• Non ci sono risultati.

CAPITOLO IV: PRIMA MORIRE DI MARIA ANTONIETTA TORRIANI

1. INFORMAZIONI BIOGRAFICHE

Maria Antonietta Torriani nacque a Novara il primo gennaio del 1840 da genitori piccolo borghesi, ma non ebbe una gioventù facile poiché perse il padre quando aveva solo un anno, e la famiglia rimase in condizioni economiche disagiate. Dopo questo lutto la Torriani, con la madre e la sorellina di tre anni, convissero con la nonna e le tre sorelle del padre. Probabilmente per questioni di carattere pratico la madre, Carolina Imperatori, si risposò nel 1847 con un chimico a sua volta vedovo, da cui ebbe un figlio, Tommaso. Dopo pochi anni anche la madre venne meno, e quando anche il patrigno morì, come d’uso all’epoca, il figlio maschio venne nominato erede universale dei beni familiari; alle figlie femmine invece venne assegnato un legato di 4500 lire, su un patrimonio totale di 105.000 lire. Benché la cifra potesse sembrare esigua, risultò comunque provvidenziale per la scrittrice, fu sufficiente per permetterle di abbandonare la vita monotona della provincia e trasferirsi a Milano, dove entrò in contatto con un ambiente dinamico ed emancipazionista, e di inserirsi proficuamente nella professione di giornalista, che sentiva più affine a lei rispetto alla carriera di

insegnante, per la quale aveva conseguito il diploma nel 1866. La scrittrice dunque pone le basi della sua attività come scrittrice e giornalista intorno

agli anni settanta dell’Ottocento, un periodo positivo soprattutto per la produzione al femminile, poiché è in questo periodo che le donne italiane cominciano a scrivere e leggere in massa; si diffonde maggiormente l’istruzione e molte donne trovano lavoro come maestre, dando vita a quella che Antonia Arsalan, nel suo libro sulla scrittura femminile italiana dal titolo Dame, galline e regine. La scrittura femminile italiana fra

‘800 e ‘900, pubblicato nel 1998, definisce «galassia sommersa». Le donne di

quest’epoca hanno una visione estremamente moderna di giornalismo, assumendosi il compito di diffondere il più possibile la cultura. Ciò che spesso accade oggi è la tendenza a considerare la produzione femminile come qualcosa di svincolato e indipendente rispetto a quella maschile, che tanto ebbe successo; questo messaggio errato è veicolato in primis da un numero considerevole di antologie di letteratura, che tendono a definire una periodizzazione rigida e non corrispondente alla realtà storica

130

che spesso vede correnti letterarie diverse coesistere, come nel caso di Verismo e Decadentismo. Lo stesso principio vale per la produzione “femminile” e “maschile” ; è necessario ricostruire il tessuto dell’epoca tenendo in considerazione le reciproche influenze, conoscenze, amicizie, frequentazioni di salotti e discussioni letterarie. Verga, Capuana, Neera e la Torriani, per esempio, frequentavano lo stesso salotto, quello della Contessa Maffei a Milano, dove, tra le altre cose, leggevano e discutevano di Zola. La diffusione della scrittura femminile in questo periodo fu possibile perché la cultura italiana dopo l’unità non si basò solo sul classicismo, il purismo e sulla scrittura tradizionale, ma si adattò alla nascita di una nazione unita, facendo i conti con un pubblico che si moltiplicava e cresceva su base nazionale. Questo favorì un’evoluzione della cultura verso la modernizzazione europea, soprattutto grazie alla nascita del giornalismo moderno; dalla lettura dei documenti dell’epoca risulta che la maggior parte degli scrittori fin da subito si sentirono italiani, e non più napoletani, o lombardi, poiché appunto tra loro si stabilì una fitta rete di comunicazioni. L’aspetto assolutamente innovativo che caratterizza le scrittrici postunitarie è la volontà di farsi comprendere, che le porta ad utilizzare una lingua scorrevole e quotidiana, sulla linea della modernizzazione linguistica in atto, che da molti veniva considerata “sciatta”. L’aspetto significativo da rilevare dunque è come negli anni postunitari, soprattutto tra il 1880-1890, un decennio chiave per la modernizzazione della scrittura italiana, spesso le storie letterarie eclissano il contributo dato dalle scrittrici allo sviluppo culturale, mettendo in luce solo la pubblicazioni dei capolavori della produzione “maschile”. Per esempio nel 1879 esce Giacinta, di Capuana, manifesto del Verismo italiano; come già accennato precedentemente, in quest’epoca Capuana, Federico De Roberto, Neera, la Torriani, Verga si conoscono e interagiscono attivamente tra di loro. Per esempio, in questi anni Capuana e Neera sono molto amici, si dedicano vicendevolmente le loro autobiografie, ed è quindi possibile che possano essersi influenzati a vicenda. Poi ancora nel 1881 c’è la pubblicazione dei Malavoglia e nel 1889 quella del Piacere; generalmente nei manuali queste sono le opere che vengono messe in rilievo, ma negli anni che si frappongono tra le date sopracitate vengono pubblicati alcuni romanzi fondamentali di mano femminile: nel 1885 viene pubblicato Un matrimonio in

131

provincia, tra il 1886 e il 1889 la trilogia della donna giovane di Neera (Teresa, Lydia, L’indomani) e nello stesso decennio anche Matilde Serao pubblica alcune delle sue

opere più interessanti. Dopo aver inquadrato il periodo storico in cui si trova ad operare la Torriani e tornando

alla sue prime produzioni è bene definire le sue iniziali collaborazioni; le prime testate giornalistiche con cui collaborò furono «Il Passatempo. Letture mensili per le famiglie», una rivista torinese di stampo moderato, con cui la scrittrice collaborò per un decennio, e un’altra rivista dedicata alla condizione delle donne: «La Donna», di stampo molto più radicale, fondato nel 1868 a Padova dalla mazziniana Gualberta Alaide Beccari. Dunque si tratta di un caso di doppia appartenenza giornalistica, per cui la scrittrice si trovava a dover far convivere due anime diverse: da un lato la rivista piemontese, moderata, e patrocinata dalla regina Margherita in persona, e dall’altra una rivista molto più radicale, che meglio si affiliava alla grande amicizia che legò la giovane giornalista ad Anna Maria Mozzoni, grande figura dell’emancipazionismo milanese; a queste due attività se ne aggiunse poi una terza, ovvero la sua aspirazione letteraria. «Il Passatempo», poi divenuto «Giornale delle donne», si caratterizzò per un’ambizione di leggibilità, e per questo introdusse una rubrica di moda, che venne affidata alla Torriani, e poi ancora romanzi a puntate, poesie, racconti e recensioni letterarie. La politica del giornale era quella di far leggere alle donne la produzione letteraria italiana, per distoglierle da quella francese, esercitando quella che è stata definita una forma di “misogallismo”, volta a mantenere una certa indipendenza rispetto agli ideali francesi. Di certo gli interventi più emancipazionisti sono stati realizzati e pubblicati su «La Donna», come nel caso delle colonne che furono dedicate dal giornale al resoconto dell’inaugurazione di una scuola superiore femminile a Milano. In questa occasione la scrittrice pronunciò un discorso a difesa dell’idea di un insegnamento ambizioso per le donne, che le togliesse da una condizione di presunta inferiorità e le ponesse allo stesso livello degli uomini. Non fu questo il primo tentativo di allargare l’insegnamento anche alla sfera femminile, poiché in collaborazione con la già citata Anna Maria Mozzoni, promossero il progetto dell’apertura di un liceo femminile, iniziando con un ciclo di lezioni pubbliche; il progetto fallì a causa

132

dell’opposizione di larga parte dell’opinione pubblica ma significativo resta in questo ambito il discorso di inaugurazione del liceo Agnesi fatto della scrittrice, di cui si ripropone un estratto della parte conclusiva:

Dio creò moralmente uguali l’uomo e la donna e ne fece due compagni. L’opera di una società imperiosa ed ingiusta ha chiamato l’uno alla luce condannando l’altra alle tenebre; e poi disse all’uomo: «Tu che sai, reggi». Ed alla donna: «Tu che non sai, obbedisci ed ignora». Osiamo dunque risvegliare l’intelligenza della donna diseredata; riduciamola ancora la vera eguale, la vera compagna dell’uomo; rifacciamo l’opera di Dio. Affrontiamo con coraggio la guerra codarda di qualche oscurantista oppositore. Non curiamo il loro biasimo, le loro calunnie; le generazioni future, per cui avremo sudato tutta la vita, se non ci encomieranno pei nostri successi, benediranno le nostre intenzioni.1

Oltre a questo progetto, Torriani collaborò con la Mozzoni anche alla realizzazione di un circolo di conferenze che le condussero in diverse città italiane, tra cui Genova, Firenze, Bologna e Parma. La stessa Torriani fornì un resoconto dettagliato di questa esperienza nell’articolo Dietro le scene, pubblicato a puntate nel 1871 su «Passatempo»; delle conferenze diede però solo brevi cenni, curando maggiormente la parte letteraria, umana e mondana. È sempre sulle colonne del periodico torinese che la Torriani risponde ad un attacco da parte di un avversario dell’istruzione superiore femminile, convinto dell’intelligenza inferiore delle donne; è il primo articolo apertamente polemico della scrittrice, che in questa occasione adopera anche per la prima volta l’arma del riso e dell’ironia, che caratterizzerà poi gran parte della sua produzione. Firmandosi in modo antifrastico «collaboratrice di sesso inferiore», finge di supportare la tesi del suo avversario, ma dimostrando così una competenza superiore a quella supposta dallo stesso. In questo primo periodo della sua produzione la Torriani però si occupa in gran parte anche di scritti di moda, che furono la sua fonte di reddito più regolare durante i primi anni; principalmente le sue produzioni mondane furono affidate alla rivista il «Passatempo», perché appunto aveva l’obiettivo di ampliare il ventaglio di lettori; la Torriani, che in questo caso sembra in

1 Maria Teresa Cometto, La Marchesa Colombi a Milano e Torino: i salotti letterari e la vecchiaia

discreta, in La Marchesa Colombi: una scrittrice e il suo tempo, Atti del convegno internazionale, Novara 26 maggio 2000, Interlinea, Novara, 2001, p. 82

133

controtendenza con i suoi scritti più militanti di stampo mazziniano, cercò comunque di allargare il quadro delle sue cronache ed estenderle ai temi dell’attualità politica e culturale. Una produzione che la predispose poi alla realizzazione del suo galateo, La

gente per bene, pubblicato nel 1877. Maria Antonietta Torriani è però nota anche con lo pesudonimo di La Marchesa

Colombi; l’adozione di questo nome risale ad un intervento dell’agosto del 1875 pubblicato nel «Giornale delle donne» e portato alla luce da Emmanuelle Genevois, che in Bibliographie des œvres della Marchesa Colombi Maria Antonietta Torriani

-Amelia Lorrit- Torelli-Viollier, pubblicato in «Chroniques Italiennes» nel 1996, illustra

come i primi anni siano stati contrassegnati dall’incertezza: inizialmente infatti la scrittrice si firmava con il nome proprio; a partire dal 1875 usò contemporaneamente gli pseudonimi di Amelia Lorrit e di La Marchesa Colombi, che poi rimase definitivo, ad eccezione di alcuni articoli del «Corriere della Sera» laddove si firmava La moda. In

effetti il ricorso allo pseudonimo era una pratica molto diffusa nel secondo Ottocento. Il caso della Marchesa Colombi è complesso poiché lei fu una grande sostenitrice

dell’autolegittimazione, oltre ad avere una poetica saldamente ancorata al principio della coincidenza tra mondo interiore e sfera esteriore. Molti dei personaggi dei suoi romanzi infatti hanno dei nomi legati al loro destino per cui il nome, come parola che denomina una persona e le conferisce esistenza, è indissolubilmente legato al destino della persona stessa. Per questo motivo la scelta dello pseudonimo si configura come una scelta programmatica. Nel suo caso la scrittrice si attribuisce le caratteristiche del Marchese Colombi, fortunato personaggio della commedia di Paolo Ferrari, La satira e

Parini del 1856. Oltre all’attribuzione di uno pseudonimo, l’autrice volutamente falsa

ulteriormente i suoi dati personali, confondendo il lettore; nella presentazione che la Torriani fa di sé nell’Introduzione alla Gente per bene del 1877, dà delle informazioni anagrafiche che disorientando anche i suoi biografi, dichiarando:

Le mie gentili lettrici, e i gentili lettori- dato che vi sieno dei lettori pel mio libriccino, e che sieno gentili,- debbono avere la compiacenza di tornare colla mente alla presentazione che l’illustre commediografo Paolo Ferrari fece loro di me, Marchesa Colombi, in una serata ch’egli dedicò a Parini ed alla satira. Si ricordano l’epoca di quella presentazione? Fu poco dopo la pubblicazione del Mattino di Parini, fatta, come ognuno sa nel 1763. Io ero

134

giovane, giovanissima allora, sposa da poco tempo. Non avevo che diciassette anni; non uno di più. Ma, se ai diciassette che avevo allora, aggiungo i centotredici che sono trascorsi, non posso a meno di riconoscere che la mia fede di nascita deve attribuirmi la venerabile età di 130 anni.2

L’identificazione con l’effettivo personaggio della commedia del Ferrari permette alla Torriani contemporaneamente di presentarsi come moglie e madre, e dunque personaggio tanto minore da non avere nemmeno diritto di presentazione nella prefazione scritta della commedia, ma nello stesso tempo le permette di rifarsi al marito, e dunque, evocandolo, attribuirsi anche le caratteristiche che lui assume nella commedia, descritte minuziosamente dall’autore. Egli infatti viene dipinto come sciocco ed ignorante, per cui l’autrice, con lo pseudonimo che si sceglie, non solo è moglie e madre, condizione già degradante, ma è anche ignorante; a queste condizioni si aggiunge anche il fatto che il personaggio del Marchese Colombi si caratterizza per una disposizione comico-ironica, che in questo caso attribuisce validità e legittimità ad uno dei tratti peculiari della scrittura della Torriani, cioè appunto la vena ironica. Per legittimare comunque la sua voce e il suo punto di vista adotta lo stratagemma di attribuirsi 130 anni e così facendo si pone, implicitamente, allo stesso livello dei suoi “giudici” di genere maschile benché non esiti, sempre in tono esplicitamente ironico, a sottolineare come nelle sue intenzioni non c’è assolutamente quella di insegnare agli uomini qualcosa; ella infatti dichiara:

io non ho la menoma intenzione di dare degl’insegnamenti agli uomini sul modo di vivere. Figurarsi! So bene che nel riparto dei doni della Provvidenza, l’intelligenza è toccata tutta a loro. Dunque, io non ho punto, ma punto la presunzione di voler insegnar loro la menoma cosa. Soltanto, perché riconosco ed ammetto l’inferiorità e la debolezza del mio sesso, li prego a voler modificare, per compiacenza verso di noi, la larghezza delle loro idee.3

Dunque alla rivisitazione del mondo maschile in chiave umoristico-ironica si associa la finzione dell’anzianità, che oltre a metterla sullo stesso piano degli uomini le conferisce

2Marchesa Colombi, La Gente per bene. Leggi di convenienza sociale., «Giornale delle donne», Torino, 1877, p.1

135

inviolabilità e indipendenza. Questo le permette di acquisire un’autorità speciale e una supremazia che le appartengono intrinsecamente e indipendentemente dalle leggi della società; la finzione della vecchiaia viene utilizzata dalla Marchesa Colombi quando lo strumento ironico non risulta essere efficace, come quando tratta il tema delle scrittrici donne, forse troppo vicino alla sua esperienza personale per poterlo trattare in chiave parodica. La finzione della vecchiaia crea anche altre possibilità, che permettono all’autrice di creare un’ambiguità tra la persona reale che scrive e quella che finge di essere nella scrittura; data la sua veneranda età di 130 anni, la Marchesa si permette di avanzare proposte che riguardano la modifica degli usi sociali, sostenendo che certi erano già stati superati nei tempi lontani della sua giovinezza. La Torriani dunque, nella scelta del suo pseudonimo, secondo quanto affermato anche da Lucienne Kroha nel suo saggio La Marchesa Colombi: la scrittura come trasgressione

nell’opera di una narratrice dell’Ottocento, pubblicato in Esperienze letterarie nel 1988,

opera un incrocio tra genere maschile e femminile, poiché sceglie un nome femminile che rinvia però ad un personaggio maschile, sostenendo che se la donna insiste ad assumere caratteristiche maschili, è solo per sembrare sciocca. Oltre a queste giocose falsificazioni biografiche è bene ricordare che anche la vera data di nascita della scrittrice è stata riportata erroneamente per molto tempo nelle sue biografie; secondo quanto affermato dalla scrittrice stessa nell’Introduzione a Gente per bene, aveva 17 anni nel 1763 e quindi, aggiungendovi i 113 trascorsi, si ottiene il 1876, ovvero l’anno di pubblicazione del galateo. Questo significa che nella finzione sarebbe nata nel 1746; tutti i biografi allora riportano come data di nascita reale il 1846, dando l’idea di aver semplicemente aggiornato di un secolo la data di nascita fittizia. La Marchesa non si è preoccupata di correggere l’errore dei suoi biografi, ma anzi lo confermò facendo apparire la stessa data nel suo certificato di matrimonio. La rettifica della data di nascita corretta è avvenuta solo in tempi recenti, come viene ribadito anche da Giuliana Morandini nella prefazione a Prima Morire:

136

Il ritrovamento dei documenti presso l’Archivio di Stato di Novara delinea con precisione gli anni novaresi. Antonietta Torriani nasce a Novara il 1° gennaio 1840 (e non 1846) da Luigi e Carolina Imperatori.4

I primi romanzi dell’autrice propongono tratti della vita affettiva della donna per cui il susseguirsi di emozioni, amori, passioni costituiscono la materia seria e non frivola di questi testi; accanto alle tematiche di evasione frizzante e altoborghese si intrecciano tematiche più serie come l’educazione sbagliata delle ragazze, il matrimonio e l’amore. Lo sviluppo di queste tematiche si collega ad un’altra caratteristica di questi primi romanzi, ovvero la problematica sociale della condizione della donna; il romanzo si innesta sulla realtà sociale per cui la marchesa frivola e superficiale viene sostituita dalla figlia della nuova borghesia, che si rende indipendente grazie alle proprie capacità e al proprio lavoro. Il percorso iniziale della Torriani quindi si innesta perfettamente nella società letteraria del tempo, per cui l’attività giornalistica risultava fondamentale. Grazie alla collaborazione con «Donna» conoscerà l’aspetto più ideologico del giornalismo mentre il «Passatempo» sarà per lei una forma di apprendistato professionale ma condizionante. Già in questa prima fase numerosi sono gli spunti che rimandano alla sua vicenda personale, alla precarietà economica degli esordi, al valore dato all’amicizia e alla fondamentale solitudine, soprattutto collocati negli spazi delle “soglie” del testo: nelle dediche, negli scambi epistolari e nelle corrispondenze. Il vero punto di svolta della sua carriera si ha però con la conoscenza, che poi divenne collaborazione e infine matrimonio, con Eugenio Torelli-Viollier, con cui fondò il «Corriere della Sera», nel 1876, nel quale ebbe uno spazio personale dal titolo Lettera aperta alle signore, dove si firmava La moda; la presenza nel quotidiano di una colonna dedicata alla moda era indicativo della strategia adottata da Torelli-Viollier a favore dell’introduzione di contenuti miscellanei per favorire l’interesse di un pubblico più variegato. Sicuramente l’apertura del giornale a contenuti diversi, dalla cronaca mondana alle recensioni letterarie, aveva favorito da un lato l’accesso alla professione giornalistica di diverse scrittrici, e dall’altro aveva attratto un numero sempre maggiore di lettrici. Nonostante anche in questa occasione

137

si dedichi alla stesura di articoli sulla moda e frivolezze, la peculiare vena polemica della Torriani riemerge sempre nel tentativo di espandersi al di fuori dei limiti contenutistici riservati al suo spazio. Molto frequenti dunque sono le critiche velate, anche se le problematiche sociali non sono mai espresse con sufficiente impatto, perché la scrittrice rimane sempre consapevole dello spazio che le viene affidato. Vengono utilizzate anche altre modalità di divagazione dalla tematica mondana, nobilitando la descrizione vestimentaria con riferimenti culturali, oppure corredandola di elementi emotivi che potrebbero richiamare l’idea di ciò che è caldo, confortevole e avvolgente. Da un punto di vista linguistico la Torriani padroneggia il lessico della moda in maniera impeccabile, introducendo correttamente termini stranieri e anche in latino; l’interesse per la dimensione del vestire si ritrova anche nei romanzi, laddove

l’abito diventa strumento della consapevolezza di sé. Fin dai suoi primi scritti, anche se in modo discontinuo, la Marchesa cerca di riprodurre

la dimensione della realtà quotidiana, estranea alle dinamiche delle eccezioni rarissime, inseguendo un principio di verità che si concretizza nell’armoniosa corrispondenza tra interiorità ed esteriorità e tra vita ed arte. La fusione di bellezza, arte e virtù si incarna nella donna, interprete dell’aspirazione alla virtù, la cui bellezza