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Essere francesi in Algeria

Nel documento Corso di laurea in Scienze storiche (pagine 100-109)

«Nei primi tempi, dopo la capitolazione, che giornate spaventose! Sedan, invasa dai soldati tedeschi tremava, temeva il saccheggio. Poi le truppe vittoriose calarono e sulla città scese la morte pace di una necropoli: case e botteghe sempre chiuse, strade deserte fino al crepuscolo, risonanti soltanto del passo pesante e delle rauche grida delle pattuglie. Era il carcere, nell’angosciante attesa di nuovi disastri. Per rendere ancora più drammatica la situazione cresceva di giorno in giorno la paura della carestia.

Una mattina gli abitanti si svegliarono senza pane, senza carne, con i campi spogli, come se fossero stati devastati da uno sciame di cavallette. Da più di una settimana centinaia di migliaia di uomini si riversavano sulla città come un torrente in piena uscito dagli argini1

«Il cerchio si faceva sempre più stretto, romperlo sembrava ormai impossibile. Ma Parigi, nella febbrile disperazione cercava nuove forze per resistere. Cominciò la minaccia di carestia. Fin dalla metà di ottobre fu razionata la carne. Parigi agonizzava sena un lamento. I negozi non aprivano più pochi passanti on incontravano nessuna carrozza, nelle strade deserte. Erano stati mangiati quarantamila cavalli, si pagavano a carissimo prezzo cani, gatti e topi. Da quando era finito il grano, il pane, fato di riso e avena, era nero, vischioso, difficile da digerire, e per avere i trecento grammi del razionamento c’erano file interminabili davanti ai negozi. Ah, quelle dolorose giornate dell’assedio! Le povere donne battevano i denti sotto il diluvio, con i piedi nel fango gelato, simboli della miseria eroica di Parigi, che non si voleva arrendere. La mortalità era triplicata., i teatri trasformati in ospedali. La notte anche i quartieri più eleganti, immersi in tenebre profonde, erano simili ai sobborghi di una città devastata dalla peste. In quel silenzio, in quell’oscurità si sentiva soltanto l’ininterrotto frastuono dei bombardamenti, si vedeva soltanto il lampeggiare dei cannoni che mandava riflessivi brace sul grigio cielo invernale.

Il 1° marzo i prussiani dovevano entrare a Parigi, e un grido di esecrazione e di collera si levava da tutti i cuori. Nella popolazione sconvolta da mesi di angoscia e di carestia, piombata ormai in un ozio popolato da incubi, assillata da sospetti davanti ai fantasmi che essa stessa creava, l’insurrezione nacque quasi naturalmente, si organizzò in pieno giorno. era una di quelle crisi morali che si

scatenano dopo lunghi assedi: l’eccesso del patriottismo deluso, dopo aver veramente infiammato gli animi, si trasforma in cieco bisogno di vendetta e distruzione 2

«Il sangue scorreva, i cadaveri venivano portati via a carrettate dalla mattina alla sera. Nella città conquistata, secondo il capriccio degli attacchi di furia vendicatrice, le esecuzioni erano continue: davanti alle barricate, contro i muri delle strade deserte, sui gradini dei monumenti3

«L’ultimo giorno, tra gli estremi sussulti della Comune che spirava… la distruzione della vecchia società, Parigi consumata dalle fiamme, il campo dissodato e purificato, perché vi spuntassero le messi di una nuova età dell’oro. Nel luminoso tramonto di quella domenica, il sole, basso sull’orizzonte, illuminava l’immensa città di un ardente chiarore vermiglio. Sembrava un sole di sangue su un mare sconfinato. I vetri di migliaia di finestre s’incendiavano come braci attizzate da invisibili mantici, i tetti s’accendevano come carbone, le mura giallastre, gli alti monumenti color ruggine, fiammeggiano a tratti come fuochi di fascine, nell’aria della sera. Non era forse quella l’esplosione finale del gigantesco fuoco artificiale:Parigi intera che bruciava come un’immensa foresta dissecata, proiettando verso il cielo un turbine di fiamme e di scintille? Gli incendi continuavano, grossi nembi di fumo rossastro seguitavano a salire, si sentiva un forte rumore, forse gli ultimi rantoli dei fucilati alla caserma Lobau, forse le allegre grida delle donne e le risate dei bambini seduti a tavole, dopo una bella passeggiata, davanti alle osterie. Dalle cose e dagli edifici saccheggiate, dalle strade sventrate, da tante rovine e da tante sofferenze la vita risuonava ancora, nel fiammeggiare di quel regale tramonto, in cui Parigi finiva per consumarsi in brace.

Eppure era la fine di tutto, un accanimento del destino, un tale cumulo di disastri, che mai nazione ne aveva subiti di più terribili: le disfatte, le province perdute, i miliardi da pagare, la più spaventosa delle guerre civili soffocata nel sangue, quartieri interi pieni di macerie e di morti, non più denaro, non più onore, tutto un mondo da ricostruire! E, nonostante tutto questo, al di là della fornace, ancora urlante, la vivace speranza rinasceva, sotto quel grande cielo calmo, di una sovrana limpidezza. Era il perenne ringiovanire dell’eterna natura, dell’eterna umanità, il rinnovamento promesso a chi spera e lavora, l’albero manda fuori un nuovo virgulto possente quando è stato tagliato il ramo imputridito, la cui linfa avvelenata faceva ingiallire le foglie.

Bisognava dissodare il campo devastato, ricostruire la casa bruciata: la Francia [era]da rifare4

Nessuno meglio di Zola avrebbe potuto dipingere un quadro così realistico della situazione francese dopo la disfatta di Sedan e l’esperienza della Commune.

2 Ibidem, p. 347.

3 Ibidem, p. 365.

L’unico modo per dimostrare al continente intero che la Francia era ancora una grande potenza, nonostante la sconfitta contro l’esercito prussiano e gli sconvolgimenti istituzionali, risiedeva nelle conquiste oltremare. I domini francesi, rapportati all’impero britannico o a quello olandese, restavano sempre a un livello inferiore, risultava dunque vitale attuare una precisa politica coloniale che avrebbe difeso «la grandeur de la France». Jules Ferry, il padre della politica coloniale, compose il discorso di conquista attorno alle parole chiave degli anni ’40, «distruzione della pirateria», «difesa della libertà di commercio nel Mediterraneo» aggiungendovi l’idea della superiorità della razza europea: «vi è per le razze superiori un diritto, o piuttosto un dovere per loro. Il dovere di civilizzare le razze inferiori5

L’economista Pierre Paul Leroy-Beaulieu sottolineò, inoltre, che la conquista doveva essere condotta in nome della sicurezza dei territori già acquisiti e, per ristabilire l’autorità francese, propose anche la sottomissione dei territori limitrofi, perché la miglior difesa dello stato era impadronirsi delle terre «vacanti» adiacenti6.

Molti, tra i quali George Clemenceau, si opposero a tale progetto poiché avrebbero preferito concentrare gli sforzi francesi nella riconquista dell’Alsazia e della Lorena, ma Ferry ribatté che in realtà l’Africa nord sahariana era la giusta ricompensa a quelle perdite e, in seguito, la stessa classe politica sarebbe stata costretta ad affermare: «Grazie ai territori d’outre-mer, tra gli altri, la Terza Repubblica è riuscita ad imporsi ai suoi avversari facendo una dimostrazione evidente che lei non è la «pezzente» spregevole, instabile e pericolosa, che si descrive per combattere meglio7

Grazie alla forza del proprio esercito la Francia riuscì a conquistare non solo l’Algeria, ma anche la Tunisia, nel 1881, il Madagascar, tra il 1883 e il1885 e la regione del Tonchino tra il 1883 e il 18968.

Per poter perseguire liberamente i propri progetti coloniali la Terza Repubblica assunse il ruolo di erede dell’antico Impero Romano, prendendo a prestito la gloria dei vecchi imperatori romani giustificò ulteriormente la necessità della conquista di queste terre:

«l’Africa del Nord ritorna all’egemonia latina, che gli è valsa dei secoli di prosperità e che infine le ha dato per la prima volta una forma di unità, una personalità politica e intellettuale. L’arabo non le ha apportato che miseria,

5 Cit. in O. Le Cour Grandmaison, La République impériale: Politique et racisme d’État, Éditions Fayard, 2009.p.43.

6 Ibidem, p. 48-51.

7 Ibidem, p. 36.

anarchia e barbarie. Tutte le è giunto da fuori, dalla Siria, della Persia, da Bisanzio, ma principalmente dai paese latini9

La contemporaneità rispolverò le antiche origini per «inserire la storia dei pieds-noirs in una continuità e trovarle delle referenze supplementari10». I romani avevano fatto del nord Africa una terra abbondante e fertile, erano stati i fondatori delle città monumentali di cui erano ancora visibili i segni, le rovine, che testimoniavano la potenza di quest’impero: «l’Africa romana era sbocciata un po’ più tardi, e ovunque si percepiva la sua testimonianza11

I francesi si imposero di far risorgere dalle ceneri lo splendore latino, una fenice che avrebbe illuminato «la grandeur française».

Un obiettivo che assunse implicitamente sfumature religiose poiché le grandi civiltà erano da sempre le grandi protettrici della religione cristiana: dal 313 d.C, con l’editto di Costantino, era divenuto il culto dell’Impero Romano, successivamente il Sacro Romano Impero si era impegnato a difendere la Chiesa Cattolica e ora la Terza repubblica, cattolica gallicana, avrebbe risollevato le sorti dell’Algeria, come avevano tentato di fare i grandi imperi del passato; introducendovi nuovamente il cristianesimo dopo la conquista araba.

La reggenza islamica, prima, turca, poi, apparvero così come una parentesi di disfatta e rovina, che avevano fatto cadere quelle terre valorizzate da splendide città, i cui resti erano ancora visibili, in un deserto abitato da berberi musulmani, individui incivili.

Le rovine delle città romane, ancora presenti nel 1840, mostravano lo splendore delle antiche vestigia: Cherchel, l’antica Cesarea, capitale della Mauritania Cesarea, offriva la bellezza delle costruzioni di marmo romane, gli edifici del porto e il teatro, mentre Tipasa, eretta su un suolo roccioso che la palude non aveva potuto divorare, era un chiaro esempio della maestria architettonica romana12.Vi era inoltre la misticità della cittadina di Madaure, che aveva dato i natali ad Apuleio e dove Sant’Agostino aveva potuto studiare.

Un’esaltazione del passato inscindibile dalla volontà francese di sottolineare la propria superiorità: «questo desiderio tradiva una volontà manifesta di distinzione […] si voleva evocare una Francia onnipresente, detentrice dell’autorità. Per questo, si piegò lo spazio razionalmente, si impose una nuovo toponimia, si progettò dei piani urbanistici per creare delle città omogenee e destinate a rappresentare le strutture politiche, sociali e religiose del

9 D. Leconte, Les Pieds-noirs: Histoire et Portrait d’une communauté, Éditions du seuil, Paris, 1980, p. 88.

10 J. Hureau, La mémoire des Pieds-noirs, Oliver Orban, 1987, p. 159.

11V. Piquet, L’Algérie française un siècle de colonisation (1830-1930), Librairie Armand Colin, Paris, 1930, p.8-9.

popolo colono13.» Il desiderio di riscattare la romanità per sottolineare la grandeur francese spinse quindi a riutilizzare anche il castrum per i nuovi insediamenti che avrebbero ospitato gli immigrati.

Nonostante i resti del grande impero romano, l’Algeria divenne immediatamente agli occhi dei coloni, una terra crudele, non dimostrandosi il giardino fertile, l’El Dorado che tutti i migranti si sarebbero aspettati, ma «fu una formidabile scommessa il trasformare questa terra arida e quasi deserta in un paese e meglio ancora, in una nuova razza di uomini, un popolo nato da questa terra, sorto dallo sforzo, la sofferenza, il sudore e il sangue dei pionieri14.» Per i nuovi arrivati si trattò dunque di «un vero Far West. Quando guardo le cartoline postali d’inizio secolo, vedo i carri trainati dai buoi che si mettono in cerchio attorno al fuoco, sono le postazioni di sosta di Hadjout. È esattamente il far West tranne che i nostri indiani, non avevano le piume, è tutto, essi avevano le djellabas15.» Tuttavia essi riuscirono a trasformare i pianori desertici, ai piedi del massiccio dell’Atlas in campi fertili: «io dico che l’Algeria, come i nostri nonni l’hanno trovata nel 1830, quando sono arrivati, era una terra vuota, e ne hanno fatto un paese prospero16», «siamo noi che abbiamo fatto l’Algeria, sì, sono stati i nostri padri che hanno letteralmente fatto l’Algeria. Prima di noi, l’Algeria non era nulla, non vi era nulla, non vi era che il caos, la peste e il colera17

I nuovi immigrati cercarono immediatamente di avviare delle culture tropicali, convinti che potessero prosperare in queste zone. Vi avviarono il cotone, che però non poté competere con la coltivazione americana, e impiantarono i bananeti che furono, tuttavia, velocemente sostituiti dalle coltivazioni di arance, mandaranci e pompelmi.

«Pionieri della messa in valore, operai del 1848, senza capitale, con la nostra sola energia, noi abbiamo lottato contro le palme nane dalle profonde radici che occupavano tutto il nostro terreno coltivabile, contro il paludismo, la natura ingrata, contro le cavallette, che spesso raggiungevano il litorale, contro la nostra inesperienza del paese e degli uomini che l’abitavano, contro l’isolamento, contro la lentezza dell’amministrazione spesso troppo paternalista, quello che è stato realizzato è stato possibile per lo sforzo continuo e il sacrificio totale dei pionieri18

13 Ibidem, p. 134-135.

14 C. Brière, Ceux qu’on appelle les pieds noirs ou 150 ans de l’histoire d’un peuple, Editions de l’Atlanthrope, Versailles, 1984, p. 45.

15Testimonianza in M. Baussant, Pieds-Noirs: Mémoires d’exils, Éditions Stock, 2002, p. 169.

16 Ibidem, p. 169.

17 Ibidem, p. 171-172.

La mancanza di un costante approvvigionamento d’acqua non permetteva di estendere la coltivazione dei cereali a tutta l’Algeria, lasciandola limitata ai territori attorno alla città di Costantina, tuttavia quest’ultima permise all’Algeria di tornare a essere il «granaio dell’impero» grazie ai grandi quantitativi che provenivano dall’enorme estensione di terra messa a coltivazione dai coloni; anche se paragonando i vari indici di produzione con quelli metropolitani, i primi sarebbero risultati sempre inferiori.

La necessità di mettere a coltura grandi proprietà per aumentare la resa della terra contribuì a creare l’immagine che i francesi d’Algeria fossero tutti dei grandi proprietari terrieri che avevano sfruttato la popolazione locale. In realtà alla fine dell’800 i pieds-noirs furono i fautori della bonifica della piana della Mitidja: combattendo una vera lotta contro la natura, per sconfiggere la siccità e le malattie, riuscirono a impiantare coltivazioni anche a Sersou, regione da sempre considerata incoltivabile a causa della siccità estiva e del rigore invernale19.

Le grandi innovazioni culturali, come la coltivazione dell’eucalipto, un ottimo aiuto nella lotta contro il paludismo, sottolinearono l’abilità dei pieds-noirs nell’agricoltura e dimostrarono gli enormi benefici derivati dalla colonizzazione: «la vegetazione fiorente, i campi e i frutteti prosperi avevano reso palpabile la «giusta presenza» di coloro che avevano compiuto un tale lavoro. Era sufficiente guardarsi attorno per rendersi conto che gli europei non erano degli impostori in questa terra20

La Francia, all’inizio del secolo s’impersonificò in un nuovo Prometeo come evidenzia il volantino del centenario dalla colonizzazione dell’Algeria, in cui si può notare un colono in compagnia di un indigeno che contempla i campi, in passato incolti, che erano divenuti fecondi grazie al suo intervento. Come il titano aveva rubato agli dei il fuoco per farne un dono agli uomini, così i francesi d’Algeria misero a diposizione di questi popoli nomadi tutte le loro conoscenze tecniche, offrendo loro fondamentali migliorie.

Diedero loro le nozioni basilari per passare da una vita nomade a una sedentaria grazie alla coltivazione dell’orzo, dell’avena e del grano e riuscirono a rendere produttivi i pianori di Sersou e di Dahra impiantandovi la coltivazione viticola, che divenne la «principale fonte di ricchezza della colonia, dopo aver giocato un ruolo importante nello sviluppo della colonizzazione e del popolamento21

19 J. Hureau, La mémoire des Pieds-noirs, p. 119-223.

20 Testimonianza in M. Baussant, Pieds-Noirs: Mémoires d’exils, p. 169.

Molti agricoltori francesi, colpiti dalla fillossera, avevano cercato fortuna in queste terre e una volta installati nei villaggi interni diedero vita alla coltivazione della vigna, «nella regione vi era la magnifica piana degli Andalusi, con dei vigneti e degli alberi da frutto. Vi era stata una crescita straordinaria della vigna a causa della fillossera in Francia: tutta la produzione si faceva in Africa del Nord dall’inizio del secolo22

Sfruttando le conoscenze che avevano appreso nella metropoli resero velocemente l’Algeria uno dei maggiori esportatori di vino nel Mediterraneo, tanto da poter affermare che «la vigna è l’Algeria francese23

Fu così che «nel corso del periodo della viticoltura si è forgiato lo spirito proprio degli europei d’Algeria, contemporaneamente al paesaggio naturale, la struttura sociale e regionale della campagna algerina prendeva la forma attuale24

Gli esuli non importarono innovazioni solo in campo agrario, ma dotarono queste terre delle migliori infrastrutture: grazie a loro l’Algeria cominciò a disporre di importanti industrie e delle raffinerie per il petrolio e il gas.

Nel 1830 non vi era nessun sistema stradale, solo piccole strade non battute e vie carovaniere create dai beduini, nel 1960 l’Algeria disponeva invece di 8.500 km di strade nazionali, 14.425 km di strade regionali, 33.700 km di strade comunali e 12.500 km di piste carovaniere asfaltate25.

I treni circolavano su tutto il territorio grazie all’investimento di più di 200 miliardi di franchi e la creazione di 4.250 km di percorsi. L’Algeria disponeva inoltre di cinque aeroporti internazionali e trentotto aeroporti regionali che permettevano a 100.000 aerei di compiere scali annualmente mentre i porti potevano essere paragonati a quelli metropolitani per traffico in partenza e uscita26.

Camus, con ironia ci offre uno scorcio della vita dinamica che i francesi avevano portato in queste terre:

«aggrappati a immensi pendii, rotaie, vagoncini, gru, minuscoli treni… In un sole divorante locomotive simili a giocattoli girano intorno a enormi tra i fischi, la polvere e l fumo. Giorno e notte, un popolo di formiche si dà da fare sulla carcassa fumante della montagna. Appesi ad una stessa corda contro il fianco della scogliere, decine di uomini, col ventre appoggiato alle impugnature delle aratrici

22 Testimonianza in D. Fargues, Mémoires de Pieds-noirs, p. 33.

23 D. Leconte, Les Pieds-Noirs, p. 110.

24 P. Bourdieu, Sociologie de l’Algérie, Presses Universitaires de France, Paris, 1961, p. 113.

25 C. Briere, Ceux qu’on appelle les pieds noirs ou 150 ans de l’histoire d’un peuple, p.117-119.

automatiche, trasaliscono nel vuoto per tutto il giorno e staccano spuntoni interi di roccia che crollano nella polvere rombando. Più in là, i vagoncini si rovesciano sul versante, e le rocce, scaricate bruscamente verso il mare, si lancino e rotolano nell’acqua. A intervalli regolari, nel cuore della notte, e in pieno giorno, le detonazioni scuotono tutta la montagna e sollevano perfino il mare.

L’uomo, in mezzo a questo cantiere attacca la pietra di fronte. […] queste pietre, strappate alla montagna, servono l’uomo nei suoi disegni. Enormi mascelle d’acciaio scavano di continuo il ventre della scogliera, girano su se stesse e vomitano in acqua il loro sovraccarico di pietrame. Man mano che la fronte del ciglione s’abbassa, la costa intera guadagna irresistibilmente terreno sul mare27

I francesi si erano poi adoperati nella costruzione di 157 ospedali e di un enorme numero di scuole, paragonabili a quelle metropolitane; infatti l’università d’Algeri occupava il terzo gradino del podio nella classifica delle migliori università francesi, con i suoi 7.000 studenti e una delle migliori facoltà di medicina e chirurgia28.

L’Algeria, alla vigilia dell’indipendenza, stava vivendo un’epoca d’oro, un periodo di splendore che non aveva precedenti nella sua storia se non prima dell’arrivo dei vandali in queste terre che, dopo averle saccheggiate, le abbandonarono nelle mani degli arabi che si preoccuparono solamente di pochi gangli vitali come la moschea d’Algeri, quella di Orano e il palazzo del bey a Costantina, mentre le altre città furono lasciate a sé stesse, sino all’arrivo dei francesi.

Quest’immagine di grandi civilizzatori, che essi stessi si dettero, favorì la nascita di tutti gli stereotipi collegati alla comunità francese algerina, considerata dai metropolitani una massa di colonizzatori che aveva sfruttato la popolazione indigena senza riconoscerle nessun diritto. In realtà la maggior parte degli immigrati svolgeva professioni modeste come l’operaio, con uno stipendio inferiore all’incirca del 20% rispetto a un metropolitano:

«I miei nonni sono giunti dalla Spagna alla fine del XIX secolo, più precisamente dall’Andalusia e da Cartagena. Mia bisnonna e sua sorella sono giunte con un carro trainato da un asino sino a Sidi-bel-Abbès.

Mio nonno materno, violinista, lavorava in un cinema, per accompagnare i film muti. Mia madre lo seguiva al piano.

Mio padre era tornitore di giorno e proiezionista di sera, nella sala del cinema29

Nel documento Corso di laurea in Scienze storiche (pagine 100-109)