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Fabio Sandr

Nel documento La fotografia off-camera (pagine 172-184)

La ricerca artistica di Fabio Sandri (n. 1964) parte dalla sua formazione all’Accademia di Belle Arti di Venezia, ai tempi in cui vi insegnava Emilio Vedova. L’ambiente dinamico dell’Accademica unito alla conoscenza diretta con Vedova e la sua arte, spinsero Sandri a sviluppare un contatto fisico con la materia artistica che non si limitava a essere un fatto iconografico ma una vera e propria presenza spaziale ed emotiva. Il coinvolgimento totale, sia dal punto di vista sensoriale sia da quello fisico, delle sue opere è riscontrabile non solo nei lavori realizzati sotto l’influenza accademica, ma anche nelle successive sperimentazioni off-camera.

Nel 1989 Sandri cominciò a occuparsi di fotografia senza macchina realizzando

Fotogrammi, grandi fogli di carta fotosensibile piegata su se stessa che restituivano, sotto

forma di sfumature di grigio, la presenza della materia luminosa. Fin da queste prime opere sono ben visibili i punti di riferimento che stanno a cuore all’artista vicentino: il grande formato unito alla commistione tra materia e processo fotografico. Per Sandri la grande dimensione sottolinea lo scambio tra corpo e materiale che avviene in scala 1:1, in un rapporto totale e fisico con il proprio lavoro che relega in secondo piano il semplice dato iconografico.

La componente iconica dell’immagine, infatti, non è mai stata al centro della ricerca dell’artista, che si è invece confrontato con la presenza: dato necessario nella produzione

fotografica. Sandri intende la fotografia come un elemento scultoreo caratterizzato dal depositarsi della realtà sulla sua superficie. Per usare le sue parole: un precipitato di

realtà. Affidandosi a questa espressione, la fotografia emerge in tutta la sua corporeità e

fisicità, legata al mondo e alla storia che circondano i suoi materiali e che interagiscono direttamente con essi. La realtà “cade” sulla superficie fotografica realizzando sculture. I Fotogrammi-Scultura (2001-03) rendono evidente fin dal titolo il legame tra deposito di luce e scultura. Strappando la parte superiore della carta e piegandola poi su se stessa si crea uno spazio di raccolta e sedimentazione della radiazione luminosa. Un lento accumulo di materia sull’emulsione.

L’idea di precipitato si concretizza in Io (2003), un fotogramma ottenuto ponendosi in piedi sulla carta fotografica e illuminandola dall’alto.

Questa opera mi ha permesso di indicare l’idea di tridimensionalità che può avere l’impronta fotografica. Si vede il mio corpo fotogrammato, nel senso che è proiettato sulla carta fotografica stesa a terra, tramite una luce posta esattamente sullo zenit della mia testa. E quello che si vede, l’alone chiaro attorno, è il profilo della schiena e della testa, le macchie più chiare al centro sono i piedi che toccano la superficie della carta fotografica. Ecco, mi piaceva rappresentare la figura umana in questo modo, cioè da un punto di vista zenitale, verticale, e dunque mostrarla precipitata, mostrarla dentro alla spazialità propria del materiale fotosensibile.1

Non solo sagome e ombre, dunque, ma anche tridimensionalità e spazialità caratterizzano la ricerca di Sandri, come è evidente nelle sue Stanze (2003-08): progetto stimolante e ambizioso che mira a ottenere fotogrammi di interi ambienti. Posizionando grandi fogli di carta fotografica a contatto con il pavimento e con l’emulsione rivolta verso il basso, accendendo la luce, i fogli – trasparenti alla radiazione luminosa – ricevono per proiezione le ombre dell’arredamento ma anche l’immagine del pavimento sottostante. Le Stanze sono enormi fotogrammi che rivelano un ambiente in tutte le sue dimensioni. A depositarsi sulla carta è sia ciò che si pone sopra, sia ciò che sta sotto, creando un fotogramma unico e doppio al tempo stesso.

Anche il tempo – parte integrante del processo fotografico – svolge un ruolo centrale nella ricerca di Fabio Sandri. Ne è la prova Incarnato (2005), un’opera che viene alla luce lentamente, assecondando il passare del tempo. Incarnato è costituito da un semplice foglio di carta fotosensibile posto a contatto di una parete su cui viene proiettato un filmato. L’opera è stata esposta in occasione della mostra Fotosensibilità alla Galleria Neon di Bologna nel 2006 e ha cominciato a venire alla luce nel momento dell’apertura al pubblico dell’evento. La carta, colpita dal filmato, si è scurita lentamente senza 1 F. S. in un’intervista a Luca Panaro pubblicata su Fabio Sandri. Precipitati di realtà, L. Panaro (a cura di), Danilo Montanari Editore, Ravenna, 2016.

riuscire a cogliere nella propria interezza nessuna delle immagini del video. Ciascuna di queste è presente ma invisibile, palese ma latente. Dopo quindici giorni di accumulo e di caduta di tempo e luce sulla carta, questa assunse un profondo colore ocra, giallo, vinaccia, simile a quello della pelle umana o, appunto, dell’incarnato. Il titolo accentua, inoltre, l’idea del legame tenace che intercorre tra immagine e supporto, sempre fondamentale nella ricerca dell’autore.

A esplorare un terreno simile è anche Garage (2010) che, oltre a indagare il rapporto tra luce, tempo e materiale fotografico, coinvolge direttamente lo spettatore nella creazione dell’immagine.

Questo lavoro mette in moto una dinamica plurima: necessita il “farlo in prima persona”, sostenere la propria immagine per circa 20 minuti di stasi.

Veniamo ripresi da una videocamera mentre siamo sulla porta del garage e contemporaneamente proiettati sulla parete di fondo dove è posta la carta fotosensibile. Su quella parete la nostra immagine produce a sua volta una impronta proprio mentre la stiamo guardando.2

Osservando la proiezione della propria immagine, che contemporaneamente si sta imprimendo sulla carta fotografica, lo spettatore instaura un colloquio intimo con se stesso, una sorta di psicoterapia personale. Perché l’immagini si formi occorrono venti minuti: un periodo di tempo eccezionalmente lungo, in cui la percezione del proprio corpo si intreccia all’immagine retinica di se stessi che si sta creando di fronte ai propri occhi. Garage ripercorre le orme di Io, permettendo al corpo umano di depositarsi sulla materia fotografica.

Sandri fa un uso straordinario della materia fotografica, declinandola in maniera inedita e svelando le sue infinte sfaccettature. Lo studio consapevole del tempo, dello spazio e della figura umana caricano la sua opera di importanza e significato, permettendogli di collocarsi senza alcun dubbio tra i più grandi esponenti dell’off-camera a livello mondiale.

Vicenza, 11 luglio 2017

Non sono in molti a occuparsi di fotografia senza macchina fotografica in Italia.

In Italia non c’è ancora uno studio sistematico specifico sulla fotografia senza macchina. In Italia ci sono stati autori come Luigi Veronesi negli anni Trenta e poi Nino Migliori 2 Dal sito personale di Fabio Sandri, nella pagina dedicata a Garage. http://www.fabio- sandri.com

che negli anni Cinquanta sviluppa una ricerca sperimentale legata all’impronta fotografica intesa come segno, come traccia materica. Migliori è stato infatti molto legato alla cultura dell’Arte Informale. Negli anni Settanta Milano ha visto nascere la Mec Art, con Bruno di Bello e altri. E ovviamente, per quanto riguarda l’Italia, bisogna ricordare Paolo Gioli, anche se lavora con la camera stenopeica più che con l’impronta diretta.

Per quanto riguarda il presente si tratta di una tecnica che in Italia è stata poco sperimentata, mentre in Germania è più diffusa, anche da un punto di vista teorico e scientifico. C’è stata proprio una scuola all’università di Kassel che ruota intorno al personaggio di Floris Neusüss. Con i suoi allievi, ha svolto un lavoro significativo sul fotogramma.

Anche in Inghilterra ci sono degli artisti importanti dalla fine degli anni anni ‘80 . Ma in generale non sono tantissimi.

Come si è avvicinato all’off-camera? Ha avuto un trascorso da fotografo tradizionale?

No, assolutamente. Non derivo dalla fotografia nel senso canonico del termine. Io ho studiato pittura a Venezia con Vedova. Derivo quindi da un ambito pittorico e anche da esperienze di scultura, la scelta del materiale fotografico è una conseguenza di una riflessione sulla materia. Materia intesa non solo come materia pittorica, ma in senso simbolico.

La fotografia la definisco come un “precipitato”, perché è una sorta di derivato, una memoria dei materiali. Culturalmente la fotografia può essere intesa come materia della memoria, e, anche dal punto di vista materiale, è un precipitato, una riduzione estrema di un fatto fisico. A me piace fare assumere a questa realtà fisica un significato simbolico. La materia fotografica ha, secondo me, questa complessità: da un lato è la materia della memoria, dall’altro è un residuo della fisicità.

Lei considera i suoi lavori delle sculture.

Definisco i miei lavori con i fotogrammi un lavoro scultoreo perché si agisce nello spazio con un materiale che ha una sua fenomenologia concreta e una processualità . È una riduzione plastica dello spazio, dei materiali, più che un’immagine. Si tratta di materiali di caduta. Simbolicamente e praticamente si tratta di materiali fisici prima che iconografici.

Come realizza i fotogrammi delle stanze?

Si tratta di impronte dirette di stanze e sono fatte utilizzando dei grandi fogli di carta fotografica che vengono utilizzati in maniera non tradizionale. Solitamente per i fotogrammi la carta sensibile ha una parte emulsionata che viene rivolta verso la fonte luminosa. Il fotogramma agisce quindi da schermo di proiezione. Considerando che la

carta che sostiene l’emulsione è di per sé un materiale che, guarda caso, fa passare la luce, ho deciso di rivolgere la carta verso il pavimento trasformando così la situazione di schermo del fotogramma classico in una condizione di sezione. Si ottengono infatti immagini che raccolgono dati sia da un lato che dall’altro.

Ragionando sul concetto plastico della fotografia, dell’impronta fotografica, mi piaceva l’idea di raccogliere le informazioni spaziali in due direzioni, da entrambi i lati. In questo senso è un principio di indagine plastica nuovo.

Per quanto riguarda i tempi di esposizione?

Sono intuitivi. Ogni situazione è diversa. Ogni stanza, ogni luogo ha una sua condizione di luce diversa e ogni materiale ha una rifrangenza differente. Per cui i tempi di esposizione vanno dai quattro ai dodici secondi a seconda anche delle lampadine che utilizzo. Anche la posizione della luce influisce. Mi piace molto la relatività di queste scelte formali che condizionano il risultato finale.

Cerco di utilizzare tempi e oggetti che non siano troppo “decorativi”. Mi piace invece evidenziare il procedimento più che l’effetto estetico che si può ottenere.

Che rapporto ha invece con la figura umana?

La figura umana è sempre un termine di confronto. Sia dal punto di vista della misura plastica, sia per quanto riguarda la condizione nello spazio. Si tratta della traccia di una presenza nello spazio. Io lavoro con misure 1:1. Mi interessa mostrare che questo fatto plastico simbolico del materiale fotografico non sia semplicemente un dato tecnico, ma sia un ragionamento su una condizione psicofisica, emozionale. Voglio mostrare il segno rappresentativo di una certa presenza. La scala 1:1 è sempre un riconoscimento di questo tipo. Anche psicologico, ma ancor prima di questo, fisico. In questo senso io considero i miei lavori un ragionamento scultoreo, plastico.

Passando all’idea di relatività, nel suo lavoro Garage si ritrova sia il rapporto con la figura umana sia un risultato finale che non si può facilmente controllare e che dipende quindi da chi partecipa al progetto.

Rispetto ai miei altri lavori, in Garage incide anche la percezione del lavoro da parte di chi lo fruisce. Allo spettatore è richiesta anche un’azione. Non è un lavoro che si limita alla forma, ma si apre all’esperienza, parla in prima persona. Garage per essere visto deve essere fatto, partecipato: occorre stare fermi venti minuti per vedere alla fine un risultato, una fotografia. Ma non si tratta solo di un fatto iconografico, è un fatto attivo, un’esperienza. Comporta mettersi a confronto con se stessi e il proprio tempo, con la stasi, con la percezione personale di noi stessi. È un lavoro molto personale, che implica una percezione di noi stessi che parte da dentro. Spinge a spostare il punto di vista da una visione esterna a una interna che parla della propria vita. Si tratta sicuramente di

un’opera simbolica.

Ha mai sfruttato il colore?

Fino all’anno scorso non mi ero occupato del colore, a meno che non fosse il colore che produce naturalmente la carta fotografica impressionata, una sorta di tinta che ricorda l’incarnato. L’unico colore presente nei miei lavori era quindi quello, ma gli altri lavori erano in bianco e nero.

L’anno scorso ho invece iniziato a fare dei lavori che ragionano sulla trasformazione dell’impronta diretta tramite l’immagine digitale. Allora sono partito dalla carta fotosensibile fisica, ma mi interessava il ribaltamento che avveniva con l’inversione digitale. Ho realizzato delle impronte e poi con il digitale le ho invertite, come se l’impronta fatta con l’analogico, cioè fatta fisicamente, fosse poi sviluppata, ma con il digitale. Questo generava automaticamente un colore azzurro. Ho ragionato quindi sul valore simbolico di quel colore: l’azzurro è il colore della lontananza. Il materiale fotografico contiene un’ambivalenza: da un lato prevede e necessita della presenza fisica concreta, e dall’altro è il materiale della lontananza per antonomasia. Diventa subito memoria. È un materiale di perdita della materia, ma in qualche modo ne è un ritrovamento proprio nella sua caduta. Mi piaceva evidenziare questa ambivalenza anche tramite un ragionamento sul colore.

In alcuni suoi lavori piega e strappa la carta fotografica. Che rapporto ha con il supporto cartaceo?

I miei primi lavori erano molto influenzati dai miei trascorsi con la pittura ed altre dimensioni più processuali del lavoro. Per cui all’inizio cercavo di dare una dimensione anche fisica all’immagine. Molti lavori che ho realizzato erano disegni, oppure manipolazioni della carta: tante pieghe che formavano un disegno, ma anche impronte eseguite avvolgendo la carta intorno a sassi, delle assi, delle porte, un televisore. L’immagine si ritrovava con il frottage. La carta era quindi il tramite, la pelle, il supporto dell’impronta o del disegno. È l’elemento che sta tra il contatto e l’immagine. È quel supporto essenziale su cui creare e si colloca tra visione e contatto fisico. In questo senso la carta è stata intesa come corpo minimo, ma con un valore enorme: sostanzia l’immagine. La carta si porta dietro il segno, la superficie, l’impronta fisica di un materiale.

Poi in un certo momento al posto del segno grafico è subentrata l’emulsione fotografica. Il materiale fotografico superava le storie particolari delle altre materie, contenendole tutte, in un certo senso. Per cui la carta rimaneva anche in questo caso un supporto. La fotografia si può realizzare su diversi supporti, ma a me piace proprio l’elemento della carta, del foglio che acquista proprio il significato di supporto fisico minimo.

Sì. Il formato, un po’ come il discorso della figura umana o degli ambenti, ha sempre a che fare con grandezze in scala 1:1. E ovviamente intendo una proporzione che ha a che fare con la dimensione umana, non con quella di un insetto o di una città. Mi riferisco a quel particolare rapporto 1:1 che ha a che fare con la nostra presenza e rappresenta in un certo senso una forma di empatia o di una sua ricerca. O, ancora, l’idea di partire da una forma di empatia, una sorta di fatto empatico che guida il lavoro.

Ho sempre realizzato opere che potessero diventare ambientali. Non per un fatto scenografico, ma per un senso di coinvolgimento 1:1 della presenza umana.

Quello che dice rende ancora più comprensibile la sua idea della materia che precipita. Materia che, precipitando, non modifica la propria dimensione.

Sì, sicuramente. La riduzione non la intendo riferita alla dimensione, ma alla sostanza.

Ha lavorato solo con il fotogramma per quanto riguarda la fotografia senza macchina fotografica?

Per ora si. Parto dal principio dell’impronta che, per il 90% dei miei lavori, è fatta senza macchina. La fotografia per me è impronta, non è un fatto grafico ma è un fatto fisico. La luce – la materia che io utilizzo – più che grafica diventa plastica, e si deposita su un supporto che è simile alla grafica ma non lo è.

Che rapporto ha, invece, con la luce naturale, l’ambiente aperto, la natura?

Ho realizzato un lavoro l’anno scorso a Carpi dove ho esposto una sorta di cassa per tre mesi all’aperto che ha agito da filtro per la luce naturale. Questo generava una sorta di griglia sulla carta fotosensibile. Griglia che doveva essere un omaggio alla tradizione tessile di Carpi. Il lavoro si formava con il passare del tempo ma anche delle persone. Si trattava dunque di un passaggio sensibile. In questo caso la carta fotografica aveva lo scopo di sensibilizzare un luogo: catturare qualcosa di imprendibile, cercare di sensibilizzare uno spazio, un passaggio.

F. Sandri, Fotogrammi, 1989

F. Sandri, Stanza 10, 2003-06

Nel documento La fotografia off-camera (pagine 172-184)