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CAPITOLO IV: PRIMA MORIRE DI MARIA ANTONIETTA TORRIANI

2. INFLUENZE LETTERARIE NELLA NARRATIVA DELLA MARCHESA COLOMBI

La produzione della Torriani si configura dunque come un crocevia di tendenze diversificate, dai romanzi di consumo, agli articoli modaioli sul «Corriere della Sera», ma non rinunciò mai a mettere in luce gli aspetti più scomodi e brutali dell’esistenza. Questa volontà di porre in primo piano la condizione della donna, che ovviamente sente molto vicina alla sua esperienza personale di scrittrice, oppure il tema del lavoro femminile, si mescola ad una letteratura di intrattenimento che ha alla base però la volontà di distogliere le giovani menti delle sue lettrici dalle seduzioni romantiche tratte da una letteratura tesa a fomentare i pregiudizi. L’obiettivo della Marchesa è quello di demistificare l’amore da romanzo attraverso il disincanto, attraverso una sorta di educazione sentimentale che non è mai invadente; per esempio, nella prefazione alla raccolta Senz’amore, l’autrice dichiara:

Ho voluto alludere alla tristezza, alla solitudine, all’abbandono sconsolante di molte esistenze, sulle quali la grande passione che nacque con Adamo e che morrà soltanto coll’ultimo uomo, se pure morrà, non ha sparso le sue grandi commozioni, le sue gioie vive ed i suoi vivi colori.6

Dunque la Torriani costruisce un ventaglio di figure femminili che si allontanano da quelle topiche della tradizione, e che, pur non arrivando ad esiti di libertà totale, mostrano altre risorse a cui la donna può attingere. L’intenzione è quella di sostituire

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alle passioni da romanzo, dei sentimenti più pacati, introducendo anche principi di moralismo laico e di buon senso. Nel caso del romanzo Prima morire, la figura femminile, Eva, si allontana sensibilmente dalle donne operose degli altri romanzi, e rappresenta in toto la donna borghese che cerca uno svago dalla noia della sua vita nella lettura di romanzi sentimentali. Le figure femminili di questo genere si immedesimano nel romanzo e si lasciano avviluppare dal pathos del racconto, travisando così la realtà; si realizza un fenomeno di straniamento dal mondo con una perfetta sovrapposizione alle eroine dei romanzi. È quello che appunto accade ad Eva, che vede nella relazione con l’artista Augusto Cato una trasposizione sul piano della vita reale delle sue fantasie romantiche, ma che si scontra inevitabilmente con la

prosaicità della vita, sancendo definitivamente l’impossibilità della sua realizzazione. Dunque nel complesso la produzione della Torriani si configura come una vasta

panoramica sul mondo femminile, di cui è una strenua paladina; è soprattutto la solitudine e la mancanza d’amore ad accomunare queste donne, da Nanna, Speranza, di estrazione sociale bassa, fino all’alto-borghese Eva. I ritratti di queste donne che vengono forniti dall’autrice sono estremamente autentici e ben integrati nel contesto sociale, ma non possono essere definiti veristi. La Torriani non aderì mai con testi teorici alle scuole letterarie, ma subì certamente l’influenza di alcune di esse; non solo il romanzo lombardo dell’Ottocento, il Naturalismo di Emile Zola e il Realismo, ma anche la Scapigliatura, e in parte venne influenzata anche dall’Impressionismo, soprattutto per quanto riguarda le descrizioni dei paesaggi. Per quanto riguarda l’influenza del Verismo nella produzione dell’autrice, è ben noto che la Marchesa ebbe il piacere di conoscere Verga e di intrattenere con lui uno scambio epistolare; inizialmente la corrispondenza verghiana era anche con il marito, ma proseguì dopo la morte di lui, come dimostrato dalla riscoperta di una lettera del 9 marzo 1889 in cui commenta Il marito di Elena. Data l’importanza che la scrittrice attribuisce alla dimensione sociale e alla sua volontà di rappresentare le problematiche insite nelle condizioni di vita femminile, è inevitabile riconoscere alcuni tratti della poetica verista nella sua opera. Il primo approccio a questa poetica avviene con In risaia, del 1878, e poi con la già citata raccolta Senz’amore, che raccoglie

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racconti pubblicati sui periodici tra il 1880 e il 1882. Nel secondo caso la consapevolezza della nuova poetica che aveva preso piede in Italia è più spiccata rispetto al primo romanzo (ricordiamo che i Malavoglia vengono pubblicati nel 1881). La stessa autrice nella prefazione della raccolta parla di ‘studi dal vero’ e concentra la sua attenzione, e dunque l’applicazione in parte dei precetti del verismo, soprattutto sulla dinamica sociale. La riflessione sull’organizzazione sociale sembra essere centrale in tutta la raccolta, attraverso le storie che raccontano le miserie dei contadini della Brianza, (Nell’azzurro,

Le briciole d’Epulone), lo squallore dell’esistenza della piccola borghesia (Le affittacamere, Vite squallide) oppure ancora l’infelicità di chi si è fatto prete per

esigenze economiche (Senz’amore). Dunque con questa raccolta la Marchesa Colombi dà il suo contributo all’analisi delle piaghe dell’Italia postunitaria e alla poetica verista. Per questo rinuncia a mettere in scena i quadretti mondani dei suoi racconti di intrattenimento degli esordi e rivolge la sua attenzione alle classi subalterne, al sottoproletariato, ai contadini e più in generale alle condizioni dei subalterni e alle vicende di degradazione. Forse ispirandosi al Verga di Fantasticheria la Marchesa fornisce un’immagine anti idillica dell’ “Arcadia contadina” della Brianza nel racconto

Nell’azzurro, attraverso l’esperienza di una signora milanese che, influenzata da una

visione idillica del mondo contadino, trova un panorama completamene diverso da quello che si sarebbe aspettata: dietro il presunto “azzurro” del titolo del racconto la protagonista infatti scopre la malaria e la generale insalubrità dell’ambiente, combinata al dramma dell’alta mortalità infantile. La scrittrice fornisce uno spaccato della vita cittadina di cui viene messo in luce il sottobosco umano, attraverso la rappresentazione di tutte quelle persone che lavorano nelle retrovie dei ristoranti alla moda di Milano, e che si affannano a preparare i pranzi dei ricchi. Viene alla luce un intero panorama di persone, dal conduttore del carro del ghiaccio, al trovatello, alla lavandaia, la filatrice a cui viene data dignità narrativa; frequenti nella raccolta sono gli accenni alle malattie come tisi, vaiolo, epilessia, mali spesso provocati da carenze alimentari che colpiscono e deformano soprattutto i personaggi femminili. L’analisi condotta da Emmanuelle Genevois nel suo saggio L’esperienza verista nell’opera della

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Marchesa Colombi, pubblicato nella raccolta di saggi With a pen in her hand. Women and writing in Italy in the Nineteenth Century and Beyond nel 2000, riscontra molti

echi veristi e nello specifico tributi alla produzione verghiana nel racconto Fede: la protagonista, Cecchina, è lavandaia, barcaiola, filatrice, nella casa di un professore filosofo, e oltre ad essere vittima di un padrone avaro, è anche moglie di un uomo infedele, che verrà assassinato e le lascerà dunque i figli da crescere in solitudine. Dopo la morte del marito Cecchina dovrà anche vedere il figlio partire per la leva e la figlia morire di tisi. Vengono riscontrati qui riferimenti sia a Vita dei campi, che era stato pubblicato tre anni prima, e poi ancora echi della Nedda, soprattutto nel travaglio doloroso della protagonista femminile, e dei Malavoglia, nella vicenda del figlio che parte per la leva militare. Oltretutto si può intravedere anche un tentativo di mettere in atto la narrativa impersonale, punto cardine della poetica verista, affidando la narrazione ad un locutore popolare, ma l’effetto non è all’altezza dei capolavori verghiani, come invece riuscirà a fare in Cara Speranza, una delle sue ultime opere di matrice verista. Nel racconto, più riuscito del precedente, Psicologia comparata, la scrittrice mette a confronto l’esistenza di una gallina rinchiusa in una gabbia per l’ingrassamento meccanico e quella di Teresa, una giovane merlettaia chiusa in una soffitta; dopo aver descritto in modo preciso, naturalistico, le condizioni dell’allevamento industriale, passa alla rappresentazione della vita della protagonista, costretta a lavorare incessantemente per le signore che la pagano miseramente. Qui la Marchesa riprende il parallelismo, che già era stato operato dal Verga, tra l’esistenza di una donna relegata forzatamente in un ambiente e un volatile privo di libertà, entrambe condizioni innaturali. Nel caso della protagonista del racconto della Torriani però si tratta di una lavoratrice sfruttata, mentre nel racconto del Verga il tema era quello delle monacazioni forzate. Ancora più evoluto risulta essere il racconto Vite

squallide, che dipinge l’esistenza di due vecchie signore, Rosa e Caterina, che vivono in

un’unica stanza dove si sono dovute ritirare a causa di problemi finanziari. In un primo momento viene descritto il lavoro estenuante che sono costrette a sostenere per ripagare il prete dell’alloggio concesso loro, ma poi, sfrattate anche da lui, sono vittime del fallimento di una banca e costrette a lavorare anche in vecchiaia. L’autrice è molto

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abile nella descrizione puntuale delle loro condizioni di vita, ma nello stesso tempo della solidarietà e del decoro che le caratterizza. Ancora una volta quindi viene dipinta la miseria delle classi sociali povere, unita a un’attenzione particolare alla condizione femminile, che viene trattata in questo caso senza alcun apporto patetico o lacrimoso, evidenziando unicamente da un lato la laboriosità delle due donne, ma dall’altro la frustrazione di una vita senza gioie e senz’amore, appunto. Dunque l’attenzione per il vero, che caratterizza una buona parte della produzione della Torriani, denuncia la volontà di affrontare i problemi sociali, ma si rivela essere una forma più blanda di verismo, se si mette a confronto con quello più neutrale e penetrante del Verga. Quello della Colombi è uno sguardo non così profondamente acuto, che cerca un

compromesso tra l’analisi dal vero e la sua posizione ideologica. La sua vicenda personale la porta ad avvicinarsi anche all’ambiente scapigliato, grazie

alla conoscenza della produzione di Igino Ugo Tarchetti, amico del marito Eugenio Torelli-Viollier. Anche in questo caso l’autrice mantiene una posizione moderata, non partecipando al maledettismo scapigliato, verso cui mostra anzi una vena polemica, dichiarando:

Eviteremo pure i deliri di quella poesia che per togliersi dalle vie battute, per desiderio di fare cose nuove […] si smarrisce in un sentiero falso, si fa a descrivere il brutto, lo sconcio, lo stravagante, volendo ad ogni costo cantare idee e cose prosastiche, che traduce in rima ma non riesce a tradurre in poesia.7

Nonostante questo, condivide in tutto e per tutto il disagio e l’irrequietezza generata dalla realtà sociale e riflette in alcuni suoi testi la sua idea di esistenza segnata dal dolore e dalla morte. Secondo l’analisi condotta da Ermenegilda Pierobon nel suo saggio Pazzia, amore, morte: spunti scapigliati nell’opera della Marchesa Colombi, pubblicato nel 1992 e contenuto nella rivista «Otto/Novecento», alla radice di questa adesione, seppur limitata, si può ravvisare il desiderio di verità attraverso la rottura dell’ordine precostituito, punto cardine dell’attività degli scapigliati. Dunque l’autrice

7 Discorso di prolusione letto dalla signorina Maria Antonietta Torriani alla Scuola Superiore femminile in

Milano, La donna, n.147, 5 febbraio 1871, p.588, si legge in: Ermenegilda Pierobon, Pazzia, amore, morte: spunti scapigliati nell’opera della Marchesa Colombi, in «Otto/Novecento, XVI, 1, 1992, p.159

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anche in questo caso ricerca un’adesione al vero, come è stato analizzato precedentemente per quanto riguarda gli influssi veristi, ma con strumenti differenti, sebbene sempre negli stessi anni. Per esempio, nel racconto Cavar sangue da un muro, pubblicato nel 1878 (si ricorda che i racconti che compongono la raccolta Senz’amore furono pubblicati tra il 1880 e il 1882), la vita del protagonista, Gian Maria, si caratterizza per una continua contrapposizione di luce ed ombra, che scandisce i diversi momenti della sua vita; questa opposizione di luce e buio, tipicamente scapigliata, ritorna frequentemente nei testi dell’autrice e si accompagna, per esempio, alla predilezione per la gamma di colori scialbi con cui spesso dipinge paesaggi nebbiosi, come accade anche in Prima morire, in occasione del fugace viaggio dei due amanti a Lugano. Chiaramente questi colori riflettono la pesantezza, il monotono grigione di un reale chiuso e soffocante e sempre uguale nella sua prosaicità. Tornando al racconto, il protagonista, dopo aver vissuto un’infanzia felice e dopo la morte dei genitori, inizia la sua discesa verso le tenebre; la morte nel testo è incarnata nella crudeltà e nell’egoismo dell’uomo, e assume le sembianze di un macellaio, una professione che faceva orrore a Gian Maria, che però non può evitare che diventi suo genero. Da questo momento in poi il calvario del protagonista non avrà fine, poiché sarà il macellaio a provocare la morte della figlia, invecchiata prima del tempo, per poi essere affiancato dall’arrivo di un altro macellaio, suo amico, e di una terza figura di macellaio. Quest’ultima è una donna, Teresa, donna avida, egoista ed ipocrita; il punto più infimo della sua cattiveria viene raggiunto quando preferisce dare un boccone di cibo al suo cane, Similoro, piuttosto che a Gian Maria, ormai vecchio e non in grado di provvedere al suo mantenimento. Il cane è per tutto il tempo circondato a sua volta da un’aura negativa, associato alla morte e agli inferi e non a caso di colore nero; anche il nome Similoro, cioè oro finto, contribuisce al delineamento del suo valore simbolico. Tutti questi personaggi, legati al sangue, rappresentano l’egoismo e l’ingordigia dell’uomo, pronto a sacrificare qualsiasi valore umano per il denaro. Di fronte a questo trionfo di avidità Gian Maria impazzisce e nel giorno di Natale decide di vendicarsi, mantenendo la linea macabra e sanguinolenta

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che caratterizza l’intero testo: uccide Similoro murandolo nella parete.8 L’uso del macabro mette in evidenze le incongruenze della realtà sociale, poiché l’uccisione di Similoro viene recepita come una barbarie mentre le angherie a cui viene sottoposto Gian Maria per tutta la durata del racconto non vengono prese in considerazione da nessuno degli altri personaggi. Il protagonista si definisce attraverso una semplicità quasi disarmante, è un personaggio del tutto nella norma, l’unico in grado di mantenere una mente sana ed equilibrata, oltre al rispetto per i valori umani; è proprio questa “normalità” che fa in modo che le storture della società e la disumanità del sistema socio-economico emergano in maniera così ingigantita. La normalità del protagonista attribuisce un valore intenso anche alla sua pazzia, perché a differenza degli eroi tarchettiani, che fin da subito si caratterizzano per la loro eccezionalità, si origina partendo da una condizione assolutamente normale ed è determinata esclusivamente dai fattori esterni della società. Successivamente, da questo punto l’attenzione dell’autrice si sposta ad indagare l’interiorità dell’individuo; il male è inizialmente prodotto dalla società degenerata (Cavar sangue dal muro), per poi riflettersi, come nel racconto I morti parlano, nella perdita di autenticità della dimensione umana. Da qui l’autrice fa un ulteriore passo avanti nella sua riflessione sulla dimensione dell’irrazionale ed arriva alla consapevolezza di come l’inconscio possa essere una risorsa preziosa, un serbatoio di energie primarie. Permane però una parte dell’uomo che risulta essere indomabile, una zona oscura che determina e acuisce la dualità reale-ideale. Emblematico di questa evoluzione della riflessione dell’autrice è Teste alate, che risente in modo significativo di suggestioni tarchettiane, e in particolar modo di Fosca. L’esito ultimo è però diverso, poiché mentre in Fosca la vicenda è condotta lungo la direttrice dell’attrazione-repulsione nei confronti della morte, in Teste alate è la vita che nonostante tutto cerca di affermare sé stessa, secondo la poetica dell’autrice volta ad individuare uno spiraglio di positività. Lo sdoppiamento del personaggio invece è modellato alla maniera di Clara e Fosca; la vicenda del protagonista è scandita dall’ossessiva visione di

8 È forse qui riconoscibile una reminiscenza del racconto di Edgar Allan Poe, Il gatto nero; anche il protagonista infatti mura la moglie in una parete e con sua enorme sorpresa ritrova nello stesso luogo anche il gatto.

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due teste alate che corrispondono a Clelia e Vittoria. Gustavo, un pittore, conosce prima Clelia Moris, «pallida, dolce, incarnazione dell’ideale e della poesia»9 , che gli ispira immediatamente un amore intenso, ma di breve durata poiché la ragazza, già malata di tisi, non reggerà al tradimento di Gustavo. Dopo la morte di Clelia, Gustavo si appassiona ancora di più alla sua arte e ben presto si consola della perdita della donna amata e dimentica il tradimento; la ragazza è però destinata a tornare nella sua vita sotto le spoglie di un’altra donna, Vittoria, la sorella di Clelia, che idealmente si pone come vendicatrice dell’ingiustizia subita dalla sorella. Di temperamento opposto, Vittoria è una donna dinamica, schietta, espansiva, ama l’arte ed è un’attrice di successo; anche in questo caso l’amore tra i due è inevitabile. Quando Gustavo si rende conto della parentela che lega le due donne della sua vita, il senso di colpa inizia a logorarlo al punto tale da trasformarsi in una malattia fisica, determinata da una responsabilità individuale che non gli lascia scampo. Viene ripresa dunque la figura dell’eroe-artista tarchettiano, ma nella sua completa negazione, poiché egli appare come una costruzione fittizia ed innaturale, ovvero, nonostante rappresenti la figura dell’artista, come un prodotto della società che ha perso i contatti con quella dimensione primigenia che rappresenterebbe l’autenticità dell’uomo. La follia a cui lo conduce la consapevolezza di ciò che aveva compiuto in passato lo porta ad odiare anche la sua arte, da sempre simbolo per eccellenza della virtù, ed è ossessionato dalle teste alate delle due donne. Nel momento in cui Gustavo decide di confessare a Vittoria la verità, lei è implacabile nel suo giudizio e i due si separano. Solo successivamente la donna arriverà alla consapevolezza che l’anima dell’uomo è fallace per natura, e che la capacità del perdono è l’unica forza in grado di sconfiggere il male; l’antitesi anima-corpo, luce-ombra, risulta però irriducibile, poiché l’indulgenza, la capacità di perdonare, non è facilmente realizzabile, benché venga considerata come meta da raggiungere.

9 Ermenegilda Pierobon, Pazzia, amore, morte: spunti scapigliati nell’opera della Marchesa Colombi, in «Otto/Novecento», XVI, 1, 1992, p. 153

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