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CAPITOLO III: STORIA DI UNA CAPINERA DI GIOVANNI VERGA

1. LA STORIA EDITORIALE E LE FONTI

1.1 Le fonti letterarie e autobiografiche

Storia di una capinera è il primo romanzo che Verga scrisse nell’ambiente fiorentino e

rappresenta anche il primo passo deciso verso una lingua omogenea, che si modella sulla parlata in uso a Firenze e che fa capo al manzonismo diffuso tra i letterati che Verga frequentò in città. Egli cercò cioè, sulla scorta del grande esempio manzoniano, di epurare il testo da provincialismi o dialettismi; il podere, per esempio, dove la famiglia della Capinera aveva cercato rifugio, era governato da un massaro ma a questo termine “paesano” Verga preferì castaldo anche se, nel contempo, in alcune situazioni predilesse ancora i termini aulici e ricercati piuttosto che quelli più comuni e diffusi: ritroviamo ancora ascondersi in luogo di nascondersi, lampane invece che

lampade, cotidiano invece che quotidiano. La produzione letteraria verghiana che

precede la Capinera consta di quattro romanzi: Amore e patria (1856-57), I carbonari

della montagna (1861-62), Sulle lagune (1862-63), Una peccatrice (1866), tutti scritti a

Catania e contraddistinti da una scoperta adesione a fonti letterarie precise: il primo è un romanzo storico-amoroso ambientato al tempo della rivoluzione americana, il secondo è un romanzo storico, per definizione dell’autore, in cui si mescolano forme, stili e suggestioni diverse, dal romanzo patriottico al romanzo galante, e in cui si riconoscono elementi tratti da Walter Scott, Dumas padre e i riferimenti ai maestri catanesi di Verga, Antonino Abate e Domenico Castorina, alla descrizione del semplice mondo della campagna e dei campagnoli, secondo la linea “rusticale” del periodo.

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Anche Sulle Lagune, di genere amoroso-politico, mostra le stesse suggestioni e gli stessi spunti dei testi precedenti, mantenendo anche la stessa dimensione caotica; sarà con Una peccatrice che Verga farà un passo avanti, grazie alla circoscrizione precisa di

un genere, verso una materia narrativa più fusa e compatta.

Storia di una capinera dunque si inserisce a questo punto e, come già anticipato, è il

frutto di una nuova fase della vita di Verga, quella del soggiorno fiorentino; De Roberto sostiene che questo romanzo fu concepito durante una passeggiata lungo l’Arno, durante un momento di intensa nostalgia, quando Verga ideò la possibilità di trattare il tema delle monacazioni forzate. La novità introdotta da Storia di una capinera consiste nel fatto che questa tematica venga fortemente sicilianizzata, assecondando l’esigenza dell’autore che volle condannare il residuo di un’usanza che, sebbene avesse ricevuto un duro colpo dalla legge del 18679, stentava a scomparire, specialmente in Sicilia. Il tema delle monacazioni forzate ebbe un grande successo dopo le produzioni di Diderot con la Religieuse, di Grossi con l’Ildegonda, di Manzoni con i Promessi Sposi. La protagonista della Religieuse, Suzanne Simonin, nata da una relazione adulterina della madre è costretta all’esperienza del convento, e ne compie un’analisi lucida ed asciutta da cui risulta una condanna radicale del sistema; questo romanzo assume le caratteristiche di un pamphlet sociale e di ricerca filosofica sulla libertà dell’individuo. Altrettanto totale e coerente è la figura manzoniana di Gertrude, nella tragicità di una scelta che la condanna ad essere “peccatrice” attraverso un’educazione che inasprisce ogni cosa che in lei era buona e spontanea. Ma come già osservava Giacomo De Benedetti: «Diderot, grande raccontatore tutto intelligenza, e Manzoni, grandissimo poeta, non avevano avuto bisogno dell’amore per rendere i loro personaggi ostili al chiostro, consapevoli di essere negati alla vocazione monastica»10; questo significa che Maria, protagonista del romanzo di Verga, non possiede lo stesso spessore psicologico degli altri protagonisti di romanzi che trattano lo stesso tema o abbiano la stessa forma

narrativa, cioè il romanzo epistolare. A queste già numerose fonti letterarie si aggiungono i romanzi sia di Dall’Ongaro che di

9 La legge di soppressione delle corporazioni religiose

10 Giacomo Debenedetti, Verso la necessità di scrivere, in Verga e il Naturalismo, Garzanti, Milano 1978, p.121

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Caterina Percoto11, che avevano suscitato grande scalpore, e che sicuramente avevano avuto grande influenza su Verga, considerando che la scrittrice friulana era in stretti rapporti con il protettore fiorentino dell’autore, il già citato Francesco Dall’Ongaro (Fraile Cati, la protagonista del racconto La coltrice nuziale infatti prende i voti

monacali onde evitare di sposare un giovane austriaco). I racconti di Dall’Ongaro sono caratterizzati da una riquadratura moraleggiante:

problemi come la religiosità autentica di contro all’ipocrisia religiosa, la libertà politica e di pensiero di contro all’oppressione e alla schiavitù, la semplicità della gente di campagna opposta al vizio e alla degradazione morale di quella di città. Questi elementi sono delineati all’interno del panorama della realtà dei ceti più umili, all’interno della quale emergono due poli intorno ai quali si ricompongono i sentimenti buoni e costruttivi del cuore umano: la natura e l’amore. Caterina Percoto invece risente in maniera più profonda della lezione del Manzoni, che non è presente come semplice reminiscenza, ma determina più a fondo l’impostazione dei suoi racconti; ci sono infatti delle risonanze sia a livello tematico, nell’adozione come soggetti delle classi più umili e delle loro esperienze come l’amore, il dolore, la miseria, il lavoro, sia a livello linguistico, nell’adozione di una lingua popolare e del dialetto, cifra che rimanda al bilinguismo della scrittrice. Con la Capinera Verga risente decisamente di questi modelli, poiché abbandona gli scenari di balli lussuosi, feste e ritrovi mondani per adottare come protagonista una fanciulla semplice, che, ingenuamente innamorata, è costretta a farsi monaca; in questo caso sintomatiche sono le analogie con il racconto già citato La coltrice nuziale, ma anche con La Schiarnete, entrambe opere dell’autrice friulana. La sensibilità verghiana è dunque più vicina ai personaggi percotiani, e aldilà delle riprese puntuali e frequenti, Verga sembra accogliere lo spirito con cui la scrittrice friulana tratta un tema che le sta a cuore per averlo conosciuto direttamente,

essendo stata a contatto con la realtà del convento. Tra tutte queste fonti letterarie, a cui è doveroso aggiungere anche I misteri del

11 Caterina Percoto (Manzano, 12 febbraio 1812 – Udine, 15 agosto 1887), è stata una scrittrice e poetessa italiana. Nata in una famiglia benestante, dopo la morte del padre fu mandata nell’Educandato di Santa Chiara e da questo periodo nacque in lei la forte avversione per l’educazione monacale, tema che difese per tutta la vita.

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chiostro napoletano di Enrichetta Caracciolo, se la sensibilità è da associarsi ai racconti

della Percoto, è però innegabile una profonda derivazione dal capolavoro manzoniano dei Promessi Sposi, e nello specifico dalla vicenda di Gertrude, la Monaca di Monza. Nell’analisi condotta da Salvatore Rossi nel saggio Il rifiuto della capinera pubblicato in «Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti» nel 1972, emergono chiaramente i punti di tangenza e le divergenze tra la vicenda di Maria e quella del suo modello. Per quanto riguarda la prima fase, ovvero gli eventi che precedono la monacazione, si assiste ad una quasi sostanziale identità nella trattazione degli episodi, se si esclude la questione relativa al personaggio che si prende la responsabilità del destino delle sventurate protagoniste. Nel caso di Gertrude la “colpa” è da attribuirsi al padre, mentre nel caso di Maria alla matrigna, di cui il padre risulta succube; questa sostituzione non è però casuale ma è dettata dalla necessità di giustificare la trama. Conseguentemente al fatto che l’ambientazione del romanzo era collocata nella Sicilia del 1854 e dunque i personaggi da aristocratici diventavano borghesi, alle ragioni di casta incarnate dal principe-padre dovevano essere sostituite le ragioni economiche. Per questo motivo all’autore doveva essere sembrato poco credibile un padre impiegato o commerciante che sacrificasse la figlia al chiostro per assicurare una tranquillità economica, per cui preferì l’impostazione tradizionale e favolistica della matrigna cattiva e del padre debole e sottomesso. A queste prime considerazioni possono aggiungersene altre di carattere più generale, come la questione legata all’oggettività e soggettività con cui sono trattate le vicende; nel caso di Manzoni egli rimane fedele alla poetica dell’oggettività e inserisce la vicenda di Gertrude in un contesto più ampio e dinamico, che coinvolge altri personaggi, per cui il destino della monaca ricade anche su di loro, in una fitta rete di condizionamenti. Verga, invece, si allontana da una varietà manifesta nella prima parte per concentrarsi esclusivamente sulla protagonista nella seconda, secondo un impulso già in parte manifestato dalla scelta della forma del romanzo epistolare, che, come già illustrato per il caso dell’Ortis, soprattutto nella struttura monologica, costringe alla catalizzazione verso il protagonista. Le divergenze si possono cogliere in parte anche nella chiusura della vicenda delle due protagoniste: se la vicenda di Gertrude è la storia di un’anima che

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conduce fino alle estreme conseguenze del peccato il rifiuto dei falsi valori che le avevano instillato, dalle ceneri delle proprie illusioni la Capinera non ricostruisce nulla di positivo. La ricorrente invocazione a Dio di Maria risuona come vuota ed ella oscilla in continuazione tra la percezione della colpa e la nascosta, profonda consapevolezza di non avere nulla da rimproverarsi:

Il mio peccato è mostruoso, è vero; ma sento che nella mia sventura c’è qualche cosa che è più colpevole di me stessa… […] Non so più pregare Dio perché non oso più levare la fronte verso di Lui!... Dio mio! Che ho fatto? Che ho fatto io mai. Ma che colpa ci ho io?12

In questo modo l’opera di Verga si sarebbe inserita nella tradizione romantico- realistica più alta; per questo motivo ci sono dei riferimenti anche al Foscolo ortisiano, sia per quanto riguarda lo schema del romanzo epistolare che per la descrizione della campagna nella prima parte del romanzo. Anche in Maria c’è qualcosa di ortisiano, nell’enfasi espressiva e nell’esagitazione sentimentale, seppur non con la stessa

profondità psicologica e le stesse sfaccettature. A questi molteplici riferimenti letterari si aggiungono anche i riferimenti e le

esperienze autobiografici; Verga infatti conosceva la vita del chiostro per averne sentito parlare dai suoi stessi familiari: la zia, donna Rosalia Verga, era monaca del convento di San Sebastiano a Vizzini, l’altra zia, donna Francesca, aveva preso il velo a Palermo mentre zia Vanna e la madre, Caterina di Mauro, erano state educate in convento. Il convento di Santa Chiara, uno dei più antichi di Catania, si trovava quasi di fronte alla casa dei Verga e aveva attirato l’attenzione dell’autore per le strane storie che venivano raccontate a riguardo, tra le quali anche quella dell’esistenza di una “cella della pazza”, che in effetti ritorna anche nel romanzo. Inoltre, per avere un quadro il più dettagliato possibile su come dovesse essere la vita all’interno del monastero, Verga si affidò ad una sua amica, destinata ad un educandato laico, perché gli riferisse l’effetto prodotto su di lei dalla nuova vita di quel mondo nuovo, con il risultato che appunto Maria molte volte pensa ed agisce come farebbe una vera educanda. Inoltre è sempre De Roberto, nel già citato saggio Storia della Storia di una

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capinera, a mettere in evidenza altri elementi autobiografici che Verga riversa nel suo

romanzo. Per esempio durante l’epidemia di colera che si abbatté su Catania nel 1867 la famiglia Verga si trasferì a Battiati, il primo villaggio sulla via dell’Etna, dove possedevano una villetta; quando però il morbo invase anche quel territorio la famiglia si spostò più in alto, a Trecastagni, un villaggio che si situa sul culmine di un promontorio. Qui, nonostante l’imperversare della malattia, il paesaggio era idilliaco e il giovane Verga si recava spesso a cavallo ai piedi del grosso cratere dove sorgeva fra le altre la villa di una famiglia ospitale, molto amica dei Verga: i Perrotta. Il giovane dunque si recava da loro ogni giorno e in quel contesto amicale insieme scordavano le disgrazie portate dalla pestilenza. Lo stesso accadde anni prima, nelle due estati del 1854 e del 1855, quando la famiglia Verga abbandonò la città durante il contagio asiatico che li aveva costretti a rifugiarsi nella terra di Tèbidi, fra Vizzini e Licodia; anche qui tutti i vicini si raccoglievano per reagire alla pestilenza e durante una delle sue passeggiate un Verga quindicenne conobbe una fanciulla, ancora con il costume delle educande con il quale la famiglia l’aveva tratta dalla badia vizzinese di San Sebastiano. Finché durò l’epidemia i due ragazzi si frequentarono assiduamente e Verga se ne invaghì, ma una volta terminata, la famiglia Verga ritornò a Catania e la giovane ritornò al monastero dove però l’autore la vide ancora nelle occasioni in cui andava a fare visita a donna Rosalia Verga. L’unione di queste esperienze autobiografiche è riscontrabile in parte nella vicenda del romanzo.