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2. CONNESSIONI CON GLI STUDI CULTURALI DI ERNESTO DE

2.3. L’ethos del trascendimento

Abbiamo precedentemente parlato di presenza, di rischio, di crisi e di come questi concetti siano maturati nel pensiero di Ernesto De Martino dopo la critica di Croce. In seguito ci siamo soffermati sulla nuova elaborazione di questi concetti che inizia con il primo libro del 1958 facente parte della trilogia sul meridione, Morte e pianto rituale nel mondo antico. C’è un altro tema importante nell’impostazione teorica di De Martino, il concetto di Ethos del trascendimento. Per comprenderlo è utile partire dalla definizione di presenza che non supera il rischio di crisi e diventa malata. L’autore ne parla in Morte e pianto rituale nel mondo antico.

Presenza malata significa -in generale- presenza che una volta, in qualche determinato momento critico dell’esistenza, ha rinunziato a farlo passare risolvendolo nel valore ed è invece passata con esso. […] ciò significa che una presenza caduta in crisi di oggettivazione o di trascendimento p a s s a essa stessa in luogo di far passare, perdendo se stessa in luogo di far passare, perdendo se stessa nel contenuto e il contenuto in se stessa, ed entrando pertanto in una contraddizione esistenziale che manifesta vari modi di profonda inautenticità. Il modo estremo è l’assenza totale o la degradazione dell’ethos della presenza nella scarica meramente meccanica di energia psichica […]. Dall’esperienza critica non decisa la presenza può riemergere

vulnerata121.

La presenza, quando non è malata, è in grado di espletare la sua attività fondamentale chiamata ethos del trascendimento. Quest’attività si attua nel passare oltre, cioè nel trascendere qualcosa nel suo valore. Rivolgiamoci alle parole di Roberto Gronda per avere un quadro più chiaro:

L’ethos trascendentale del trascendimento era definito come il «dovere di far passare la vita nel valore», il dovere di «risolvere l’essere nel dover-essere-per-il-valore» (E. De Martino, Scritti filosofici, a cura di R. Pastina, 2005, p. 12). Ed era detto correttamente ‘trascendentale’ perché quel dovere di superare la vita nel valore costituiva la possibilità

stessa della vita valorizzante, l’apertura alla possibilità di vivere nel valore122.

Ethos del trascendimento vuol dire vivere nel valore, operare scelte e decisioni valorizzanti che forniscono orizzonti a noi e al mondo, fondando una coerenza culturale. <<E aggiungeva che questo ethos fondamentale coincideva «con la presenza come volontà di esserci in una storia» perché la «norma costitutiva della presenza» consisteva precisamente nel non rimanere «immersa, senza lume di orizzonte formale, nella semplice polarità del piacere e del dolore» (E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., p. 17).>>123

122

R. Gronda, “Civiltà e mondo magico: Croce e De Martino” cit. 123

Il concetto di Ethos del trascendimento è stato approfondito in un testo pubblicato postumo di Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo

all’analisi delle apocalissi culturali 124

, curato dalla sua allieva Clara

Gallini. L’opera tratta anch’essa il rischio di crisi della presenza, ma anche il suo ethos del trascendimento, ovvero l’attività costitutiva di una presenza che opera e cerca di superare la crisi.

Scrive Gallini:

Concetto chiave è quello di ethos del trascendimento, inteso come principio trascendentale fondante l'esserci-nel-mondo e implicante un rischio di non esserci: rischio cioè di crollo di ogni possibile forma di presentificazione al mondo secondo un

progetto comunitario dell'operabile125.

La caduta dell'ethos del trascendimento mette in crisi la possibilità dl costruzione di

un qualsiasi mondo culturale possibile126.

Quando la presenza è in crisi l’ethos del trascendimento muta di segno, non oltrepassando nel valore ciò che esperisce. La cultura occidentale per De Martino manifesta una certo atteggiamento che consiste nel percepire la fine dell’intero mondo.

124

E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 1977.

125

Ivi, p. 628. 126 Ivi, p. 629.

Scrive De Martino:

«Può finire il mondo?»: chi così chiede, e vaga col suo terrore di congettura in congettura, proprio con ciò pone il finire del mondo, si immette nel corso del finire che non si trattiene più in nessun nuovo inizio, corre al termine sottraendosi all'unico compito che spetta all'uomo, cioè di essere l'Atlante, che col suo sforzo, sostiene il mondo e sa di sostenerlo. Certo il mondo «può» finire: ma che finisca è affar suo, perché all'uomo spetta soltanto rimetterlo sempre di nuovo in causa e iniziarlo sempre di

nuovo127.

De Martino distingue due modi diversi di percepire l’idea del “finire”,

La fine di «Un» mondo non ha nulla di patologico: è anzi una esperienza salutare, connessa alla storicità della condizione umana. Finisce il mondo della infanzia e comincia quello della adolescenza […]. La fine di «un» mondo è dunque nell'ordine della storia culturale umana: è la fine «del» mondo, in quanto esperienza attuale del

finire di qualsiasi mondo possibile, che costituisce il rischio radicale128.

Per l’autore l’ethos del trascendimento è l’attività fondamentale della presenza, che ci permette di passare oltre nel valore delle esperienze del mondo. Agendo e operando scelte si da valore e si sostiene il mondo stesso.

Un «mondo» è sempre mondo culturale, cioè è sempre esperibile per entro un certo

ordine di valorizzazioni intersoggettive umane, per entro un certo progetto comunitario dell'operabile. Ciò che sostiene il mondo è l'ethos valorizzatore, ed il rischio a cui

127

E. De Martino, La fine del mondo, op., cit., p. 629. 128 Ivi, p. 630.

questo ethos è esposto sta nel flettersi del suo slancio valorizzante su tutto il fronte della

possibile ·valorizzazione129.

Nel caso dell’atteggiamento di fine “del” mondo l’assenza dell’ethos del trascendimento è totale, mentre in altri casi di rischio della presenza si degrada, mutando di segno:

Nelle civiltà di raccoglitori e cacciatori, di pastori nomadi, di agricoltori, in rapporto alla relativa ristrettezza e precarietà di questo ambito e alla frequenza e alla radicalità delle situazioni-limite in cui viene esperito il vuoto della cosmificazione culturale e della umana operabilità del mondo, assume particolare rilievo il simbolismo mitico- rituale come orizzonte di ripresa e di reintegrazione della <<catastrofe del mondo>> e come difesa da quel nulla che si delinea quando si annulla la operabilità utilitaria

progettata dalla propria cultura130.

Quando la presenza cerca di passare oltre dando valore a ciò che la circonda ma risulta però compromessa dal rischio di crisi, questa valorizzazione cambia segno degradando l’ethos del trascendimento. Siamo arrivati alla conclusione della parte teorica dedicata al pensiero di De Martino. Sperando di aver fatto luce su quei concetti chiave, necessari a comprendere gli studi dell’autore sul Mezzogiorno italiano. Nel prossimo paragrafo ci concentreremo nello specifico sulla spedizione etnologica avvenuta in terra salentina.

129

E. De Martino, La fine del mondo, op., cit., p. 636- 637. 130 Ivi, p. 643.