Homme. Il silenzio nel Discours sull’intelligenza divina che trasparirebbe dal comportamento dell’animale-orologio non è dunque un caso, ma la spia della speranza di poter raggiungere una perfetta analogia tra la spiegazione evoluzio- nista della formazione del mondo e quella della nascita del vivente, e quindi di poter fare a meno del finalismo in biologia come in fisica.

Di questo tentativo dà testimonianza la Digression dans laquelle il est traité de la formation de l’Animal, che costituisce la quarta e quinta parte del Second Traité della Description du corps humain, dove Cartesio tentava una ricostruzione genetica degli organi degli animali.14 Nel 1648 Cartesio è convinto di aver portato a termine il

suo progetto. Ne parla a Burman, dicendosi convinto di essere riuscito a spiegare la formazione del corpo animale in modo da mostrare che “naturam rerum ex suis principiis ita constitutam esse, ut aliter non posset.”15 La stessa necessità che presiede alla formazione del mondo

si ritrova tutta intera nel campo della biologia. In una lettera senza de- stinatario né data che Adam e Tannery datano al 1648 o 1649, Cartesio afferma di non aver voluto terminare la redazione de L’Homme, e si è piuttosto ripromesso di scrivere un’opera interamente nuova sullo

12 Descartes, AT VI, 45. 13 Ibid.

14 AT XI, 252-86. 15 AT V, pp. 170-71.

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stesso tema, essendosi ormai convinto di aver trovato una spiegazione convincente della formazione del vivente, una spiegazione che, evi- dentemente, gli mancava all’epoca della redazione de L’Homme:

«Mi ero proposto di limitarmi a ripulire quel che pensavo di cono- scere di più certo sulle funzioni dell’animale, perché avevo quasi perso la speranza di trovare le cause della sua formazione; ma, meditandovi sopra, ho scoperto talmente nuovi orizzonti, che non dubito affatto di poter portare a termine tutta la fisica secondo i miei voti, se avrò la calma e l’agio di fare qualche esperimento.»16 La prospettiva era dunque quella di pubblicare L’Homme intera- mente rivisto, privo dell’ipotesi creazionista, sostituita dalla spiega- zione scientifica della formazione del vivente dalla materia, in perfetta analogia con la formazione dell’universo. Così la spiegazione di ri- piego utilizzata nel Discours –niente meno che Dio- avrebbe potuto essere definitivamente abbandonata.