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Manipolazione del materiale fotografico

Nel documento La fotografia off-camera (pagine 97-100)

Dagli anni Settanta a ogg

2 Manipolazione del materiale fotografico

Come diversi artisti del Novecento avevano fatto in precedenza, anche molti fotografi contemporanei focalizzano la propria ricerca off-camera sulla manipolazione della materia fotografica, realizzando opere in cui liquidi e sostanze chimiche sostituiscono la luce nel ruolo da protagonista. La maggior parte delle sperimentazioni di questo tipo mirano a creare un legame più profondo tra il fotografo e la fotografia. Entrando in contatto diretto con i materiali fotografici e “sporcandosi le mani”, gli artisti restituiscono immagini da cui emerge in un certo senso anche il proprio ritratto.

Fondamentale in questo ambito è la figura di Susan Rankaitis (n. 1949), la quale, nel corso degli studi universitari dedicati alla pittura, si rese conto di voler effettuare un cambio di rotta nella propria ricerca artistica.

Verso la fine del mio primo anno di scuola di specializzazione, mi resi conto di dover completamente ridefinire cosa fosse la pittura per me e di non voler dipingere sulla tela. Non so se usai il termine “interdisciplinare” – non so se esistesse all’epoca – ma mi ricordo di aver parlato di “connessioni”. Il titolo della mia tesi era “Le connessioni tra

pittura e fotografia” ed era ciò che stavo cercando di fare.65

Abbandonato il modo di dipingere tradizionale ed entrata in contatto con i fotogrammi di Moholy-Nagy, la Rankaitis iniziò a sperimentare utilizzando la materia fotografica. Le sue opere, complesse stratificazioni di luce e materia, si compongono di fotogrammi arricchiti di pennellate di reagenti chimici fotografici, bruciature, ulteriori esposizioni alla luce e nuovi interventi meccanici. La pittura si fonde con la luce in un’alternanza di gesto pittorico effettuato col pennello e gesto fotografico per mezzo di torce (Fig. 80). Susan Rankaitis tenta di costruire un ponte tra arte e scienza lavorando sulle reazioni del cervello umano di fronte a diverse emozioni. L’interesse per la scienza l’ha a realizzare immagini confuse che tentano di rappresentare l’intuito, il pensiero, l’individualità. I risultati sono opere esteticamente disordinate in cui colori chiari si alternano a macchie scure e fotogrammi si mischiano alla gestualità della pittura.

Un aspetto più ordinato, in certi casi quasi minimale, hanno, invece, le opere di Marco Breuer (n. 1966). Egli rifiuta la capacità della fotografia di ritrarre il mondo e approccia il mezzo fotografico con un desiderio sempre vivo di scoperta.

Ciò che è importante per me […] non è portare il mondo esterno nel mio studio o in camera oscura, ma che il lavoro cominci nello studio o nella camera oscura e si colleghi

successivamente a qualcosa nel mondo esterno.66

65 S. Rankaitis, A Conversation with Susan Rankaitis, C. Eliel, 2017. http://www.unframed.lacma.org

66 M. Breuer in un’intervista a Virginia Heckert e Sarah Freeman. Light, Paper, Process. Reinventing

Sin dal 1990 Breuer porta avanti la propria ricerca off-camera sottoponendo la carta fotosensibile a bruciature, abrasioni e graffi. Sulla parte emulsionata della carta fotografica vengono poste micce accese e carboni ardenti, sfregati fiammiferi e trascinati spilli, passate pagliette di ferro e cartavetro. Ogni azione sposta il delicato equilibrio tra creazione e distruzione, tra nascita e morte dell’immagine.

I primi lavori di Breuer furono realizzati su carta fotografica in bianco e nero; solo nel 2001 il fotografo iniziò a dedicarsi al colore. I lavori continuarono a includere azioni di abrasione, raschiamento e bruciatura applicati, però, successivamente all’esposizione della carta. Spesso i risultati vennero impiegati come negativi per realizzare stampe a contatto, le quali, successivamente, venivano ulteriormente manipolate in modo da creare composizioni complesse e stratificate.

La ricerca artistica di Breuer si è complicata ancora con il passare degli anni. Le serie

Pan e Tilt dei primi anni Duemila presentano graffi ottenuti con lamette da barba e

orientati rispettivamente in orizzontale e in verticale (Fig. 81). Passando le lamette in entrambe le direzioni viene alla luce la serie Complications. Dal 2009 Breuer ha indagato ancora più in profondità la materia fotografica praticando buchi e sparando proiettili a scatole di carta fotosensibile, attaccando lame a motori circolari e passandole sul supporto, graffiando la carta con le proprie dita sulle quali aveva applicato piccole luci colorate o, ancora, scaldando l’emulsione con padelle elettriche.

Le opere di Breuer sono fragili organismi su cui si sono succedute azione violente. Narrano la storia di un certo tempo, ma non di un singolo istante del passato, come la maggior parte delle fotografie tradizionali, bensì della durata di alcune azioni che hanno lasciato cicatrici sulla carta67.

La ricerca di Ilan Wolff (n. 1955), che spazia dal fotogramma alla fotografia stenopeica passando per la manipolazione dei materiali fotografici, indaga il rapporto tra fotografia e natura. Nella serie The Four Elements (1998-2002) tentò di documentare l’incontro tra terra, aria, fuoco e acqua con la carta fotografica ponendo in contatto la carta emulsionata con vari materiali (tra cui terra, ghiaccio e metalli incandescenti). Wolff creò un legame fisico tra la fotografia e il mondo reale facendo a meno della luce, “collante” tradizionale che unisce mondo esterno e carta fotografica. Fortemente influenzato dall’alchimia, Wolff crea immagini in cui cerca di rendere visibile il passaggio di energia tra materiali (Fig. 82).

Anche Lynn Cazabon affronta temi legati ad ambiente e natura, focalizzandosi in particolar modo sui problemi ecologici e legati alla sostenibilità. Pur occupandosi prevalentemente di fotografia tradizionale, video e installazioni, nel 2008 la Cazabon realizzò la serie off-camera Diluvian. Partendo dalla realizzazione di una piccola discarica artificiale utilizzando vecchi telefoni, parti di computer e materiali organici, 67 G. Batchen, Emanations. The art of the Cameraless Photograph, Prestel Publishing, New Plymouth, 2016, p. 46.

l’artista vi incorporò fogli di carta fotografica scaduta. Successivamente spruzzò sul cumulo di materiali aceto, bicarbonato e acqua e ricoprì il tutto con una lastra di vetro. La piccola discarica venne esposta al sole per sei ore, durante le quali le reazioni chimiche avvenute tra i vari materiali lasciarono tracce colorate sul supporto fotografico. Diluvian testimonia il preoccupante persistere in natura dei materiali elettronici, sottolineando l’importanza di temi come il riciclo e la sostenibilità.

Anche giovanissimo artista e fotografo inglese Luke Evans (n. 1992) mette a dura prova i materiali fotografici, esponendoli a veri e propri viaggi estremi. Per realizzare

Inside Out (2012, in collaborazione con Josh Lake) Evans ingerì pezzi di pellicola

fotografica da 35mm lasciando che fosse il proprio corpo a reagire con essa. Dopo essere stata espulsa e lavata in camera oscura, la pellicola è stata sviluppata e stampata usando un ingranditore. Nonostante l’esperimento sia nato da un’ingenua curiosità fanciullesca, i risultato sono di una bellezza sorprendente: ombre aspre si confrontano con bianchi accesi creando paesaggi che si ricollegano a universi infinitamente grandi o infinitamente piccoli (Fig. 83).

Decisamente meno violenta è l’azione fotografica di Philip Pocock (n. 1954). Verso la fine degli anni Ottanta iniziò a lavorare alla serie Cibachrome Paintings: foto-pitture astratte in cui arte e fotografia si fondono. Le immagini ottenute e la modalità di realizzazione ricordano l’Espressionismo Astratto americano, ma, a differenza degli action painters, Pocock realizzò le proprie opere in maniera consapevolmente fotografica e non artistica, adoperando materiali che rientrano totalmente nell’ambito della fotografia: supporto fotosensibile e reagenti chimici. Servendosi di pennelli di varie misure e lavorando sia in camera oscura che in piena luce, Pocock cosparse la carta fotografica di piccoli segni, granuli corpuscolari e linee sinuose. I colori accesi e l’ambigua spazialità delle immagini si collegano alla pittura astratta rimanendo, però, fortemente ancorate all’impersonalità della fotografia (Fig. 84).

Queste opere fotografiche possono essere lette come pitture astratte liberate dalla concretezza dell’immagine rappresentativa, e, allo stesso tempo, possiamo considerarle documentazioni molto concrete e fotografiche che registrano e rappresentano il processo stesso della nascita di un’immagine. Quello che è in gioco o quello che è l’obiettivo finale che guida Pocock nel suo sforzo di far crollare i muri della fotografia, è raggiungere la libertà illimitata della fotografia dal servire la rappresentazione esterna e […] chiedersi:

dove termina la fotografia analogica sperimentale e dove inizia la pittura?68

68 Z. Kozma, comunicato stampa della mostra Pocock Philip: The Endgame of Photography, 2016.

Nel documento La fotografia off-camera (pagine 97-100)