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Fare anziché apparire

Ho avuto anch’io l’onore di conoscerlo da vicino, Lorenzo Natali. Tanto da vicino che imparai non solo a stimarlo profondamente, ma ad avere per lui un grande affet-to. Ma anche così tanto da soffrire molto quando fu la fine. Proprio per questo, mi è difficile proiettarne un ricordo oggettivo, algido come un ritratto di Gainsborough.

La memoria, insieme a un filo conduttore evidente, mi porta un alternarsi di sorrisi o umori dolenti, di immagini personali che si accavallano alla cronaca istituzionale.

L’immagine se vogliamo più ufficiale, che può sembrare uno stereotipo, e però molto mia, rivà alle 4 di notte del 29 marzo 1985. Nella sala-stampa del vecchio Palaz-zo Charlemagne, stipata di giornalisti, scendono finalmente LorenPalaz-zo Natali, vicepresi-dente della Commissione europea e commissario incaricato dell’Allargamento, Giulio Andreotti, presidente in carica del Consiglio della Comunità, i ministri Fernando Mo-ràn e Jaime Gama. Dopo un’ultima maratona di diciotto ore, il negoziato per l’adesio-ne all’Europa della Spagna e del Portogallo è concluso. È il tripudio. I giornalisti spa-gnoli intonano “Asturias, patria querida” in onore del loro ministro. Si tralasciano i dati tecnici, si mira alla sostanza politica. Fernando Moràn, Jaime Gama, Giulio An-dreotti si congratulano l’un l’altro, come se questo momento non appartenesse che a loro. Lo stereotipo della Comunità esultante per un successo notevole.

Antonio Foresi

Al lungo tavolo della sala-stampa, lui se ne sta tranquillo, quasi da parte, con un sorriso sulle labbra, dolce e divertito. I nostri sguardi s’incrociano, gli faccio un cen-no col capo: “Li vedi, Lorenzo?”. Mi risponde con un altro cencen-no, accentua il sorri-so. Evitando però di partecipare a quel concerto, per altro legittimo, di auto-compia-cimento.

Eppure, se la maratona finale era certo stata importante per l’ingresso nella Co-munità delle giovanissime democrazie iberiche, tuttavia non era che lo sbocco natu-rale di un lavoro di anni condotto da lui, Lorenzo Natali, e non da altri, con visione politica, competenza tecnica, inesauribile pazienza. Un lavoro di grande valore per la Spagna e il Portogallo di quel tempo, per il divenire dell’Europa intera, per la Storia se permettete. Quattro anni prima, Natali aveva già portato a conclusione i negoziati d’adesione della Grecia, cliente difficilissimo, bizantino, che aveva il vezzo di rimet-tere mano, ogni mattina, agli accordi tracciati la sera precedente; ma innanzitutto una giovane democrazia, anch’essa, dopo aver riassorbito il rigurgito fascista dei “co-lonnelli”. Ben al di là delle tonnellate di patate novelle, di olio e vinacce e di merluz-zi su cui gli esperti esibivano i loro titanici bracci di ferro, la posta in gioco era sem-plicemente la democrazia.

Un giornale inglese, The Guardian, gli aveva già reso omaggio: “Indiscutibilmen-te, in Natali un’ostinata volontà di spremere fino all’ultimo ecu dagli Stati membri più taccagni a beneficio delle zone sfavorite del sud europeo, si appaia ad un impe-gno quasi evangelico per l’adesione della Spagna e del Portogallo”. Due storiche uni-versità iberiche gli conferirono la loro laurea honoris causa. E re Juan Carlos poté so-lo ringraziarso-lo. Ho ancora la foto, che usai per il Tg1, di quando il giovane sovrano so-lo insignì della più alta onorificenza. Ma Natali non amava parlare dei suoi successi.

Un uomo vero, generoso: è questa la struttura portante del ricordo. Uno di quelli che preferiscono fare anziché apparire. L’approccio cordiale, semplice. La grande dedizione al lavoro. Il forte senso della solidarietà: l’antica e perenne solidarietà, in-ter-personale, inter-statale, inter-etnica. Democratico-cristiano lo era in concreto. E anche uomo di lunghe fedeltà: fiorentino, certo, per nascita geografica, ma ormai ra-dicatamene aquilano e così abruzzese da essere deputato per sette legislature conse-cutive. E sette volte ministro, per la Democrazia Cristiana, appunto. E fedele alla DC fino in fondo, nonostante gli avvicendamenti, non sempre positivi, alla Segreteria di Piazza del Gesù. Ma “la vecchia casa non si lascia”, diceva Lorenzo, proprio come mio padre, che era stato, a sua volta, deputato democristiano, in altre province.

I primi contatti con lui, li avevo avuti già nel ‘71, tramite un suo poulain abruzze-se, Antonio Falconio. Natali era ministro dell’Agricoltura; io, nel mio piccolo, lavora-vo al Giornale Radio. Aveva ottenuto dalla Comunità europea il “piano agrumi” con una dotazione di 200 miliardi di lire, stanziamento enorme per allora. Era un’occasio-ne unica per rinnovare le colture e inventare una commercializzazioun’occasio-ne seria delle arance italiane, in Europa. E bisognava parlarne, farla capire. Che il Mezzogiorno, la

Poco dopo, fu Bruxelles, per entrambi, ciascuno nel proprio ambito ed al proprio livello. Incaricato di rifare per il telegiornale della Rai la breve storia dei primi 20 an-ni dei Trattati di Roma, trovai in cineteca spezzoan-ni della Settimana Incom del 25 mar-zo 1957. E in quei filmati piovigginosi in bianco e nero, scoprii una figura che anda-va e venianda-va un po’ dappertutto, una silhouette gioanda-vanile ma, diciamolo, non proprio slanciatissima, Lorenzo Natali. Era al suo primo incarico governativo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio: ed è in quella veste che gli spettò di badare all’organiz-zazione della cerimonia per la firma dei Trattati, in Campidoglio.

A Bruxelles, dunque, nel 1977. Si stabilì gradualmente un rapporto amichevole, se mi consentite questo termine, forse un rapporto da zio a nipote, durato solamente 12 anni, in fondo, ma talmente intenso per me che ne sento tutt’ora la portata.

Nel 1977 ottiene in Commissione, oltre alla vicepresidenza, un insieme di incari-chi strategici: l’Allargamento della Cee come si è detto, le prime elezioni del Parla-mento europeo, la politica dell’ambiente, la sicurezza nucleare. Dicasteri che al gior-no d’oggi darebbero lavoro a quattro o cinque commissari. Ma allora, nel 1977, a qualcuno politicamente prevenuto – è inutile ormai fare nomi, anche l’idiozia ha di-ritto alla prescrizione – non sembra abbastanza qualificante. E poi, a quei tempi, l’ecologia non è ancora di moda. Sicché quando Natali propone la prima direttiva europea per il riciclaggio dei rifiuti urbani e industriali i giornalisti chic e i loro diret-tori in Italia storcono il naso. Ma siamo nel 1977, trent’anni prima della vergognosa cloaca napoletana…

Poi, la presidenza Thorn, dal 1981 al 1985. Che non funziona gran che. Forse Ga-ston Thorn, a 44 anni, è distratto dal suo innamoramento per una signora di Stra-sburgo, molto bella, un’alta funzionaria del Consiglio d’Europa. Ora che lui è morto, mi permetto di scriverlo, con simpatia e non per il piacere sciocchino del pettegolez-zo, perché è la sola spiegazione possibile della metamorfosi di quest’uomo che fino a poco prima era stato un ottimo capo del governo lussemburghese. Comunque sia, Lorenzo Natali, sempre vicepresidente, Etienne Davignon, belga e vicepresidente anch’egli, François-Xavier Ortoli, francese, e Wilhelm Haferkamp, tedesco, devono formare una leadership sostitutiva per portare avanti la macchina della Comunità. La riunione settimanale della Commissione si tiene di regola il mercoledì. Nella massi-ma discrezione, i quattro s’incontrano o la sera primassi-ma, o la massi-mattina stessa, per la pri-ma colazione, e lì decidono il da farsi. Va da sé che Natali si guarda bene dal parlare di questo lavoro tanto silenzioso, quanto importante in quella fase in cui le cose, og-gettivamente, non vanno bene: è il periodo dell’eurosclerosi. Se ne venimmo a cono-scenza, come pochi altri colleghi, fu assolutamente per altre vie.

Naturalmente, si scherzava con lui, su questa “banda dei Quattro”. E lui negava tutto. Capitava di farlo in quelle serate, rare, in cui si poteva cenare insieme, diciamo

sei o sette volte all’anno, finito il lavoro. Per esempio, nel suo splendido appartamen-to allo Square du Bois, in onore di Madame Paola e delle figlie, quand’erano in visi-ta a Bruxelles. Oppure erano cene, spesso improvvisate, a casa di uno di noi, intendo dire – a parte il suo capo di Gabinetto Paolo Pensa – dei tre o quattro giornalisti che lo seguivano più da vicino. E anche capitava di ritrovarsi fuori, in un locale che ma-gari qualcuno di noi aveva appena scoperto. Il Samabaïa, per esempio, un piccolo ri-storante brasiliano, che in seguito si trasferì a Parigi. Lì nel 1982, nel periodo del Mundial di Spagna, esplose la sfida: il proprietario giurava, ovviamente, che avrebbe vinto il Brasile, Lorenzo, con molto coraggio puntò sull’Italia, che all’inizio del tor-neo andava maluccio. Posta in palio: una cena per le otto persone che erano lì a tavo-la, quella sera. L’Italia vinse, il proprietario non onorò mai l’impegno. Forse per que-sto chiese asilo in Francia.

E viene la presidenza di Jacques Delors. Il rilancio dell’Europa. Il periodo in cui, più che mai, si affermano l’autorevolezza e l’equilibrio di Lorenzo Natali. Pochi co-noscono un episodio molto emblematico. È l’autunno ‘85, Delors è di umore instabi-le, insoddisfatto di come le cose vanno. Ad un mercoledì della Commissione litiga pesantemente po’ con tutti. Diversi commissari, capeggiati da Frans Andriessen, olandese, chiedono le dimissioni del presidente, che secondo loro li ha insultati. In quei giorni, Lorenzo Natali è in missione in Africa. I colleghi lo pregano di rientrare immediatamente. Torna, tiene Delors in confessionale per una giornata intera; poi tutti i colleghi, uno per uno, per una settimana. La sua mediazione politicamente abi-lissima e umanamente affettuosa, paziente, risolve la crisi. E la presidenza Delors ri-parte, e prende il volo.

Natali non se ne vantò mai. Come non si vantava, abbiamo visto, di quel che ave-va fatto per la Spagna e il Portogallo. Né dei Pim, i Programmi integrati mediterranei di cui potevano ora servirsi le regioni italiane meno sviluppate. Né del gran lavoro in Africa, poiché proprio in quel quadriennio aveva assunto il dicastero della Coopera-zione per lo sviluppo del Terzo mondo. Non voleva gloria, ma i suoi occhi si com-muovevano fino alle lacrime quando i piccoli africani del Sahel lo chiamavano “Ton-ton Lorenzò”, Zione Lorenzo. Spero che nella cineteca dell’Unione europea esista ancora un breve filmato di quelle danze e di quei canti infantili, degli striscioni gioio-si e poveri che lo salutavano. Documento rarisgioio-simo, registrato da un cine-operatore della Commissione, che ebbi la fortuna di usare quasi di straforo. In effetti è nel ri-serbo assoluto che dovevano avvenire i suoi incontri coi capi africani. Con loro, cer-to, organizzava gli aiuti alimentari, e l’assistenza per qualche segmento di progresso civile, ma insieme a loro, proprio perché non ne faceva propaganda, risolveva anche spinosi problemi umanitari, otteneva la liberazione di ostaggi e la libertà di culto per i missionari cattolici. In Vaticano gliene erano straordinariamente grati.

E tuttavia Natali non dimenticava mai l’Abruzzo. Da ministro italiano aveva rea-lizzato l’autostrada attraverso gli Appennini, per farlo uscire da secoli d’isolamento.

Ma alla segreteria di Piazza del Gesù importava ben poco che l’Italia disponesse in Europa di un tale vantaggio, di un uomo di questo prestigio, di questa utilità. Per assecondare i superiori e nazionalissimi equilibri della DC, bisognava sostituirlo. Il verdetto parve chiaro verso la fine del 1988. Il presidente Delors si precipitò da De Mita per chiedergli di lasciare Natali alla Commissione europea e al suo ruolo strate-gico. Ma come si dice pudicamente, la politica italiana ha le sue regole. Sicché per la Commissione di Bruxelles fu designato Filippo Maria Pandolfi. Brava persona, di per sé. Fra i molti, innegabili meriti, aveva quello, irresistibile, di portare in dote un 2,2 per cento di voti al congresso della DC che doveva consacrare alla segreteria l’uo-mo di Nusco.

Dieci mesi più tardi Natali morì, nella discrezione, il 29 agosto 1989. In Spagna e in Portogallo, a Dakar, ad Abidjan, ad Atene i giornali pubblicarono in prima pagina la sua fotografia, per rendergli un ultimo omaggio. Ma a Lisbona, a Madrid, a Lilon-gwe e Yaoundé, ad Abidjan e a Dakar non era in vista un congresso della DC di Ci-riaco De Mita. Che fortuna.

L’amarezza per le scelte di Piazza del Gesù – di cui però conosceva, senza sor-prendersi, le brutali logiche del potere – veniva a sommarsi alla terribile sofferenza fisica per il male che l’aveva aggredito. E quel dolore, totale e imparabile, Lorenzo Natali lo guardò dritto in faccia con la sua straordinaria dignità di un uomo vero.