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Estetica organizzativa e bioeste tica del lavoro

Nel documento FGM: un problema da porre (pagine 90-101)

fabrizio d’anieLLo federica goffi*

3. Estetica organizzativa e bioeste tica del lavoro

da questi ultimi concetti, sembra ov- vio dedurre che ciò che viene a mancare è proprio una situazione di equilibrio: il potere simbolico della merce tende a so- praffare il soggetto, che non intrattiene dunque un rapporto armonico con l’og- getto (con il quale possiamo intendere, nello specifico, il prodotto commerciale o l’ambiente, persino quello lavorati- vo). di qui il rifugio nel mondo del con- sumo, verso il quale l’individuo si tro- va spontaneamente catapultato poiché spinto dal suo stesso immaginario33, che però non è ancorato alla particola- rità soggettiva, ma è anch’esso omolo- gato al sistema.

nelle pagine precedenti si parlava dello stress da performance del lavora- tore, della sua continua tensione com- petitiva, in quanto, per sopportare il ritmo richiesto, necessita persino del ricorso alle sostanze psicotrope; infatti «il bilanciamento dei flussi con il mon- do esterno, ‘con le cose e con gli altri’ è

32 v. borghi, f. chicchi, I capricci della merce: produzione di merci come produzione di rapporti sociali, «Sociologia del Lavoro», 4, 2009, pp. 23 e 25.

33 Sulla possibilità di “nutrire” l’immaginario

di creatività e autenticità, mi permetto di riman- dare al mio Educare l’immaginario. Tra parole

una necessità funzionale del cervello»34 e se ciò non si verifica si vengono a crea- re situazioni di stress. ora, rafforzare questi concetti ci permette di introdur- re il potere “educativo” della dimensio- ne estetica anche nei contesti organiz- zativi. quello a cui aneliamo è in effet- ti ritrovare un rapporto armonico tra individuo e ambiente, tra soggetto e oggetto; ma non è forse questa condi- zione “privilegiata” ciò che lo stesso J. dewey35 aveva definito come esperien- za estetica? un’esperienza che ricono- sce una connessione favorevole tra sog- getto e oggetto, e il giudizio estetico è proprio l’espressione di tale situazione di equilibrio.

fin qui è stato posto in evidenza lo stretto rapporto tra lavoro post-fordi- sta ed estetica, ma nell’ottica appena delineata è più pertinente parlare di bioestetica36: il controllo “tecnico” della sensibilità a scopi disciplinanti, che il sistema del capitalismo cognitivo, ser- vendosi anche dei dispositivi tecnolo- gici, sarebbe in grado di esercitare sul- le masse, agendo sulla formazione del “senso comune”. agli individui oggi si richiede di aderire in maniera incondi- zionata e acritica a quanto viene loro proposto dai mass media e dalle mode dominanti, così che il gusto è soltanto illusoriamente una scelta autonoma,

34 g. vitiello, Sull’origine dello stress da la- voro correlato. Dinamica cerebrale e mutilazioni funzionali, in g. corbizzi fattori, f. Simonini (a cura di), Stress lavoro-correlato: valutazione e

gestione pratica, Wolters Kluwer italia, milano, 2010, p. 61.

35 cfr. J. dewey, Arte come esperienza, trad.

it., La nuova italia, firenze, 1967.

36 cfr. p. montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, ca- rocci, roma, 2014, pp. 91-95.

secondo il concetto di «violenza simbo- lica» di p. bordieu37.

Le soggettività sono cioè formate da un aisthesis, ossia da un sentire, piut- tosto elementare, che fa proprio un con- cetto di bios come zoe, ovvero come rea- zione immediata e non arricchita dal- la potenza dell’immaginazione e del giudizio critico38. ora l’aspetto interes- sante è che la bioestetica entra persino nel mondo delle organizzazioni, poiché se c’è un rapporto di implicazione reci- proca tra simbolo ed estetica, ecco al- lora che le organizzazioni sfruttano la dimensione estetica per definire la pro- pria identità e ideologia: possiamo dun- que parlare di “simbolismo organizzati- vo”. come sostiene p. gagliardi, le or- ganizzazioni sono «campi simbolici» e «sistemi di significato» dove al di là di ciò che è visivamente osservabile, quello che conta sono i significati che i lavora- tori implicati nell’organizzazione asse- gnano alla stessa. i simboli organizzati- vi, che esprimono le credenze e i valori culturali dell’azienda, sono di tre tipi: il linguaggio verbale, il linguaggio dei comportamenti, il linguaggio degli ar-

37 cfr. p. bordieu, The logic of practice, pol-

ity, cambridge, 1990. Sulla “mutilazione” della sfera critico-sensoriale che la società capitalistica esercita sugli individui cfr. anche m.L. ghenghini,

La dimensione bio-estetica in Herbert Marcuse, pp. 331-337, http://www.babelonline.net/pdf09/ mario_lucio_genghini_bioestetica_marcuse.pdf, ultima consultazione: 28/05/2016.

38 cfr. a. contiliano, Immaginario simbolico e bioestetica nella produzione della soggettivi- , pp. 1-7, http://www.dynamic-psychology. eu/Symbolic%20imaginary%20and%20bio- aesthetics%20in%20the%20production%20of%20 subjectivity/immaginario%20simbolico%20e%20 bioestetica%20nella%20produzione%20delle%20 soggettivit%c3%a0.pdf, ultima consultazione: 19/04/2016.

tefatti. Specialmente questi ultimi sono percepibili attraverso i sensi: consisto- no in prodotti, immagini, edifici, arre- di, tutto ciò che contribuisce a deline- are lo spazio fisico, ovvero il paesaggio organizzativo, e sono quindi delle «con- crezioni di senso»39.

nella vita di un’organizzazione pos- siamo, dunque, distinguere la dimensio- ne cognitiva (logos) da quella valoriale (ethos), ma esiste anche il modo in cui si percepisce o viene sentita la realtà (pathos), e giusto questo ultimo aspetto può essere culturalmente condizionato. il pathos, da cui derivano sentimenti di attrazione e repulsione, può a sua vol- ta veicolare il logos e l’ethos dell’impre- sa; a dimostrazione del fatto che «l’eti- ca non costruisce l’estetica, anzi sovente quest’ultima produce la prima: il piace- re perciò produce il dovere»40.

pertanto, è lecito parlare di bioeste- tica del lavoro, perché c’è uno stretto rapporto tra estetica e potere nelle or- ganizzazioni. il controllo organizzativo si esercita su più fronti, agendo sulle mappe cognitive del lavoratore, sulla formazione del suo immaginario, sulla percezione che egli ha di se stesso, ma anche sulle mappe sensoriali. inoltre, l’estetizzazione di alcuni aspetti del- la vita lavorativa, da intendersi come “nascondimento” di ciò che viene defini- to come “brutto” in quanto non confor- me alla linea ideologica dell’impresa, è un modo di esercitare la bioestetica, in quanto porta comunque all’anestetizza-

39 cfr. p. gagliardi, Il gusto dell’organizzazio- ne. Estetica, conoscenza, management, guerini, milano, 2011, pp. 37-40.

40 e. Spaltro, Il clima lavorativo. Manuale di meteorologia organizzativa, francoangeli, milano, 2004, p. 174.

zione del sentire, al fine di disciplina- re – in senso foucaultiano – la persona coinvolta in un dato contesto lavorati- vo41. La dimensione estetica può essere sfruttata a scopi biopolitici perché con piacere estetico non intendiamo solo una sorta di “piacere edonistico”, detta- to dai sensi, ma anche un «sentimento di significatività»42, che deriva da infor- mazioni di tipo affettivo, degli inelimi- nabili punti di riferimento del giudizio di valore. La bellezza nell’organizza- zione è frutto del giudizio individuale, è qualcosa che va negoziato e che non coincide affatto con la bellezza, in senso letterale, dei luoghi di lavoro. rilevan- te ai fini pedagogici, come anticipato, è che spesso «con bello si intende dire giusto o buono e, quindi, si assegna va- lenza etica o strumentale al fenomeno organizzativo a cui ci si sta riferendo»43.

possiamo quindi riassumere che la bioestetica si estende a livello “macro” come biopolitica del capitalismo cogni- tivo, come alleata del consumismo, ma caratterizza inevitabilmente anche il li- vello “micro”, ovvero il contesto concreto delle organizzazioni. considerare l’im- presa come un posto, una realtà tangi- bile, ci apre insomma alla dimensione

41 cfr. a. Strati, Che cos’è l’estetica organiz- zativa, carocci, roma, 2010, pp. 41-42, e, dello stesso autore, Aesthetic understanding of work

and organizational life: approaches and research developments, «Sociology compass», 4, 2010, pp. 880-893; In vece del mainstream: estetica, tecno-

logia e “workplace studies”, pp. 1-23, http://web. unitn.it/files/download/18361/vecemainstreame- steticatecnologiaworkplacestudies.pdf, ultima consultazione: 23/04/2016.

42 g. consoli, Esperienza estetica. Un approc- cio naturalistico, Sette città, viterbo, 2010, p. 137.

43 a. Strati, Che cos’è l’estetica organizzativa,

estetica (il termine estetica deriva dal greco aisthanomai, percepire, sentire con i sensi) che si configura come espe- rienza basilare, nel senso che sta alla base di tutte le altre e influisce forte- mente sulle performance degli attori aziendali. questa dimensione estetica si avvale della conoscenza sensoriale, tacita, ineffabile; dell’azione espressi- va e disinteressata, dettata dall’impul- so e dal sentimento; della comunica- zione con cui si trasmettono particola- ri modi di sentire.

abbiamo dunque messo in evidenza che nei contesti organizzativi gestire gli aspetti estetici e simbolici può portare alla “manipolazione” del sentire pilo- tandolo verso gli obiettivi più consoni all’azienda, e dato che oggi, con l’uso delle tecnologie informatiche che carat- terizzano l’immaterialità del lavoro, è sempre più difficile «strutturare il set- ting in modo che fornisca gli stimoli sen- soriali desiderati, l’unica alternativa è educare le persone a selezionare gli sti- moli filtrandoli attraverso il codice este- tico dell’azienda»44. questo a dimostra- zione del fatto che anche il sentire può essere educato. Si tratta solo di capire verso quale direzione: se esclusivamen- te verso obiettivi di profitto o anche per la persona che lavora.

4. “Paideia estetica” del lavoro

in questo paragrafo ci accingeremo ad analizzare se e in che modo tener conto della dimensione estetica nei con- testi lavorativi può riequilibrare il rap-

44 p. gagliardi, Il gusto dell’organizzazione,

cit., p. 120.

porto tra soggetto e lavoro, sfruttando il fatto che «l’estetica diviene il passaggio obbligato per la comprensione del senso, dal momento che non c’è intelligibilità senza passare per la percezione»45, ed è proprio il senso del lavoro ciò di cui an- che il post-fordismo sembra essere ca- rente, nonostante offra spazi di educa- bilità. come ci dimostra g. Simmel con la sua sociologia dei sensi46, l’estetica può apportare un contributo anche per migliorare la comunicazione e dunque i legami tra i lavoratori, la cui preca- rietà è un’altra delle criticità attuali47. in aggiunta, ci domandiamo se quel- la che a breve definiremo una “paideia estetica” possa avere un effetto “demi- stificatore” verso il lavoratore-impre- sa48, che vive nell’illusione della sua felicità e autorealizzazione. cerchere- mo dunque di indagare se l’aggettivo “estetico”, secondo la nostra prospetti- va pedagogica, possa essere usato non con l’obiettivo di mascherare, bensì con l’intento di “far apparire”, di “disvelare” la realtà. ma andiamo per gradi.

Il consumo è stato fin qui concepito come il surrogato delle esigenze motiva- zionali del lavoratore e il consumismo, per poter funzionare, ha bisogno di uti-

45 g. mazzalovo, Estetica di marca. Il nuovo confine competitivo del brand management, fran- coangeli, milano, 2011, p. 31.

46 cfr. m. picchio, Sulla sociologia dei sensi: suggestioni simmeliane e prospettive contempo- ranee, in c. corradi, d. pacelli, a. Santambrogio (a cura di), Simmel e la cultura moderna, vol. 2, morlacchi editore, perugia, 2010, pp. 147-176.

47 cfr. f. d’aniello, Le mani sul cuore. Pedago- gia e biopolitiche del lavoro, cit., pp. 40-51, 62-71.

48 cfr. f. d’aniello, The Illusory Educability of the Worker-Enterprise, «bulletin of the Tran-

silvania university of brasov – Series vii Social Sciences and Law», 1, 2016, in corso di stampa.

lizzare a proprio vantaggio la sensoria- lità e il corpo del soggetto, che tende «a riempirsi di segni del consumo, di ma- teriali provenienti dalle diverse mer- ci e dalle loro marche»49. come a dire, dunque, che il vettore per “smateria- lizzare”, “anestetizzare” i corpi, il lavo- ro, la produzione e il consumo è la stes- sa dimensione materiale, ovvero quella sensoriale ed estetica opportunamen- te gestita, operazione facilitata anche dall’intervento massiccio delle tecnolo- gie, che sembrano relegare l’esperien- za in una zona “immune” dalla contin- genza del reale.

Se il potere simbolico della merce tende a “fagocitare” il soggetto, ciò che va potenziato, allora, sembrerebbe pro- prio essere il suo sentire originario, ri- portandolo a ciò che viene prima del sociale e dei suoi condizionamenti. in tal senso, gestire la dimensione esteti- ca può apportare un valido contributo, poiché «la fonte estetica è […] la parte creativa dell’autenticità, l’essere unico dell’individuo, la ricerca della sua per- sonale originalità»50. Se le marche, così come gli artefatti del paesaggio orga- nizzativo, sono simboli, l’estetica entra in causa come potenziamento del pote- re ermeneutico del soggetto, che non a caso è proprio l’elemento “preso di mira” dalla biopolitica. Se l’intento del capi- talismo è quello di proporre dei modelli di soggettività, ai fini pedagogici, entro

49 v. codeluppi, Il corpo-vetrina, in v. code-

luppi (a cura di), La società immateriale, fran- coangeli, milano, 2005, p. 78.

50 a. viterietti, Chi sono, cosa faccio: identità soggettiva e professionalità nella vita sociale con- temporanea, in a. talamo, f. roma (a cura di), La

pluralità inevitabile. Identità in gioco nella vita

quotidiana, apogeo, roma, 2007, p. 196.

l’economia del simbolico, è interessan- te indagare sul ruolo del gusto e della sensibilità in quanto fonti del piacere critico, caratterizzando la produzione di senso sempre più come «un’attività creativa e critica delle persone»51.ci po- niamo dunque nell’orizzonte di una pe- dagogia critica la cui base «è un’analisi politico-estetica che analizzi la socializ- zazione delle componenti estetico-sensi- bili della personalità tanto in relazione ai suoi aspetti limitanti quanto nei suoi fattori emancipativi»52.

tale prospettiva parte dalla consa- pevolezza che l’industria culturale e l’e- stetica della merce costituiscono una sorta di “imperativo sociale”, andando a ricadere proprio sulla sensibilità e sul senso estetico dei soggetti, nei confron- ti dei quali l’obiettivo educativo da rag- giungere sarebbe proprio quello di in- durre una forma di «disubbidienza ra- zionalmente motivata come virtù di un soggetto capace di resistere»53. risve- gliare la creatività del lavoratore-pro- duttore, che è pure consumatore (pro-

sumer), può così significare dar vita a soggetti critici, che giocano con la pra- tica del consumo per ristabilire un nuo- vo ordine delle cose54.

risulta in tal senso interessante ri- chiamare la figura del consumatore at- tivo o “produttivo”, delineata da m. de

51 g. galoforo, L’economia del simbolico: con- testo sociale e strategie aziendali, in v. codeluppi (a cura di), La società immateriale, cit., p. 89.

52 a. bernhard, Pedagogia critica: tendenze di sviluppo e progetti per l’avvenire, in m. borrelli, f. caputo (a cura di), «topologik», 1, 2007, p. 88.

53 ivi, p. 90.

54 cfr. f. carmagnola, Il consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction economy, mondadori, milano, 2006.

certeau ne L’invenzione del quotidiano, il quale fa un uso creativo dei prodot- ti che egli illusoriamente crede di sce- gliere con la possibilità di non assimi- larsi a ciò che gli viene imposto, ma al contrario di «rendere quel che si consu- ma ‘simile’ a ciò che si è, farlo proprio, appropriarsene o riappropriarsene»55.

questi comportamenti di consumo responsabile e sostenibile dei consuma- tori vanno inevitabilmente ad incidere anche sull’etica delle imprese, che in- fatti sono sempre più orientate ad inve- stire nel proprio capitale simbolico, per avere una buona reputazione sociale. inoltre, dal consumatore attivo possia- mo passare alla figura del “consumato- re artigiano” delineata da c. campbell, che fa dell’atto del consumo un atto cre- ativo, in quanto manipola le merci pro- dotte in serie come se fossero delle ma- terie prime con cui realizzare qualcosa di originale e fortemente connotato in senso soggettivo56.

quanto appena affermato consente di introdurre anche il senso della crea- tività nei contesti lavorativi, che può vo- ler dire: la creatività relazionale (conte- stualizzata e situata); l’attenzione verso l’artisticità propria del fare artigianale; la qualità della performance; la perce- zione sensoriale e la corporeità dell’agi- re organizzativo; la capacità di ricerca- re il bello nelle organizzazioni o di im- provvisazione nel fare organizzazione57.

55 m. de certau, L’invenzione del quotidiano,

trad. it., edizioni Lavoro, roma, 2010, p. 166.

56 cfr. c. campbell, The craft consumer. Culture, craft and consumption in a postmodern society, «Journal of consumer culture», 5, 2005, pp. 23-42.

57 cfr. a. Strati, Che cos’è l’estetica organiz- zativa, cit., p. 74.

rifacendoci alle argomentazioni di a. Strati, l’estetica delle organizzazio- ni si basa sul concetto di pratica, poiché è proprio quest’ultima che valorizza le “culture materiali”, ovvero le forme sen- soriali-estetiche ed emozionali di cono- scenza umana, ed ha anche uno stret- to rapporto con la dimensione tacita di cui parla m. polanyi58 (interazione tra persone, artefatti e agire quotidiano). ci si concentra dunque sull’agire, ovve- ro sull’attivare facoltà percettivo-senso- riali e la capacità di giudizio estetico.

c’è un’interconnessione tra comuni- tà di pratica59 e organizzazione per la costruzione simbolica della realtà orga- nizzativa, poiché la pratica ha caratte- re olistico ed è fondamentale per l’ela- borazione del senso.

Ecco allora che edificare delle comu- nità di pratica, delle “piccole unità di senso” – in quanto il senso viene elabo- rato dalle diverse soggettività in esse coinvolte –,che tengano conto di quello che P. Gagliardi definisce “gratuità”60, può avere un effetto emancipante. per gratuità, una parola che sembra rie- cheggiare il carattere disinteressato del giudizio di gusto kantiano, si intendono tutte quelle esigenze umane insoppri- mibili, il volto sotterraneo di un’impre- sa, quello che più si assimila ai desideri autentici delle persone che lavorano e che si tende invece a rimuovere in quan- to spesso non in linea con quell’ethos le-

58 cfr. m. polanyi, La conoscenza personale. Verso una filosofia post-critica, trad. it., rusconi, milano, 1990.

59 cfr. W. Wenger, Comunità di pratica. Apprendimento, significato, identità, trad. it., raffaello cortina, milano, 2006.

60 cfr. p. gagliardi, Il gusto dell’organizzazio- ne, cit., pp. 227-237.

gale-razionale-strumentale di cui l’im- presa ha permeato lo stesso paesaggio aziendale con scopi disciplinanti.

L’organizzazione informale costitui- sce una sorta di “meccanismo di dife- sa”, per usare un termine psicoanaliti- co: come a livello individuale la società, il super-ego, tende a reprimere e a im- pedire la manifestazione di certe pul- sioni inconsce, allo stesso modo l’orga- nizzazione formale tende a rimuovere tutti quei bisogni, aspirazioni, desideri che cercano sfogo e si manifestano nel- le azioni spontanee quotidiane degli at- tori coinvolti. Se l’esperienza estetica è disinteressata, di conseguenza può ave- re un forte potere di riscatto riguardo alla bioestetica.

in tal senso, per arricchire l’inten- zionalità pedagogica delle comunità di pratica, potrebbe essere utile “mette- re in scena” le pratiche quotidiane di un’organizzazione attraverso la finzio- ne teatrale, sfruttando così la possibi- lità di smascherare certi meccanismi di biopotere e la stessa immagine, talvolta illusoria, che il lavoratore ha di se stes- so61. nello studio drammaturgico delle organizzazioni prevale la dimensione umana, la cui esperienza, se interpre- tata nell’ottica estetica, «ha significato e valore in se stessa e non deve signifi- care qualcosa di altro, di più importan- te, di superiore»62. per controbilancia- re la biopolitica, degno di nota è allora

61 cfr. a. Strati, Che cos’è l’estetica organiz- zativa, cit., pp. 49-55, dove viene fatta anche la distinzione tra teatro aziendale, quello che rappresenta la cultura organizzativa dominante, e teatro d’opposizione, che lavora sui nodi critici e sulla coesistenza di culture organizzative dif- ferenti, offrendo un momento di autoriflessione per gli attori coinvolti.

62 ivi, p. 55.

che se l’impresa è cultura simbolica, e se i simboli si servono della dimensio- ne estetica per poter “apparire”, tutta- via possiamo tener ben distinta, al con- trario, la dimensione estetica da quella simbolica. questo per dire che la dimen- sione estetica significa di per se stessa in quanto esperienza sensibile.

Si tratta di risvegliare il “sentimen- to del lavoro”, che emerge dal lavorato- re mentre svolge il processo: possiamo interpretarlo come un incontro tra la soggettività più autentica e la pratica, senza considerare altri fattori esterni. è un sentimento che deriva dallo stato di flow, e che possiamo definire the fee-

ling of work, ben distinto da the feeling

about work63. il lavoratore può recupe- rare una genuinità della pratica che potrebbe far tesoro persino della pre- carietà, poiché il lavoro viene giudica- to con il sentimento e non con un giudi- zio di tipo intellettuale sui vari aspetti che stanno intorno ad esso. in questo modo è la pratica che serve al lavora- tore e non viceversa.

per riequilibrare il rapporto tra sog- getto e lavoro, andando ad influire an- che sull’immagine che il lavoratore ha di se stesso, merita quindi consegnare alle comunità di pratica l’opportunità di avvalersi di una “paideia estetica”: se già con paideia intendiamo un mo- dello di formazione che vuole perseguire

Nel documento FGM: un problema da porre (pagine 90-101)