Se qualcuno si ponesse il problema di misurare la Customer Satisfaction nelle aziende Sanitarie potrebbe anche capire il fallimento di circa venti anni di inutile formazione.
Da sempre le Organizzazioni si dibattono tra la “camicia di forza burocratica” di Weber e la “legge di ferro dell’oligarchia” di Michels.
Questi due famosi sociologi, forse più di ogni altro, sono stati capaci di fotografare comportamenti e caratteristiche dell’Organizzazione finalizzate a combinare il raggiungimento di un risultato con forme sottili di sfruttamento.
Si continua a parlare della Legge 626, si aggiornano i suoi aspetti fondamentali, si discute di organizzazione aziendale e di modernizzazione, delle novità nello sviluppo formativo (povero Edgar Morin) e si dimentica che la maggior parte dei rischi a cui i lavoratori sono soggetti vengono permessi dalla legge e considerati “aspetti inevitabili” mentre si continuano a piangere gli stessi inevitabili morti.
E’ storicamente provato che le imprese multinazionali riescono a derubare delle loro risorse e della forza lavoro i paesi che le ospitano e le Aziende Ospedaliere possono essere paragonate ad un qualsiasi “territorio di caccia” in cui le multinazionali fanno aumentare la dipendenza nei confronti della loro presenza elargendo piccoli “cadeaux” (regali) anche in formazione.
Non ricordiamo nessun evento pseudo-scientifico che non possa citare sponsor eccellenti, e che figurano tra quelli che hanno aumentato spaventosamente il buco nero della spesa sanitaria, nonostante la legge vieti il “diretto interessamento” citando il conflitto di interessi. Le Organizzazioni, pur presentandosi come un insieme di persone con obiettivi condivisi e in grado di soddisfare gli interessi di tutti, sono molto lontane dalla realtà rappresentando una ideologia di dominio e/o di controllo.
Nessuna di esse si pone interrogativi al di fuori dell’attività formale in cui c’è chi pensa di avere il diritto di governare e chi sopporta il dovere di ubbidire.
Burocratizzazione e razionalizzazione sono paradigmi pericolosi che trascurano i veri interessi e il necessario benessere delle masse a favore di gruppi limitati di individui che
Ho fatto tanta di quella formazione che adesso non riesco a capire quale carta giocare ..!...
che prevalga la nostra dipendenza dall’amministrazione, dalle norme, dalle leggi non scritte di partiti e organizzazioni sindacali, da una errata interpretazione tra costi e benefici.
La nostra struttura, la nostra Azienda è una Ab (Abridgement – Compendio di opere) cioè un crocevia dove affluiscono tecnologie avanzate e gli utilizzatori delle stesse tecnologie quali i clienti e le risorse umane che con esse operano.
Gli interrogativi che si rincorrono, quindi, sono sulle caratteristiche dell’ambiente, sulle funzioni critiche in relazione alla capacità di sopravvivenza della struttura in cui si opera, sulle sfide possibili, sulla capacità di razionalizzare il patrimonio culturale (laddove esiste) delle risorse umane, sul controllo degli interessi economici speculativi, ecc.
La “formazione continua”, da concretizzare per tutto il periodo della propria esistenza, non è altro che un misero pretesto per defiscalizzare gli interventi in formazione, per incrementare le casse degli istituti universitari, allocare risorse finanziarie verso siti sconosciuti, misurare la sola efficienza produttiva senza alcuna valenza strategica.
Nel 1984 era Boldizzoni a parlare di “formazione apparente” cioè priva della capacità di incidere nei reali processi di lavoro evidenziando le tesi di Pascale e Athos (1982) di due anni prima che già si chiedevano quali potevano essere le condizioni affinché una “formazione” fosse in grado di produrre anche apprendimento.
C’è una sconnessione tra una bella attività formativa in aula, che tende a consolidare gli schemi cognitivi esistenti, e una realtà quotidiana che non si riconosce in comportamenti teorici sullo sviluppo organizzativo pur sopportando costi sproporzionati.
In virtù di ciò preferiamo accontentarci del peggio o, meglio, ci aggrappiamo alla politica “del meno peggio” in cui un protocollo, piuttosto che capirlo, aspettiamo che ci venga suggerito da qualcuno per applicarlo “secondo una falsa coscienza” e scaricando le responsabilità ad altri; lasciamo che un medico faccia 12 ore di guardia per 7 giorni di fila e lo lasciamo lamentare vicino al “muro del pianto”, che tutti conosciamo. senza spiegargli che non è importante stare 12 ore di guardia ma ciò che al paziente serve è come si fanno le 12 ore di guardia (e non vuole sapere, il paziente, che lui è disposto a dare il culo per una carriera che, forse, non vedrà mai dovendosi accontentare di fare il “medico di una delle tante ex mutue”).
Noi siamo il paese del falso.
Abbiamo la capacità di distruggere tutto e, per farlo, spendiamo cifre da capogiro.
Non ci rendiamo conto che, essendo fatti male, ogni elezione politica ci porta nuove iatture perché noi stessi ufficializziamo i nostri mali vantando di avere dato un voto a quel bel simbolo “del meno peggio”.
Così la necessaria “formazione apparente”, non solo professionale ma anche di vita, diventa un lungo elenco di orrori e nefandezze sullo stile di Peppe Grillo: accettare l’indulto, arricciare il naso e votare parlamentari inquisiti, barcamenarsi sugli inceneritori, essere orgogliosi di un debito pubblico di 1630 miliardi di euro, lottare per il precariato e i lavori interinali, credere alle fesserie di una informazione imbavagliata, votare con una legge elettorale incostituzionale, vivere in una regione bellissima, come la Campania, travestita da Chernobyl.
In quindici anni di continua “formazione apparente” anche il nostro cervello si è formato sul meno peggio, tanto il peggio, prima o poi, dovrà pur fermarsi.
La forza di una vera formazione non può fermarsi al crollo dell’Alitalia, alla sofisticazione delle mozzarelle e del vino, all’invasione della spazzatura che restano, anche se con fondamentali distinzioni, l’inciucio politico dei partiti maggiori e delle multinazionali a loro collegate o, meglio, il fulcro del “Comitato d’Affari”.
Per anni l’unica domanda è stata quale potevano essere le condizioni affinché la formazione potesse produrre apprendimento e, nella risposta tutta italiana, si sono lanciati un po’ tutti (dall’Università ai Sindacati) mobilitando l’utilizzo delle risorse per la formazione pattuite a livello contrattuale (finanche i Fondi Interprofessionali) sia in ambito pubblico che privato
mettendo da parte il principio fondamentale di ogni formazione che resta legato all’influenza della struttura dell’Azienda e dell’ambiente esterno in quanto risultante di realtà storiche, strutturali e culturali di una comunità.
Queste implicazioni, in grado di produrre sviluppo formativo reale, richiedono che si esca dai vincoli autoreferenziali delle strutture formative e che si rimuovano gli ostacoli che impediscono agli utenti di essere al centro dei processi di formazione.
Non si riuscirà ad esercitare nessun diritto a garanzia dell’avvenuta formazione né alcuna verifica sulla soddisfazione del processo di produzione del servizio se non abbiamo ben chiaro che occorre conoscere e condividere gli esiti attesi della formazione, occorre garantire che la formazione erogata avrà il valore dichiarato, occorre costruire il processo formativo sulle necessità dell’utenza (risorse umane/clienti), occorre analizzare gli esiti del processo formativo come impatto del valore atteso.
“In alcuni contesti, come nell’ambito dei concorsi pubblici, ci sono Titoli di Studio che hanno “valore legale” ovvero permettono l’accesso a determinati posti o garantiscono un certo punteggio per la carriera professionale, mentre in altri contesti lo stesso titolo di studio non viene riconosciuto se non per le competenze che ha permesso di acquisire. Queste competenze, tuttavia, non hanno un “valore in assoluto” ma relativo al mercato specifico in cui si collocano. Non siamo di fronte alla presentazione di documenti attestanti la titolarità della competenza, ma all’attribuzione di valore tramite l’esercizio della stessa.”
( Aurelio Iori).
Una formazione costruita “ad hoc”, anche se mediata, non può passare per evidenti e madornali “errori di percorso” come sottolinea una nota del Ministero di marzo 2008 ed inviata alle Università per fronteggiare le anomalie dilaganti della formazione “fatta comodamente al computer”.
Il percorso accademico prevede passaggi necessari e inevitabili dove, alla base di tutto, vi è il possesso del Diploma quinquennale di Scuola Media Superiore. Ma quanti ne sono in possesso tra coloro che vantano “titoli” poco meritati?
La formazione, specie la formazione dedicata e in settori delicati, richiede competenze specifiche e seria legittimazione, percorsi costruiti nel tempo ed elasticità di analisi, valutazioni immediate e soluzioni mirate. Ma chi è in possesso di questo tipo di formazione? Il “pateracchio” non può durare in eterno.
Nella logica aziendale dopo l’esplosione delle novità e l’accaparramento dei titoli e dei “posti di comodo” falsamente messi a concorso vi è, inevitabilmente, l’implosione di situazioni non governabili solamente con il continuo sperpero di denaro pubblico.
Come disse il famoso poeta (Stanislaw J. Lec), “taluni escono di scena quando esauriscono le parole scritte da altri” per cui l’albero della saggezza si siede ad aspettare tempi migliori.
Quei tempi in cui il fenomeno organizzativo riesca, finalmente, a ricomporsi in un fenomeno culturale capace di comprendere l’ambiente sociale e di rispettare le figure che nell’organizzazione operano in funzione dei “bisogni” dell’individuo e del necessario sviluppo organizzativo attualmente frenato da ruberie continue e volgari mercificazioni spacciate per solidarietà professionale, sviluppo tecnologico, sofferta e meritata riqualificazione, programmazione futura.
Se attualmente nutriamo molti dubbi sui nostri interlocutori, di sicuro viviamo delle certezze sui nostri comportamenti giustificati dai risultati ottenuti.