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Claudio Pizzi Università degli Studi di Siena

2. Pro e contro la legge di Hume

In Italia il dibattito sulla is-ought question è maturato con uno scontato ritardo rispetto all’area anglosassone, ma ha avuto sviluppi di particolare interesse. Un riferimento obbligato al proposito è un con- vegno tenutosi a Torino il 2-3 Maggio 1975 per iniziativa del Centro Studi Metodologici Torino, sul tema ‘La questione dei rapporti logici tra proposizioni descrittive e direttive’. Gli atti dell’incontro furono poi raccolti in un fascicolo speciale della ‘Rivista di Filosofia’ del febbraio 1976, curato da Uberto Scarpelli. Nell’articolo introduttivo Scarpelli elencava le strategie impiegabili per criticare il divisionismo dando rilievo a un tipo di implicazione, che lui chiamava pragmatica, non co- dificabile nella logica formale («piove ma non ci credo», per esempio è una logical oddity ma non una contraddizione formale). Questo am- pliamento dei confini della logica consentiva a Gaetano Carcaterra, in una delle due relazioni portanti del convegno, di proporre la validità del seguente schema di inferenza: «Se l’azione A ha il valore morale V per chiunque compia valutazioni etiche allora A è eticamente dotata del valore morale V» (p.50), di cui si noterà l’affinità con il principio di Hare sopra discusso e criticato. La tesi basilare di Carcaterra era che l’esistenza di leggi morali transculturali, rispettate in quanto hanno un valore morale per chiunque compia valutazioni etiche, comporta una valutazione morale positiva nei loro confronti.

Lecaldano nella seconda relazione portante del convegno metteva al centro della sua analisi la peculiarità di asserti descriventi perfor- mativi come «Rossi promette di darmi 100 euro», riprendendo un ben noto esempio proposto da John Searle (1967). Dall’ emissione di un enunciato come questo discende per Rossi l’obbligo di darmi 100 euro in virtù del gioco linguistico che governa il termine ‘promettere’. L’idea secondo la quale ci sono tipi di inferenza irriducibili che sono propri delle argomentazioni etiche e che rendono possibile infrangere la barriera tra is e ought era stata difesa con forza alla fine degli anni ‘50 da un filosofo di formazione wittgensteiniana a cui Lecaldano fa frequente riferimento nella sua relazione, Stephen Toulmin.

Negli anni in cui si svolgeva il convegno di Torino era in incuba- zione in Italia quella che sarebbe stata chiamata ‘svolta relativistica’, un cambiamento di paradigma epistemologico che nel giro di pochi anni avrebbe plasmato il modo di pensare delle generazioni più gio-

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vani. Nella prospettiva post-positivista (e in effetti anti-positivista) la critica corrosiva che Quine aveva opposto alla dicotomia analiti- co-sintetico veniva estesa ad altre opposizioni che si davano per scon- tate, si direbbe per una loro supposta autoevidenza, nell’epistemologia di ispirazione neoempirista: la dicotomia tra contesto della giustifi- cazione e contesto della scoperta, quella tra linguaggio osservativo e linguaggio teorico, e - ultima ma non minore - quella tra linguaggio descrittivo e linguaggio prescrittivo. Negando l’esistenza di una bar- riera inferenziale rigida tra fatti e norme, Carcaterra e Lecaldano anti- cipavano dunque un modo di sentire che sarebbe diventato dominante negli anni successivi. A ciò si aggiunga che, in quegli anni di forte ten- sione sociale, in Italia era molto avvertito il tema della vera o presunta avalutatività delle teorie scientifiche, che offriva spesso lo spunto per una critica politica della cosiddetta neutralità della scienza.

Negli atti del convegno di Torino compariva anche una mia comu- nicazione, nella quale cercavo di valutare il problema dell’inferenza da is a ought nel quadro delle logiche deontiche proposizionali bivalenti monomodali, cioè dotate di un solo operatore modale indefinito nel lin- guaggio. Usando le procedure di decisione derivate dalla semantica di Kripke – allora di recente importazione in Italia – diventava un facile esercizio provare che nei sistemi deontici forti (e quindi a fortiori in quelli più deboli) è impossibile derivare un enunciato della forma ‘è obbligatorio A’ da un qualsivoglia enunciato privo di operatori deontici purché quest’ultimo sia anfotero, cioè non sia nè una contraddizione nè una tautologia. Si concludeva dunque che la c.d. ghigliottina di Hume risulta una verità metalogica ineccepibile se riferita ai sistemi presi in considerazione e al linguaggio deontico minimalista in cui vengono formulati. In questa prospettiva i controesempi ‘alla Searle’ risultano speciosi perché possono essere ricostruiti come entimemi, cioè come argomenti logici ellittici, in cui la premessa soppressa è quello che Searle chiama un fatto istituzionale (il fatto, p. es., per cui chi pro- nuncia una certa sequenza di fonemi contrae un certo impegno).

Nella nota concludevo dicendo che non si può a priori escludere che qualche sistema scritto in linguaggio più ricco di quello deontico proposizionale - che contenga, per esempio, operatori epistemici o temporali - renda in qualche caso possibile inferire un enunciato deon- tico da uno non deontico. È certo che in questa ammissione si annida un certo tipo di relativismo che si direbbe relativismo sistemico, che

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poi è solo una naturale estensione del relativismo linguistico applicato ai linguaggi formalizzati ed è alla lontana riconducibile al principio di tolleranza carnapiano. In questo approccio formalistico al problema non si può dunque, in linea di principio, dare una risposta inappellabile alla domanda sull’inferenza is-ought. Certo questa mancanza di asso- lutezza fa rimpiangere l’epoca del monismo logico, in cui le domande filosofiche venivano formulate entro l’unica logica di cui si conosceva e ammetteva l’esistenza, quella dei Principia Mathematica. Non bi- sogna tuttavia drammatizzare la difficoltà. Se il problema dell’infe- renza is-ought si può ridiscutere in sistemi di sempre maggiore com- plessità linguistica, il ripresentarsi di risposte negative ha l’effetto di dare forza crescente alla tesi per cui è implausibile qualsiasi tentativo di costruire un argomento della forma is-ought.

Un’analisi molto impegnativa della questione is-ought nei sistemi formali deontici è stata proposta recentemente in un poderoso libro di Gerhard Schurz del 1997, che ha costituito una pietra miliare nella di- scussione del problema. I linguaggi impiegati da Schurz contengono, oltre agli operatori deontici, operatori modali non deontici, quantifi- catori e identità. Tra i vari meriti della trattazione di Schurz va messo in primo piano l’aver discusso in dettaglio quella che dovrebbe essere una corretta formulazione del problema is-ought entro un sistema formale deontico: impresa non facile perchè esistono enunciati - che Schurz chiama enunciati-ponte - i quali non sono facilmente classi- ficabili come descrittivi o come prescrittivi essendo combinazioni di enunciati non-deontici ed enunciati deontici (per esempio «p oppure Op», dove O è il simbolo per l’operatore deontico per ‘obbligatorio’). Secondo Schurz qualsiasi sistema preso in considerazione per testare l’inferenza is-ought deve escludere dai suoi assiomi qualsiasi enun- ciato-ponte.

Il problema costituito dagli enunciati-ponte e dalla corretta formu- lazione dell’inferenza era stato visto acutamente da Prior già in un articolo del 1960. Supponiamo che la forma standard dell’inferenza is-ought sia data così:

(IO) Se A1 ... An congiuntamente implicano logicamente C e C è una proposizione prescrittiva, allora anche una delle premesse A1 ... An deve essere prescrittiva.

(IO) è equivalente per contrapposizione a questa formulazione: (IOc) Se A1...An congiuntamente implicano logicamente C e C

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tutte le premesse A1 ...An sono non-prescrittive allora C deve essere non - prescrittiva.

Ma tutto ciò ha conseguenze indesiderate per i divisionisti. L’argomento di Prior è questo. Sia p prescrittiva, mentre n e non-n sono ambedue non-prescrittive. La disgiunzione ‘p o n’ è prescrittiva o no? Ci sono due risposte possibili: Se ‘p o n’ è prescrittiva allora la legge logica ‘n ⊃ (p o n)’ è un controesempio alla legge di Hume. Se invece ‘p o n’ non è prescrittiva allora dalle congiunzione delle due premesse non-prescrittive ‘non-n’ e ‘p o n’ si deriva p (per sillogismo disgiuntivo): quindi, nuovamente, da un insieme di proposizioni non prescrittive si deriva una proposizione prescrittiva.

Secondo Campbell Brown (2014) la difficoltà evidenziata da Prior si risolve osservando che la legge di Hume non va formulata come sopra ma in modo da evitare una pluralità di premesse nella deriva- zione, e cioè più semplicemente in questo modo:

(IO-) Se A implica logicamente B e B è prescrittiva anche A è pre- scrittiva.

È dubbio che questa proposta sia risolutiva, ma più recentemente lo stesso Campbell Brown (2014) ha difeso quella che lui chiama NOFI (no ought from is) con nuovi argomenti più raffinati. Altri modi per superare l’impasse comunque sono disponibili: per esempio si può osservare che n implica non solo ‘m o n’ ma anche ‘non-m o n’, per cui il disgiunto m, lasciando invariata la validità dell’inferenza dopo la sua sostituzione con non-m, è, per usare il linguaggio di Schurz, ought-irrilevante. Schurz conclude che quando un’inferenza is-ought sembra lecita, la conclusione contiene elementi ought-irrilevanti, quindi è di fatto inutilizzabile nel discorso ordinario e scientifico. Schurz dà quindi una risposta sostanzialmente negativa all’ipotesi dell’inferibilità is-ought entro tutti i sistemi considerati, ma al prezzo di introdurre una nozione di inferenza rilevante, che deriva da quella standard mediante restrizioni che non sono rappresentabili entro il lin- guaggio-oggetto. Questa conclusione rientra in una precisa linea di pensiero sviluppata coerentemente da Schurz nell’ultimo trentennio. Secondo Schurz (1991) le restrizioni operate nel corpo delle verità lo- giche classiche per eliminare i casi di irrilevanza sono anche la chiave per la risoluzione dei più fastidiosi paradossi che si incontrano nella ri- costruzione logica del linguaggio scientifico e ordinario, ivi compresi i paradossi deontici.

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