1.2 La crisi dei centri storic
1.2.1 Evoluzione di un concetto: il centro storico
L’egemonia goduta in passato dai centri storici – in termini di rappresentanza, quasi esclusiva, del concetto di urbanità – è venuta meno, per cui i centri storici e i poli centrali dei sistemi metropolitani perdono riconoscimenti o nella immaginazione di quote crescenti di popolazione57. Il ruolo, le funzioni e l’identità stessa dei centri storici hanno subito profonde trasformazioni in seguito alla formazione dei sistemi metropolitani non più leggibili sulla base del modello centro/periferia58. Il modello di città che tende ad affermarsi negli ultimi venticinque anni mette in discussione l’idea di centralità intesa in senso classico: ad un modello di crescita basato sulla diffusione urbana dal centro verso la periferia, si sostituisce un nuovo processo di sviluppo centrato sulla funzione trainante del periurbano59. Si tratterebbe pertanto di una città virtuale (in quanto fuori dallo spazio-città) dotata (nelle intenzioni dei progettisti e nelle aspettative dei fruitori) dei vantaggi della città ma sgravata dagli oneri, dai limiti e dalle difficoltà che la città e l’urbanità oggi in particolare presentano60.
57 P. Guidicini, “Il nuovo urbanesimo tra indifferenza e condivisione”, in A. Angelini, (a cura
di) (2004),Metropoli, sostenibilità e governo dell’ambiente, Carocci, Roma, pp. 31-32.
58 P. Guidicini (1998), op. cit. p. 59.
59 C. Landuzzi (a cura di), “Sistemi metropolitani complessi” in Sociologia Urbana e Rurale, n.
69, 2002.
60 G. Pieretti (2002), “Città perfetta e crisi del razionalismo”, in Sociologia Urbana e Rurale, n.
Molte delle funzioni sociali, simboliche ed economiche tipiche del centro storico oggi vengono meno61. Le funzioni tradizionalmente attribuite all’area centrale della città – luogo di esercizio del potere, dell’incontro civico, delle attività strategiche, dello scambio – sono oggi differenziate, diffuse, “dematerializzate”62. Tra la popolazione che abita il centro storico sono in atto dinamiche di tipo sostitutivo complesse e non lineari all’insegna di quella contraddizione di cui parla P. Guidicini: abbiamo da una parte evidenti fenomeni di gentrification, dall'altra l’aumento relativo della presenza di popolazione di immigrati e di fasce di popolazione residuale, di antico insediamento, in particolare anziani. In questo quadro, le tradizionali popolazioni del centro, con le loro attività (come ad esempio le piccole botteghe artigianali e del commercio), diventano sempre più marginali rispetto ai processi di mutamento urbano ed anche il settore produttivo, soprattutto del terziario - perché quello industriale, dove era presente, si era già spostato verso l'esterno lasciando grandi vuoti (le aree dismesse) è sempre più residuale rispetto a quello che si va riorganizzando in ampie porzioni di territorio63. Chi ha voluto studiare il paesaggio territoriale prodotto dai quasi simultanei e spesso coesistenti processi di de-urbanizzazione, contro-urbanizzazione, sub- urbanizzazione, rur-banizzazione, con-urbanzione, peri-urbanizzazione, ecc., ha quasi sempre dovuto fare i conti con quelle dinamiche insediative e rilocalizzative di attività e funzioni che, demolendo l’antica contrapposizione tra città e campagna, avevano dato luogo ad una spazialità, in molti casi, privata sia dei connotati tipicamente urbani, sia dei tratti dell’originaria configurazione rurale del territorio64.
61 G. Martinotti (a cura di) (1999), La dimensione metropolitana. Sviluppo e governo della
nuova città, Il Mulino, Bologna, p. 86.
62 E. Sgroi, « I centri storici in Italia: antiche e nuove centralità», in A. Mazzette, E. Sgroi (a
cura di) (1999), Vecchie strade. Consumo e povertà nei centri di Palermo e di Sassari, Angeli, Milano, pp. 9-17.
63 L. Bovone, A. Mazzette, G. Rovati (a cura di) (2005), Effervescenze urbane. Quartieri
creativi a Milano, Genova e Sassari, Angeli, Milano, p. 20.
64 «Questo mondo di città o, meglio, di cittadini è dunque tuttora in espansione. Non allo stesso
In un primo momento, le spiegazioni delle modalità di riconfigurazione del territorio privilegiarono soprattutto la tesi per cui questa spazialità emergente dovesse essere considerata fondamentalmente il prodotto dell’esplosione o dello sprawl della città o del centro metropolitano.
Molte delle trasformazioni avvenute a livello di territorio, infatti, sono state preliminarmente spiegate proprio a partire dall’attenuazione del ruolo del centro che, «ormai dilatato all’infinito» e persa ogni autorità gerarchica nell’organizzazione dello spazio, ha lasciato lo spazio ad una «totalità di disordine»65 tutta da re-interpretare.
Per una parte delle re-interpretazioni correnti la privazione dei valori funzionali e simbolici del “centro”, è concomitante sia all’affermazione di situazioni di vita, atteggiamenti ed insiemi di comportamento – che sono sempre meno scanditi in funzione dell’appartenenza al territorio o della tonalità del rapporto con il “centro” – sia ai grandi mutamenti strutturali interni alle società capitalistiche. Il concetto di “centro” è stato però largamente utilizzato anche da geografi, urbanisti, statistici ed economisti nell’analisi delle società e dei territori urbani di un lontano, ma anche di un recente passato e, fino a non molti anni addietro, il mito della “centralità” era una componente ineliminabile nella rappresentazione non soltanto della forma, ma anche dei contenuti della
sviluppo di forme di insediamento diffuso sul territorio, è venuto in gran parte a scomparire il divario economico tra attività agricole e impieghi urbani, mentre stili di vita e comportamenti di consumo sono andati omologandosi. E questo non riguarda solo le abitazioni, ma anche i luoghi di produzione, gli uffici direzionali di impresa, i grandi centri commerciale ricreativi. Sono molte le aree dei paesi economicamente più avanzati in Europa e negli Stati Uniti che sono interessati da forme di insediamento apparentemente indipendenti dai centri urbani maggiori ancorché indipendenti dall’economia agricola. E del resto anche quest’ultimo, nelle sue forme più meccanizzate e automatizzate, offre impieghi remunerativi e redditi d’impresa perfettamente paragonabili, se non superiori, a quelli urbani. Sono questi, soprattutto, i territori delle piccole e medie imprese ad alto livello tecnologico, il cui mercato va normalmente oltre i confini locali o nazionali. Per questo i fattori di localizzazione sono spesso di origine culturale – alto livello di istruzione, spirito imprenditoriale, interesse all’innovazione – piuttosto che di tipo puramente quantitativo, come la semplice presenza di manodopera. E la crescente disponibilità di infrastrutture per la mobilità e la comunicazione minimizza la necessità di essere vicini ai grandi centri. Questo significa che, sia pure in larga misura e con le dovute eccezioni, la distanza fra città e campagna ha perso gran parte del suo significato», G. Picconato (2002), Un mondo di città, Edizioni di Comunità, Torino, pp. 7-9.
vita della città contrapposti, quasi con inerzia, a quelli della periferia rurale. La città è stata solitamente rappresentata in modo “positivo”, come «luogo di riferimento di natura religiosa, luogo di scambio di merci e culture, luogo, soprattutto, della concentrazione degli organi di governo del territorio, luogo, infine, della simbolica compressione del territorio, fisico ed ideale, di uno stato»66.
Tanto il sociologo, quanto lo storico e l’urbanista hanno teso a prolungare una tradizione di descrizione della città facendo esplicito riferimento ad una serie di attributi e di caratteri interpretabili quasi esclusivamente all’interno di quella logica dicotomica, definita dall’antitesi tra i caratteri urbani del centro e quelli non urbani della periferia. Se il territorio rurale era lo spazio della tradizione, della ripetitività delle pratiche sociali, delle forti aspettative nei confronti del comportamento dei singoli individui, il contesto cittadino doveva, al contrario, essere espressione dell’innovazione, della varietà delle pratiche sociali e dell’emancipazione individuale. In modo equivalente, le proprietà storiche che, da sempre, erano state attribuite allo specifico urbano – luogo dell’espressione dei conflitti, dell’incontro delle differenze e dell’emancipazione dai vincoli della tradizione – erano state simbolizzate e sintetizzate nell’idea di “centralità”67, mentre, lo spazio della quiete, dell’uniformità e della tradizione era considerato l’espressione diretta della “perifericità”.
Non è facile trovare nella bibliografia sulla città definizioni dell’urbano che non scaturiscano da una contrapposizione con il rurale, così come ovviamente non si possono trovare facilmente espressioni dell’idea di centralità, se non in antitesi con l’idea di perifericità.
66 Ibidem.
67 «Il cuore della città, il suo centro, raccordava insieme differenti categorie di attori sociali,
forniva loro un terreno, non solo simbolico, in cui potessero incrociarsi ed esprimersi. Questa dialettica pubblico/privato, incontro/distanza, su cui insistevano tutti i padri fondatori della sociologia urbana trovava il suo riferimento concreto nelle grandi piazze delle città europee, nella loro peculiare valenza fisica e politica», A. Petrillo (2000), La città perduta. L’eclissi
Con Richard Sennett, ad esempio, la «perdita del centro» cominciava ad essere inquadrata, sia dal punto di vista spaziale, che dal punto di vista simbolico, come una necessità geografica per neutralizzare lo spazio urbano e dar modo all’uomo di espandere all’infinito, e senza troppi impedimenti, i “tipi” territoriali dell’insediamento urbano68.
Il castello, costruito intorno alla dicotomia centro/periferia, ha cominciato a vacillare quando il riconoscimento, fino ad allora poco problematico, di una specifica spazialità urbana ha iniziato a porre insistenti problemi di identificabilità tra gli studiosi, così come tra gli abitanti. La conseguente difficoltà di continuare a credere nella rilevanza simbolica del centro, che pure si manteneva in molte espressioni culturali di largo uso, insieme alla presa di coscienza della trasformazione dei passaggi territoriali contemporanei hanno poi fatto crollare un castello già vacillante.
In concomitanza con la decadenza dell’operatività del concetto di “centro” e, di conseguenza, anche di quello di “periferia”, si è cominciato a parlare di «crisi della città»69.
Il centro storico di oggi rimane, nonostante la crisi che sta attraversando questo concetto, l’immagine della città, l’immagine di una idea di città storica sempre più messa in cornice; si sta cercando oggi di mettere in cornice un’ “area protetta”, su cui agiscono vincoli di modificabilità molto rigidi. Da una prospettiva costruttivista, la centralità non è più “la componente della forma urbana”, ma soltanto “la componente di una determinata forma urbana”, da attribuire ad un periodo circoscritto della storia e destinata ad essere superata,
68 R. Sennett (1992), La coscienza dell’occhio. Progetto e vita sociale nelle città, Feltrinelli,
Milano, pp. 60-61. Richard Sennett parla di due agenti di neutralizzazione del valore specifico dello spazio: il primo è relativo all’espansione all’infinito dell’insediamento umano; il secondo alle modalità di tale espansione che avviene per reiterazione di moduli sempre uguali sul territorio, con conseguente perdita di rilevanza del centro.
69 A. Becchi, «Le ‘mappe sociali’ delle dodici maggiori città italiane e delle loro aree
metropolitane», in A. Becchi, F. Indovina (a cura di) (1999), Caratteri delle recenti
sia da un punto di vista spaziale, sia dal punto di vista delle rappresentazioni sociali.
Dal punto di vista spaziale, la perdita di rilevanza del centro si concretizza in una sua lenta polverizzazione nell’arco temporale del «passaggio dalla rete urbana gerarchica o polarizzata a una rete interconnessa»70. Dal punto di vista delle rappresentazioni sociali, invece, il centro perde gran parte delle sue primarie funzioni simboliche di condensatore dei sentimenti di appartenenza territoriale, a causa di una generale diminuzione dell’investimento affettivo nei confronti dei luoghi tradizionalmente deputati a raccogliere i caratteri urbani per eccellenza. Il centro storico, nato dall’idea di conservare e valorizzare i valori, il “sacro” delle origini dell’anima della città, finisce per incarnare un feticcio per il consumo ludico-turistico di parti centrali delle città storiche all’interno dell’universo delle merci.
E′ presto diventata una banalità l’identificazione del centro storico con un paradossale “non luogo”. Scrive a tale proposito Marc Augè: “se il luogo antropologico era definito dall’identità, la convivenza del linguaggio, i punti di riferimento del paesaggio, le regole non formulate del saper vivere […] il non luogo crea l’identità condivisa dei passeggeri […] lo spazio del non luogo non crea né identità singola, né relazione, ma solitudine e similitudine”71.
Questo sembra assolutamente paradossale in quanto il centro storico sembra essere il prodotto di una stratificazione, di opere fortemente locali, identitarie, semantizzate ma assolutamente congelate.
Da entrambi i punti di vista, l’immagine della centralità, unica ed assoluta, sembra destinata ad essere progressivamente rimpiazzata dall’immagine del suo frazionamento.
70 G. Dematteis, «La scomposizione metropolitana», in P. Petsimeris (a cura di) (1991), Le
trasformazioni sociali dello spazio urbano. Verso una nuova geografia della città europea,
Patron Ed., Bologna, p. 106.
71 M. Augè (1992), Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Editions
La dimostrazione di quanto l’idea di “centro” sia stata importante nella rappresentazione della spazialità del passato ci viene dal fatto che ancora in tanti non si arrendono di fronte all’idea di una “perdita del centro” e parlano di
frammentazione del centro proprio per scongiurarla. Secondo questa versione,
il “centro”, non più unico ed esclusivo, continuerebbe a “manifestarsi” nelle numerose micro-centralità alternative alla centralità unica ed originaria. Ma ancora più negativa è la visione di Marshall McLuhan secondo cui “la città non esiste più, se non come fantasma culturale per turisti”.
Stando al modo in cui lo sguardo al territorio è ancora condizionato dal retaggio delle tracce di un passato non ancora completamente alle spalle, il superamento tout court dell’applicazione del concetto di centro alle tematiche relative all’ambiente urbano sembra ancora lontano.
Finché si potevano indicare con sicurezza un “centro” ed una “centralità”, al termine “periferia” era assegnato il compito di designare tutto ciò che non aveva la stessa dignità del “centro” ed i caratteri della “perifericità”, in definitiva, non erano più che residuali, privi di una propria dignità e di una propria valenza concettuale autonoma72. La periferia non era molto di più di un contenitore residuale di tutto quello che, pur a ridosso del “centro”, non aveva però il privilegio di farne parte.
La “periferia” era sempre in attesa di essere definita per ciò che il “centro” non era. Se il “centro” era espressione di un ordine urbano, la “periferia” era espressione di un ordine rurale, ma solo per effetto dell’attribuzione di qualità palesemente discordanti con le proprietà urbane del “centro”.
L’idea di perdita, ma anche quella di frammentazione/dispersione del “centro”, ha avuto conseguenze enormi (e spesso impreviste), su quanto era stato per
72 «Nella tradizione ‘periferia’ è un luogo non definito se non in relazione a un centro urbano
[…] Per definire e trovare la periferia è necessario operare attraverso un percorso di negazioni: la periferia urbana non è il centro, ma allo stesso tempo non è la campagna. La periferia urbana si colloca tra questi luoghi», L. Bellicini, «Periferia italiana ‘90», in L. Bellicini, R. Ingersoll (2001), Periferia italiana, Meltemi, Roma, p. 32.
lungo tempo definito soltanto in contrapposizione alle idee di “centro” e di “centralità”: la “periferia” e la “perifericità”.
Se l’urbanità si era dispersa sul territorio, l’antinomia interna ai concetti di “centro” e di “periferia” diventava limitante ed inservibile. È stata la fortuna della “periferia”; da quel momento in poi, essa è stata sempre più osservata per ciò che effettivamente era, e non più per ciò che non era.
Da più parti si rilevò che l’esplosione sul territorio dei caratteri dell’urbanità si fosse compiuta sia nei termini della dilatazione degli spazi del lavoro, del consumo e, generalmente, delle pratiche sociali quotidiane, sia nei termini della dispersione delle traiettorie biografiche individuali sul territorio metropolitano. Chi era impegnato ad elaborare statistiche sull’andamento demografico delle aree metropolitane aveva, per esempio, visto come gran parte dello sviluppo degli insediamenti residenziali, e non, si localizzasse al di fuori degli antichi confini comunali della città centrale, o comunque al di là dei limiti fisici convenzionali della città tradizionale. Se gli economisti avevano spiegato queste tendenze con i costi più contenuti della destrutturazione e della rifunzionalizzazione del territorio non urbano, gli urbanisti l’avevano argomentata con la povertà architettonica ed urbanistica di molte aree periferiche. Queste, opponendo una resistenza poco più che blanda ai processi di trasformazione dell’ordine territoriale esistente, diventavano il terreno ideale di sperimentazione delle più recenti tendenze nella concezione «dei nuovi insediamenti abitativi, delle nuove strutture commerciali, delle tecnologie avanzate, e degli spazi per il tempo libero»73.
In sintesi, l’evanescenza della strutturazione territoriale di molti paesaggi non urbani avrebbe concesso ad inedite modalità insediative e ad originali pratiche sociali di sperimentarsi e di riformularsi continuamente, pescando proprio,
73 R. Gambino, «Periferia metropolitana e pianificazione paesistica», in F. Boscacci, R.
Camagni (a cura di) (1994), Tra città e campagna: periurbanizzazione e politiche territoriali, Il Mulino, Bologna, p. 332.
secondo la felice espressione di Roberto Gambino, dalle possibilità offerte dal
disordine periferico.