Paola Di Bello (n. 1961) ha saputo fare tesoro dell’esperienza sviluppata in camera oscura mentre aiutava sua padre, Bruno Di Bello. Gli insegnamenti del padre hanno lasciato una traccia nella ricerca dell’artista partenopea più dal punto di vista della curiosità verso la sperimentazione che da quello della forma e del linguaggio.
L’opera di Paola Di Bello si carica di significati concettuali e simbolici originati da tagli, sovrapposizioni e tempi di esposizione molto lunghi. In questo modo la città di Milano viene rappresentata in immagini che la catturano contemporaneamente di giorno e di notte (Rear Window, 2011-2016) o in lunghe strisce fotografiche che colgono visioni impossibili della città da un normale punto di vista (Strip, Milano, 2005-2007). Il capoluogo lombardo – protagonista di numerosi lavori della Di Bello – diventa il portatore di nuove prospettive che donano importanza a oggetti e a uomini dimenticati (Concrete Island, 1996, Rischiano pene molto severe, 1998). Spazio e tempo rappresentano, dunque, il nodo centrale della ricerca di Paola Di Bello, che supera i limiti del mezzo fotografico adottando una visione a 360° che non è propria della fotografia1.
Ripercorrendo a ritroso la produzione della Di Bello ci si imbatte in un lavoro off- camera: Lucciole (1988-1991). L’opera nacque dal desiderio dell’artista di indagare 1 P. Varone, Paola Di Bello: la fotografia a 360 gradi, 2017. http://www.darsmagazine.it
il segno, la traccia lasciata sulla carta fotografica in maniera non determinata. Per ottenere tale risultato la Di Bello catturò venticinque lucciole nella campagna milanese, le trasportò in un barattolo fino al suo studio e le lasciò camminare liberamente sulla carta fotografica. Successivamente le lucciole vennero riportate nel luogo da cui furono prelevate e i fogli furono sviluppati. La carta fotografica, illuminata in maniera intermittente dalle lucciole in movimento, appare percorsa da sottili sentieri aggrovigliati, tracce del passaggio degli insetti che sarebbero altrimenti invisibili.
Gli uomini, quando uscirono dall’età dell’oro in cui vivevano accanto agli dèi immortali, e poi via via quando uscirono da quella dell’argento, da quella del bronzo e da quella degli eroi – come scrive Esiodo – entrarono nell’età del ferro; cioè quell’età in cui gli uomini diventarono mortali, la donna incominciò a partorire con dolore, Prometeo rubò il fuoco agli dèi e Adamo ed Eva vennero scacciati dal paradiso.
Quando dunque gli uomini uscirono da queste età mitiche, entrarono nell’età, come vorrei chiamarla, dell’ombra. Allora infatti, immagino, i loro corpi e i corpi di tutti gli esseri animati e inanimati incominciarono a gettare l’ombra. Ed è questa appunto l’età in cui noi ci troviamo.
In questa nostra età, gli unici corpi che non hanno ombra sono evidentemente i corpi luminosi. Avete mai visto, del resto, l’ombra del sole? Le sorgenti luminose rivelano le ombre altrui, ma non hanno un’ombra propria – e così appunto anche le lucciole. Si potrebbe quasi dire che lucciole e ombra sono antitetiche: o c’è lucciola o c’è ombra.
Le lucciole dei miei lavori hanno camminato su un foglio di pellicola fotografica bianco e nero, lasciando quindi un segno nero (in fotografia la luce è nera). Noi questo segno nero lo leggiamo come ombra (cioè il nostro occhio normalmente intende il chiaro come luce e lo scuro come ombra).
Ma – abbiamo visto – le lucciole, in quanto sorgenti luminose, non hanno ombra. Allora, qual è la relazione tra lucciole e ombra? Walt Disney ce lo mostra magistralmente: Peter Pan ha perso l’ombra, come il Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso e come la donna senz’ombra di Hugo von Hofmannsthal. Campanellino – la sua amica lucciola – lo aiuta a ritrovarla; anzi è proprio la lucciola che ritrova l’ombra di Peter Pan.
Ancora in Peter Pan – la cui storia originale è di James M. Barrie – c’è un’altra immagine significativa: la lucciola Campanellino, che è muta, deve spiegare come fare a raggiungere l’abitazione di Peter Pan sull’isola che non c’è: per farlo intinge le zampette nell’inchiostro e cammina su una carta geografica, tracciando un percorso fatto di tante macchioline
nere.2
Le parole di Paola Di Bello offrono uno spaccato colto e sofisticato di Lucciole, 2 P. Di Bello, Lucciole, ovvero l’età dell’ombra, 2010. http://www.engramma.it
incorniciando l’opera in un contesto intellettuale e liberandola dalla superficiale considerazione che potrebbe trattarsi di un mero esercizio di stile. La profonda conoscenza della storia dell’arte, della fotografia e della letteratura fa da sfondo all’intera ricerca della Di Bello che non ha mai dimenticato gli insegnamenti del padre in camera oscura.
Milano, 25 ottobre 2017
Come si è avvicinata alla fotografia off-camera?
La mia formazione è avvenuta in camera oscura. Ho cominciato a occuparmi di fotografia partendo dalla camera oscura e non dalla macchina fotografica. Per anni ho aiutato mio padre con i suoi progetti. Lui lavorava più come artista che come fotografo, perché ha una formazione di pittura e scultura sviluppata all’Accademia. A lui interessava la superficie fotografica come tela: dipingeva con la luce, con una pila, su un supporto che era la tela fotografica, ed eseguiva dei viraggi quindi il segno non rimaneva nero ma blu. Era un lavoro che si inseriva quindi totalmente nell’ambito pittorico, a mio avviso. E io in camera oscura lo aiutavo.
Ho esplorato l’ambiente della camera oscura a fondo, tutti i miei primi progetti li ho svolti al suo interno. Ho usato anche molto la Polaroid come carta da stampa: nel cassetto porta negativi non mettevo dei negativi ma degli oggetti. I miei lavori erano prevalentemente in bianco e nero: Ansel Adams per me era la bibbia. Ma ho avuto un’educazione molto aperta.
Come si è sviluppato il suo lavoro con le lucciole?
Stavo cominciando a fare le mie prime riflessioni sull’arte in maniera autonoma, anche se magari i miei progetti erano ancora immaturi e acerbi. In quel momento riflettevo molto sul tema del segno nell’arte. Perché un artista, soprattutto se pittore, ha la necessità di imporre un suo gesto? Uno dei quadri più importanti di mio padre era una serie di tele attraversate dalla frase “il segno che mima il gesto”. Io avevo una sensibilità che era meno autoriale, meno legata all’imposizione della mano, dell’artista, del pittore che si mette su un piedistallo. Quindi mi era venuta l’idea di prendere delle lucciole e di farle camminare sulla pellicola fotografica. Inizialmente le posai sul Polaroid: ne usai due con due sensibilità diverse. Una era poco sensibile e l’altra lo era troppo. Così ho comprato della pellicola fotografica. Il caso ha voluto che trovassi due scatole a un prezzo conveniente, quindi portai a casa cinquanta fogli.
Sono andata in campagna, ho preso le lucciole, ho messo i fogli sul tavolo e ci ho fatto camminare sopra gli insetti. Ho impressionato le cinquanta pellicole senza
sapere minima-mente cosa sarebbe successo. Quindi il caso ha avuto un ruolo molto importante. Quando le ho sviluppate è stata una sorpresa incredibile perché ho addirittura compreso alcune cose sulle lucciole guardando il segno che avevano lasciato. Mi ero talmente appassionata che avevo portato avanti degli approfondimenti entomologici e scientifici in biblioteca. Insomma, avevo ottenuto un risultato al di sopra delle mie aspettative.
Il lavoro l’ho svolto tutto in una notte, poi l’ho lasciato in un cassetto, presa da altre cose. Un giorno ho mostrato le immagini a un’amica e il suo entusiasmo mi ha spinta a portarle da un gallerista. Sono riuscita a esporle, a formalizzarle e ho creato anche un piccolo catalogo.
A me interessava l’idea del segno non intenzionale dell’artista, dell’artista che coglie la casualità, che poi vuol dire cogliere la realtà, cosa che effettivamente è molto legata alla fotografia. Man Ray diceva una cosa molto interessante a questo proposito: “quello che non posso fotografare lo dipingo, quello che non posso dipingere lo fotografo”. Secondo lui ciò che si ha dentro lo si esprime con la pittura, mentre la fotografia introietta qualcosa che nasce da fuori. Anche solo il fatto che la luce entri nella macchina richiama questa idea. Quindi la pittura va dal dentro al fuori e la fotografia dal fuori al dentro. Ecco dunque l’idea di accogliere la casualità delle lucciole. I piccoli insetti realizzavano disegni incredibili su fogli che non avevano neanche un verso. Nei disegni si potevano scorgere paesaggi, profili, un po’ come nelle nuvole.
È il segno dunque a essere il protagonista del suo lavoro.
Sì. A me interessava il segno nero, perché sulla pellicola la luce lascia proprio un segno nero. Successivamente in camera oscura ho dovuto capire come ingrandire quel segno per ottenere una superficie visibile grande quanto un quadro. Volevo mostrare un segno fisico concreto, presente; non un soliloquio tipo i disegnini che si fanno sulla carta parlando al telefono. Volevo ottenere con questo lavoro un’importanza segnica, quindi ho fatto degli ingrandimenti di un metro per un metro e quaranta che ingigantivano tutta la pellicola, compreso il segno della pinzetta usata per appendere. Per me era tutto valido, non volevo tagliare nulla, anche perché il taglio sarebbe stato un mio intervento e a me interessava la cosa di per sé.
Studiai i comportamenti delle lucciole e lessi Stephen J. Gould, uno scienziato divulgatore. Lui diceva che gli esseri umani sono portati a vedere dei disegni nelle stelle, mentre queste sono lontanissime le une dalle altre e si tratta solo di un fatto prospettico. Se si potesse saltare su un altro pianeta le stesse stelle che si vedono dalla Terra non formerebbero più gli stessi disegni. Sono segni casuali dovuti unicamente al nostro punto di vista di esseri umani.
Accade il contrario per quanto riguarda le lucciole: vediamo un andamento di forme, di intermittenze e di ghirigori nell’aria che ci sembrano totalmente casuali, ma non
è affatto così! Le lucciole si distribuiscono nello spazio perché stanno eseguendo un balletto di corteggiamento e lo spettacolo che noi osserviamo all’inizio dell’estate è totalmente in funzione dell’accoppiamento. Quelle che volano sono i maschi, mentre le femmine rimangono a terra. Quando individuano la stessa lunghezza d’onda, la stessa frequenza si accoppiano. Si distribuiscono nello spazio in modo razionale, ma ai nostri occhi sembra del tutto casuale.
È davvero un fatto umano quello di avere nell’occhio il disegno, la volontà di vedere figure. E poi l’idea dell’intermittenza, della frequenza e della lunghezza d’onda l’avevo trovata così poetica! In fondo è quello che muove anche gli esseri umani. Quindi solo dopo aver realizzato il lavoro ho capito – studiando e leggendo – che aveva una valenza interessante anche dal punto di vista scientifico. Si vedono infatti benissimo tutte le diverse intermittenze. Sembra un alfabeto Morse. È stato un lavoro di scoperta.
Ho avuto l’idea all’improvviso e ho svolto tutto in una notte. Poi la mia coscienza mi ha spinta a realizzare che avevo creato arte. Ma perché? Perché parla della dell’essere umano di fare un disegno, di vedere segni, di incontrarsi.
Si tratta di un lavoro off-camera per eccellenza.
Poi si è focalizzata su altre ricerche?
Ho lavorato molto con la Polaroid usandola proprio come materiale di stampa, quindi senza negativo in un certo senso. E in realtà la camera oscura mi interessa sempre.
Oltre all’imprinting ricevuto da suo padre, che formazione ha avuto?
Ho frequentato un istituto tecnico di fotografia, grafica, cinema e televisione, però poi in Accademia ho studiato grafica e design. Sono cresciuta in un ambiente d’arte e la mia formazione è stata essenzialmente quella con mio padre e quella ricavata dalle letture che non derivavano da corsi di laurea specifici.
Come dicevo prima, sono un’autodidatta che ha avuto una formazione piuttosto anarchica.