Accountability e sistema politico regionale
4.1 L’evoluzione del ruolo delle region
L’accountability elettorale si struttura attraverso il comportamento degli attori, da un lato gli elettori e la loro capacità di premiare o punire i propri rappresentanti attraverso la disponibilità a mutare il proprio voto tra un’elezione e quella successiva, dall’altro i rappresentanti istituzionali devono dare la propria disponibilità a ripresentarsi al vaglio degli elettori alla conclusione del proprio mandato. Nel capitolo precedente ci si è soffermati sul primo dei due aspetti, adesso è il momento di focalizzare l’attenzione sugli eletti. Per giungere a questo risultato si ritiene opportuno ripercorrere sinteticamente le tappe che negli anni hanno modificato il regionalismo italiano. Le regioni, pur essendo state previste nelle Costituzione repubblicana, rimasero lettera morta fino alla fine degli anni Sessanta, allorquando la DC, rimosso il veto politico sull’istituzione di queste amministrazioni sub-nazionali (il timore democristiano dipendeva dal forte insediamento subculturale del PCI nell’Italia centrale e settentrionale, laddove già governava – bene - province e comuni, e dove avrebbe verosimilmente vinto la competizione anche per le regioni, in un contesto di questo tipo i comunisti avrebbe conquistato maggiore potere e avrebbero rafforzato l’idea di essere una seria e credibile alternativa di governo rispetto al DC) decise di approvare la legislazione relativa alla elezione dei Consigli regionali (di cui si è detto nel precedente capitolo).
I passi successivi di quella che Vassallo (2006) definisce la prima regionalizzazione, furono compiuti negli anni Settanta con una serie di decreti attuativi che contribuivano a conferire contenuti alla nascente istituzione. A tal proposito si è scritto (Putnam, Leonardi, Nanetti 1985) di tre fasi distinte attraverso le quali si è snodata la disciplina statuale sulle attribuzioni di competenze alle regioni. In un primo momento, quello tipicamente costituente, compreso tra il 1970 e il 1972 il Parlamento approvò alcuni provvedimenti legislativi tesi a delineare i confini entro cui si sarebbe mosso il nuovo ente. La l. 281/70 stabiliva su quali fonti finanziarie le regione potevano fare affidamento, ma oltre che alle risorse e alle entrate, si specificava altresì
che il governo avrebbe dovuto incaricarsi di trasferire alle regioni le funzioni amministrative delle quali avrebbero dovuto occuparsi proprio le nuove istituzioni. Un successivo provvedimento normativo emanato nello stesso anno, la legge 775, prescriveva al governo di emanare i decreti di riforma dell’amministrazione statale. Infine, nel 1972 il governo, attraverso lo strumento della decretazione, trasferì definitivamente le funzioni amministrative di cui avrebbero dovuto da quel momento in poi occuparsi le regioni. Il secondo passaggio di instaurazione delle regioni si concretizzò tra il 1972 e il 1977, nel cosiddetto periodo della mobilitazione che vide protagoniste come soggetti di pressione proprio le regioni che riuscirono ad ottenere così nel 1975 la promulgazione della legge 382, con la quale si autorizzava il decentramento alle regioni di ulteriori funzioni (di maggiore importanza), e in un secondo momento, a due anni di distanza, il decreto 616 del 1977 abolì rilevanti settori di molteplici ministeri (tra tutti quello dell’agricoltura), trasferendone la responsabilità sotto il diretto controllo delle regioni, un trasferimento di responsabilità che si estendeva anche a centinaia di enti pubblici precedentemente ricadenti sotto l’egida statale. Se quindi, da una parte, le regioni si vedevano conferire poteri legislativi in settori di una certa importanza, come la programmazione territoriale, piuttosto che i servizi sociali, dall’altra le disposizioni fiscali garantivano alle regioni la gestione di circa un quarto del bilancio statale. Quest’epoca fu seguita dalla cosiddetta fase manageriale, nella quale, anche in virtù della riforma sanitaria nazionale, le regioni entravano a pieno titolo nel novero degli attori in grado di incidere notevolmente sui processi decisionali, con particolare riferimento alle deliberazioni riguardanti molti settori delle politiche pubbliche, dall’edilizia popolare all’agricoltura, dall’urbanistica al servizio sanitario fino ad alcune competenze relative all’istruzione, con particolare riferimento al settore scolastico. In questo periodo di forte pressione sulle regioni queste cominciano a differenziarsi per rendimento istituzionale, all’appesantimento delle competenze infatti si rivelava una preziosa possibilità per le regioni efficienti e una problematica supplementare per le regioni più in ritardo dal punto di vista della gestione amministrativa, proprio in questa fase comincia a divaricarsi il divario tra la buona amministrazione delle regioni del centro-nord e la farraginosa macchina burocratica di buona parte delle regioni meridionali.
Il rendimento istituzionale differenziato e le crisi di governabilità cui andavano incontro la più parte delle regioni del Sud intervennero nel dibattito nazionale circa le ipotesi di riforma costituzionale. Così le commissioni riforme istituite dal parlamento negli anni Ottanta e Novanta proponevano maggiore autonomia legislativa e finanziaria per le regioni, nella speranza che ciò potesse risollevare le regioni in difficoltà e al tempo stesso dare migliori margini di manovra alle amministrazioni efficienti. Alla fine dei conti però non si riuscì a concretizzare una riforma organica, cionondimeno si provvide ad uniformare quantomeno il sistema elettorale regionale alle riforme che avevano visto modificare i criteri di elezione delle altre istituzioni repubblicane, a cominciare dal parlamento, fino agli enti locali, province e comuni, che avevano iniziato a sperimentare l’elezione diretta dei vertici delle giunte. Cercando di assecondare l’originaria ambizione di rinforzare la stabilità dei governi, creando nel contempo le condizioni per l’alternanza, magari riducendo la frammentazione partitica, si decise di approvare una riforma elettorale (di cui si è detto nel precedente capitolo) che riuscisse a compendiare in un sistema misto la governabilità e la rappresentatività (Shugart, Wattemberg 2000). Il risultato fu sostanzialmente ininfluente (se addirittura non peggiorativo, a causa del combinato disposto tra nuova legislazione elettorale e crollo del sistema partitico tradizionale) nelle regioni meridionali che già vivevano condizioni di alta conflittualità. Nella sesta consilitura la stabilità continuò a regnare laddove già regnava e non fece mai il suo ingresso nei contesti nei quali era sempre stata carente. Ciò comportò la successiva modifica del procedimento elettorale che con la l. cost. 1/99 sanciva l’elezione diretta del presidente della giunta regionale, l’obiettivo era quello (come detto in precedenza) di legare i destini delle giunte a quelli dei consigli, nella speranza così di attenuare i conflitti, stabilizzando “di forza” gli esecutivi. L’effetto è stato quello sopprimere le crisi di giunta, che vedremo nei prossimi paragrafi, si sono trasformate in rimpasti di giunta, salvando così sia la giunta dalle tensioni sopravvenute tra le forze di maggioranza sia la consiliatura dallo scioglimento, decretando così il passaggio dal dominio dell’assemblea al rafforzamento dell’esecutivo, tramite il rapporto diretto tra vertice della giunta ed elettori.
Ma il passaggio critico più importante nella progressiva riforma delle istituzioni regionali lo si ha nel momento dell’approvazione della riforma del titolo V della Costituzione nel 2001, la legge costituzionale 3 rappresenta una rivoluzione copernicana nei rapporti tra Stato e Regioni. Con questo provvedimento viene completamente capovolta la ratio dell’art. 117 della C.I., si passa da un sistema nel quale le materie di diretta competenza delle regioni sono espressamente elencate nella costituzione, ad un sistema nel quale sono descritte nella Carta costituzionale le competenze esclusive dello Stato e le materie a competenza concorrente (nelle quali lo Stato si riserva la facoltà di dettare le linee guide all’interno delle quali deve muoversi il legislatore regionale), ogni altra competenza non espressamente ricadente nella potestà legislativa statale è demandata alla esclusiva competenza delle Regioni. Di pari passo viene sancita una più ampia autonomia statutaria per le Regioni a Statuto normale, conseguente al capovolgimento di responsabilità verso lo Stato rispetto al passato. Quanto più ampio diventa lo spettro di competenze a carico delle Regioni, tanto maggiore deve essere l’autonomia in capo ad esse per rispondere al meglio alle nuove responsabilità attribuite dal legislatore nazionale. Nella potestà statutaria, come si è visto nel precedente capitolo, ricadono anche possibili novellazioni alle leggi elettorali, strumento del quale si sono avvalse entrambe le regioni sottoposte alla presente analisi.
Da questa breve sintesi si desume che nei primi quaranta anni vissuti dalle Regioni a Statuto ordinario, la struttura delle opportunità per gli attori del regionalismo italiano è molto mutata nel tempo, le regioni da scatola quasi vuota, si sono tramutate in un punto di snodo fondamentale nei rapporti tra istituzioni sovranazionali (si pensi alla gestione dei fondi comunitari, specie al Sud, dove quasi tutte le regioni ricadono nell’Obiettivo 119, tra queste ovviamente la Calabria), nazionali, locali e cittadini. Il potere nelle mani dei rappresentanti istituzionali delle regioni si è via via fatto più pervasivo, tanto da far diventare il bilancio regionale un punto cardine di sostentamento economico per vasti strati della società meridionale (l’economia
19 Programma comunitario di sostegno volto al rafforzamento economico delle regioni europee ubicate in aree sottoutilizzate. Questo programma si pone come strumento di finanziamento di opere volte alla crescita dei territori interessati, attraverso interventi di sostegno economico ed infrastrutturale, tesi ad eliminare il gap con le
calabrese dipende quasi essenzialmente dalla capacità finanziaria della Regione). Con le riforme degli ultimi anni il potere si è però sempre più spostato dall’assemblea regionale alla giunta e più in particolare al presidente della giunta che, anche grazie alla diretta legittimazione dei cittadini, è diventato il dominus dei rapporti istituzionali, punto nodale di raccordo con gli assessori, ma anche con i consiglieri e i partiti a livello politico, e con i dirigenti della burocrazia regionale a livello amministrativo.
Una concentrazione di potere tale da far guadagnare a nuovi (per mansioni attribuite) presidenti la qualifica giornalistica di governatore. Da queste considerazioni scaturisce la problematica relativa ai rapporti di personalizzazione della competizione proprio sulla figura del governatore, un ambito problematico, quello della cosiddetta personalizzazione dall’alto o macro personalizzazione (Bolgherini, Musella 2007 e Musella 2009) che si interseca inestricabilmente con la tradizionale personalizzazione dal basso che si protrae sin dalla Prima Repubblica con riferimento alle figure dei consiglieri regionali. Aspetti rilevanti questi nell’economia dell’interpretazione dei meccanismi di ricandidatura, riconferma e rielezione dei rappresentanti di cui ci si occuperà nei paragrafi successivi. Prima però di affrontare il discorso relativo ai rapporti tra giunta e consiglio, relativamente sia all’epoca precedente alla riforma elettorale del 1995, quella delle coalizioni precostituite, sia all’epoca, cominciata nel 2000, dell’elezione diretta del presidente della giunta regionale, prima di approfondire le questioni relative alla personalizzazione della competizione, unita all’argomento della disponibilità alla ricandidatura degli uscenti, nel prossimo paragrafo l’attenzione sarà più diffusamente concentrata sul sistema dei partiti.
L’obiettivo è analizzare i caratteri che influenzano la selezione dei candidati e del ceto politico eletto nelle regioni considerate, un compito che passa per l’analisi di alcuni indicatori, prima relativi al sistema partitico, quindi indici di bipartitismo e di dominanza per avere contezza dello spazio politico occupato dalle formazioni più grandi dal punto di vista dei consensi riscossi alle elezioni così da stabilire i margini competitivi per le restanti forze politiche considerate, per poi considerare, almeno per ciò che concerne la fase dal 1995 in poi, l’indice di competizione e di bipolarismo (misurati per la sola arena maggioritaria) per avere contezza di come si sviluppa la contesa per la conquista della presidenza della giunta regionale, avendo l’accortezza di
valutare questi indici all’interno del contesto delle singole regioni, per poi procedere alla prospettiva comparata, per come si è già proceduto per gli indici di partecipazione elettorale, volatilità e frammentazione nel precedente capitolo, e per come si farà nei paragrafi successivi di questo capitolo. Prima con riguardo alla questione relativa alla stabilità delle giunte e di come questa si ripercuote sul rinnovo della rappresentanza e dopo all’indice di preferenza (per valutare il peso politico della personalizzazione dal basso) e al grado di personalizzazione e di attrazione concernente la competizione per l’elezione diretta del presidente della giunta (quindi sviscerando il tema della personalizzazione dall’alto). Per poi concludere valutando i percorsi carsici attraverso i quali si dipanano i meccanismi di ricandidatura e di rielezione del ceto politico regionale, con riguardo alla dimensione del continuum tra lealtà (o per meglio dire come si vedrà, non slealtà) e slealtà nei riguardi del partito (e nella seconda fase anche la coalizione) che per la prima volta ha espresso il consigliere eletto.