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CAPITOLO III: STORIA DI UNA CAPINERA DI GIOVANNI VERGA

4.1 La finestra

Acutamente Mariella Muscariello, nel suddetto saggio, osserva come in un romanzo strutturato sulla base di questa forte dicotomia esterno vs. interno significativo è il ruolo svolto dalla finestra, che rappresenta il punto di collegamento tra lo spazio interno e uno spazio esterno che Maria si accinge a conoscere; dunque la finestra rappresenta l’angolo visuale di questo narratore solitario. È dalla finestra che Maria vede per la prima volta la casa del castaldo, su cui si esercita la sua fantasia di una famiglia accogliente e premurosa; è sempre dalla “finestrella” che, dopo aver preso coscienza del suo amore verso Nino, ode la sua voce e spera di riuscire ad incontrarlo. Significativamente l’incontro cardine tra Maria e Nino avviene proprio alla stessa finestra, qui in funzione sia di mezzo che di ostacolo; il fatto che i due si vedano, e anche se silenziosamente, si confessino il reciproco amore, ostacolati però dalla finestra, potrebbe simboleggiare la difficoltà di contatto con il mondo e la sua negazione, il tentativo di costruire rapporti umani e l’inevitabile scontro con la condizione di prigionia. Dopo questo incontro Maria è costretta a rimanere rinchiusa nella sua stanza per ordine della matrigna e oltre alla vergogna che prova per sé stessa, rimane la finestra, «che stava lì, di faccia al [suo] letto, come un’inflessibile accusatrice». È chiaro che anche in questo caso è l’oggetto che impersona le sensazioni

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della stessa protagonista, si antropomorfizza catalizzando su di sé le diverse emozioni; quando è aperta infatti la finestra veicola emozioni, permette a Maria di guardare e quindi di percepire ed apprendere la realtà, mentre quando è chiusa è, come nel caso sopracitato, accusatrice, perché testimone di un peccato, ma anche mezzo di tutela del pudore e dello sfogo:

Agucchio, agucchio, gli intieri giorni presso la finestra di cui le tende sono accuratamente chiuse, e piango quando ho la felicità di non essere veduta e di potermi sfogare…54

La finestra aperta incarna anche l’unica speranza che Maria ha di poter rivedere il suo amato, attendendo che lui a sua volta si affacci alla finestra della sua camera per poterla vedere:

poi cerco di indovinare il punto del davanzale dove egli appoggerà i gomiti allorchè aprirà la finestra, la zolla dove egli poserà la prima pedata, la traccia che seguirà nell’aria il suo primo sguardo che cercherà la mia finestra… perché il cuore mi dice che il suo sguardo sarà per la mia finestra, e che egli saprà che io sono stata qui a vederlo dormire, a pensare a lui.55

La finestra è il mezzo per entrare in contatto con la natura, una volta terminata la sua prima degenza a Monte Ilice:

Mi sono alzata vacillante, appoggiandomi ai mobili, ed ho aperto la finestra. Mio Dio! Come è incantevole tutto quello che veggo.56

Ancora la finestra è l’unico tramite tra Maria e Nino quando lui le fa visita un’ultima volta prima di partire definitivamente da Monte Ilice, bussandole sul vetro e lasciandole una rosa sul davanzale, la stessa rosa che la giovane porterà con sé sul letto di morte. Prima di andarsene ella chiude per l’ultima volta la sua finestra, ma poi ancora, inconsolabile, fa il giro della casa, abbracciando ogni mobile ed ogni muro:

ho aperto un’ultima volta la finestra per udire quello stridere dei gangheri che piangeva. Ho fatto il giro della casetta onde vedere la mia finestra dal di fuori com’egli l’avrà vista … 57

54 Ivi. p.43

55 Ivi. p.44

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Dunque come gli altri oggetti anche la finestra si personifica e si configura come un’inflessibile accusatrice della trasgressione d’amore, ma anche della metamorfosi di Maria da educanda ad “apprendista di emozioni”. Una volta trasferita nel convento la finestra è sostituita dalle grate di ferro, che segnano il suo definitivo distacco dal mondo esterno. Nello spazio del convento però si inserisce ancora una volta un micro-spazio, che è quello della casa di Nino e Giuditta, collocata esattamente di fronte al belvedere; da qui Maria riesce a scorgere la finestra della camera degli sposi e può assistere alle loro effusioni e alla costruzione di quel nido d’amore che tanto agognava per sé, ma che le viene negato. La finestra torna ancora quindi, ma sempre più connotata negativamente, poiché ha perso la sua funzione di mezzo di ricezione di emozioni positive e ora si riduce a veicolo di sofferenze. I sentimenti, le emozioni vivono ormai in un altrove, sfuggono a Maria e al suo delirio e a lei, esclusa per necessità, non resta che rintanarsi come “belva ferita” nello spazio senza luce di una cella:

tutte quelle cose avevano una parola e dicevano: Nino! Nino! Lo cercavo cogli occhi intorno a me e lo vidi, lo vidi alla finestra di una casa poco lontana […] nel buio si vedeva quella finestra illuminata che mi guardava col suo occhio spalancato […] era lui! Lui!... le prese la mano.. la baciò sulle labbra… Dio! Dio! Dio!... fatemi morire.58

A questo punto in quella stanza Maria fonde i due codici, religioso e sentimentale, poiché la camera che essa lascia intravedere è per lei un “tabernacolo” che conserva l’immagine sacra dell’amore, una figura emblematica della religione degli affetti a cui Maria si è convertita:

Cento volte ho passato la sera a fantasticare fissando da lungi qualche lume che brillava in una camera lontana… a tentare d’ indovinare tutti gli affetti, tutte le cure, tutti quei piccoli dispiaceri che alla povera anima mia sembrano un’altra delle felicità domestiche, i discorsi, le parole che probabilmente si passano attorno a quel lume solitario… ma quella finestra aveva un riverbero infuocato… non potevo fissarla senza sentirmi ardere tutte le vene… […] quella casa aveva la tappezzeria a grandi fiori azzurri:

57 Ivi. p.54

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vicino alla finestra c’era una poltrona […] Se volessi immaginare il tabernacolo non saprei idearlo altrimenti.59

Infine, nell’ultima lettera scritta da Suor Filomena, nella quale viene dato conto degli ultimi giorni di vita di Maria, ella racconta che la povera novizia non aveva più la forza di parlare e che rimaneva a letto tutto il giorno, intenta a piangere e baciare i petali seccati della rosa che Nino le aveva donato. L’unica cosa che richiese fu che le si volgesse il capo verso la finestra per poter osservare ancora una volta quel cielo azzurro che le ricordava il tempo felice vissuto a Monte Ilice:

Durò così tre giorni: tre giorni d’agonia. Non si mosse né parlò più. Rimase come l’avevano distesa sul letto, cogli occhi spalancati, tremando sempre, e un rantolo affannoso nella gola. Soltanto all’alba del terzo giorno mi fece capire cogli occhi che voleva le volgessi il capo verso la finestra, e quando vide il cielo, gli occhi le si riempirono di lagrime.60