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Il declino economico dell’Ita lia nel periodo 1992-

Nel documento FGM: un problema da porre (pagine 109-112)

gian ceSare romagnoLi*

3. La dinamica del debito pubblico e il declino economico dell’Italia

3.2 Il declino economico dell’Ita lia nel periodo 1992-

nel ventennio precedente al tratta- to di maastricht del 1992, in italia era ormai maturata la convinzione che il debito pubblico sarebbe stato semplice- mente trasferito alle generazioni futu- re. con l’adesione al trattato, la grave perdita di fiducia dei mercati sulla sol-

vibilità del nostro paese e la minaccia del suo crollo finanziario avevano reso evidente la necessità di mutare il mo- dello italiano di aggregazione del con- senso. questo sistema, soprattutto a partire dagli anni ’70 -ovvero da quan- do il tasso di crescita della spesa pub- blica ha sempre superato quello del pil e delle entrate tributarie-, non avrebbe dovuto più essere alimentato, perché il continuo aumento del debito pubblico non era più sostenibile. ma gli esiti ne- gativi della cattiva gestione politica che si erano accumulati negli anni soprat- tutto con riguardo alla finanza pubbli- ca condussero, dopo l’abbandono della difesa della lira da parte della bunde- sbank, all’instabilità finanziaria nel se- condo semestre del 1992 e l’italia fu co- stretta ad abbandonare lo Sme.

Dopo la firma del Trattato di Maa- stricht, che aveva reintrodotto in ita- lia il vincolo del bilancio pubblico, e la crisi del 1992, ormai nel contesto di ca- pitali mobili, l’etero-direzione della po- litica economica e finanziaria italiana ha gradualmente attratto il suo regi- me macroeconomico verso quello tede- sco. questo processo è stato asseconda- to inizialmente dalla manovra del tasso di cambio consentita dall’uscita dell’i- talia dallo Sme, nel periodo settembre 1992 - dicembre 1996. La ripresa della crescita economica favorita da una forte svalutazione della moneta, la riduzione dei deficit di bilancio e una efficace lot- ta all’inflazione in quel quadriennio, ac- compagnati dal rientro nello Sme alla fine del 1996, consentirono al nostro paese di essere accettato tra i membri fondatori dell’ume nel 1998.

L’economia italiana, cogliendo l’o- biettivo della partecipazione all’euro nei tempi minimi previsti, aveva com-

piuto un importante passo avanti nel ri- equilibrio macroeconomico, e ciò avreb- be dovuto sancire la conclusione della lunga stagione degli squilibri macroe- conomici. ma, dopo aver accettato l’ir- revocabilità del tasso di cambio, negli anni successivi sarebbero stati fatti pas- si indietro. il processo di convergenza per l’adozione della moneta unica aveva instaurato un clima di fiducia e rista- bilito una certa credibilità internazio- nale del nostro paese, mutuata dall’u- me, dando luogo, nel primo decennio di partecipazione, a una considerevole di- minuzione del premio per il rischio sui titoli del debito pubblico, con una con- seguente riduzione della spesa per in- teressi. ma i risultati positivi acquisiti sul fronte dell’inflazione e dei tassi di interesse non si sono verificati sul con- tenimento e sulla riqualificazione del- la spesa pubblica. in italia, non solo è mancata la consapevolezza delle impli- cazioni dell’adesione alla moneta unica nel senso di orientare il debito pubblico su un deciso trend di diminuzione, ma anzi, a fronte degli ingenti risparmi in conto interessi sul debito pubblico, si è assistito a un aumento record della spe- sa pubblica rispetto al pil. per questo motivo il risanamento dei conti pubbli- ci è sostanzialmente mancato anche nel periodo precedente la crisi finanziaria internazionale del 2008, ad eccezione del quinquennio 1995-2000 e del 2006, complici l’arresto progressivo della cre- scita economica e l’oscillazione delle po- litiche di risanamento.

dal 2000, la crescita del pil italiano è risultata in media inferiore all’1 per cento (poco meno che negli anni ’90). La competitività nei confronti dell’este- ro si è confermata il punto di maggiore debolezza della nostra economia. uno

studio della banca d’italia di qualche anno fa concludeva che senza vendite di attività pubbliche e operazioni di ri- strutturazione del passivo, il rapporto tra debito e pil, già prima della crisi del 2008, sarebbe stato circa lo stesso del 1994 e così anche negli anni successivi, fino allo scoppio della crisi finanziaria internazionale.

La strada maestra per abbattere il debito doveva muoversi tra una rigo- rosa politica di bilancio e una politica industriale orientata alla crescita. ma non è stato così e si è recitato un copio- ne paradossale. come in altri momenti del percorso dell’integrazione europea (1957 per il trattato di roma, 1978 per lo Sme), il paese si è prima diviso, per scegliere poi, formalmente, l’alternati- va favorevole all’integrazione europea, ma sostanzialmente continuando poli- tiche economiche e finanziarie con que- sta incoerenti.

La storia della Lf e della Legge di Stabilità (LS) si sovrappone sostanzial- mente a quella della deviazione del rap- porto debito/pil dell’italia rispetto alla media europea. per oltre quarant’anni il nostro paese ha consumato risorse in eccesso a quanto produceva, imitan- do in questo la politica economica sta- tunitense, ma senza avere una moneta di riserva. dopo la perdita della sovra- nità valutaria per l’adesione all’unio- ne monetaria europea (ume), questa politica miope è stata continuata sen- za considerarne le conseguenze negati- ve sui conti pubblici del paese, sugli al- tri obiettivi di politica economica e sui potenziali effetti spillover negativi per gli altri paesi dell’eurozona.

La curiosità scientifica è data dal fatto che questo lungo periodo inizia- to negli anni ’70, che ha visto una forte

transizione paradigmatica dal modello keynesiano a quello della nuova ma- croeconomia classica, è stato segnato in italia da una politica economica es- senzialmente prociclica che si è mos- sa, in prevalenza, sui presupposti del- la teoria del ciclo politico-economico di nordhaus, ad eccezione del secondo quinquennio degli anni ’90 e del 2006. La politica economica italiana non ha cambiato passo nemmeno quando i se- gni di declino economico si sono raffor- zati nei primi anni del nuovo millennio, portando poi al declassamento del debi- to pubblico italiano, appunto nel 2006, poco prima dello scoppio della crisi fi- nanziaria internazionale.

in questi quarant’anni la politica economica e finanziaria italiana si è caratterizzata soprattutto per una se- quela di riforme rinviate o mancate che avrebbero dovuto provvedere alla rimo- zione dei nodi strutturali, alla ridefini- zione dei beni pubblici, alla diffusione di concorrenza e liberalizzazione, alla pre- cisazione dei ruoli delle istituzioni eco- nomiche sia a livello macro che a livello micro. Non hanno trovato spazio né una politica efficace per il Mezzogiorno, né quella di un riequilibrio della tassazio- ne su lavoro, profitti e rendite.

Il bilancio della politica fiscale in Ita- lia, nell’ultimo quarantennio, è indica- to significativamente dalla dinamica del suo rapporto debito/pil. al di là dei confini, ormai poco significativi, tra pri- ma e seconda repubblica, e tra maggio- ranze di governo forti o deboli, la poli- tica fiscale italiana ha rivelato l’incapa- cità del sistema politico di contempera- re l’acquisizione e il mantenimento del consenso con il risanamento dei conti pubblici. La discrasia tra esigenze di ri- sanamento ed esigenze del governo, che

è stata gestita così a lungo attraverso diverse forme di illusione finanziaria, corrisponde a quella che si ritrova tra interesse generale e interessi sezionali, interesse dei governati e interesse dei governanti, fra trasparenza e mancan- za di visibilità resa possibile dall’asim- metria informativa. ma, al contrario di quanto si è voluto far credere, l’esisten- za di un debito pubblico enorme, come quello italiano, non è stata priva di con- seguenze negative.

Lo Stato sociale, che avrebbe dovuto essere disegnato in modo da ottenere, ove possibile, dagli individui, dalle loro famiglie e dalle loro associazioni i loro sforzi migliori, è divenuto invece la ri- sposta pubblica all’egoismo individuale in nome del consenso politico. in molti casi, esso è diventato un sostituto della responsabilità, della libertà, dell’auto- controllo e della legge favorendo il pe- ricolo dell’indolenza e il nuovo leggero dispotismo profetizzato da tocqueville, in cui i gruppi di interesse lottano per conquistarsi i favori dello Stato. ciò ha condotto anche l’italia, negli anni ’90, e con almeno un decennio di ritardo ri- spetto agli altri paesi europei, a decen- tralizzare, a privatizzare, e a sostituire le burocrazie statali con altre istituzio- ni della società civile. invece, non si è mai abbandonato lo Stato sociale uni- versalistico, che è amorale, inefficien- te e iniquo, creato a fronte di un debito pubblico che è rimasto tra i più eleva- ti in europa. Si può dire che è manca- ta la consapevolezza delle implicazio- ni dell’adesione del paese alla moneta unica. infatti, i risparmi in conto inte- ressi sul debito pubblico sono stati uti- lizzati sostanzialmente per aumentare la spesa primaria e si è persa l’oppor- tunità di orientare il debito pubblico su

un deciso trend di diminuzione. in ita- lia, la rinuncia a politiche di rientro del debito pubblico entro limiti fisiologici è equivalsa alla rinuncia al perseguimen- to del bene comune.

L’eterodirezione della politica econo- mica italiana che si era fatta più strin- gente con il trattato di maastricht si è rivelata insufficiente. Né il Trattato di maastricht del 1992, accompagnato dal patto di Stabilità e crescita (pSc) del 1997 (reso più efficace dalla sua ri- forma del 2005), né la cosiddetta stra- tegia di Lisbona lanciata nel 2000 e il

downgrading da parte delle agenzie di

rating sono riusciti ad orientare in que- sto senso la politica economica italiana nel ventennio 1992-2012. per queste ragioni ora l’economia italiana stenta a riprendersi.

3.3 I rischi d’instabilità finanzia-

Nel documento FGM: un problema da porre (pagine 109-112)