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LA VERITA’ CHE NESSUNO VUOLE SENTIRE

Nel documento Le riflessioni di Ciro (pagine 73-75)

Quando i primi emigranti si affacciarono sulle coste americane non sapevano neppure in quale paese stessero andando.

Chi, tra loro, ebbe la fortuna di avere un punto di riferimento si accorse, da subito, che la sua vita non sarebbe stata più la stessa.

Ma le speranze erano tante. Tra la gente stipata sulle navi bestiame, e strette tra le valigie di cartone e panni sparsi alla rinfusa, si sentiva la puzza di sudore e il piangere dei bambini che cercava di allontanare le vecchie cantilene dei nonni e i ricordi sbiaditi in bianco e nero. Alla nostalgia per gli affetti abbandonati sulle spiagge del Sud o sotto il sole dei campi, al dolore sempre crescente per i volti che non avrebbero più rivisto si accompagnava la certezza di essere partiti poveri ma ricchi di dignità e voglia di fare, che in tanti li avrebbero ringraziati per essere stati partecipi di grossi cambiamenti e stimolo per la nuova economia di una nazione con una costituzione che, invece di guardare al singolo popolo, guardava al mondo.

Chi arrivava nel porto di New York rimaneva affascinato dalla maestosità della Statua della Libertà (regalata dai francesi dopo la Guerra di Indipendenza) sotto la quale, gli americani, si erano affrettati a scrivere:

“Tenetevi il vostro patrimonio di storia, popoli antichi.

Datemi le vostre folle stanche, povere, oppresse, che anelano a respirare aria libera,

gli sciagurati respinti dalle vostre rive brulicanti. Mandatemi i senza patria

sballottati dalla tempesta.

Tengo alta la lampada accanto alla porta d’oro.”

Poche parole ma efficaci per staccarsi dall’Europa, definitivamente, e darsi l’alibi giusto per anni di schiavitù procacciata e accettata.

Le navi, provenienti da quasi tutte le nazioni del vecchio continente, arrivavano cariche della loro merce umana. Le navi si incrociavano nell’Oceano Atlantico lasciando scie spumeggianti e striate di sangue, cadaveri abbandonati al disgusto dei pesci e antiche litanie affidate al vento.

Boston, New York, Filadelfia, Baltimora, Washington, Richmond, Norfolk, Portsmouth, Orlando vedevano arrivare migliaia di persone con gli occhi pieni di lacrime e desideri da realizzare; persone che nessuno voleva ma che tutti cercavano pronti a rispondere a tono alle promesse di illusione costruite sulla pelle degli Indiani d’America, di chi difendeva il diritto di morire dove era nato, di vedere la propria sposa raccogliere erbe medicinali o fare il bagno nelle fresche acque del ruscello senza il pericolo di essere violentata, di crescere un figlio per farne un cacciatore e non un guerriero, di bearsi della vista di immense mandrie di bufali e cavalli selvatici, di essere libero di adorare e venerare Manitù e Wakantanga.

La gente arrivava, tanta, dall’Irlanda, Italia, Scozia, Francia, Cina, Messico, dalla Russia, Polonia, Ungheria, Turchia, gente dai tanti colori, dai mille dialetti che più che essere lingua erano brani musicali cantati per rabbia, per dispetto.

Dal 1800 al 1960 è stato un continuo dare dove, spesso, si confondeva “il cercare lavoro” con “l’avere lo schiavo di colore” dove, specie quando si parlava di socialità diffusa, era facile vedere il “negro” in catene e il cane passeggiare libero per la casa.

Subito dopo quegli anni (1980), approfittando di uno sceneggiato televisivo (L’eredità della Priora) nasce il grido di dolore più lacerante, in una composizione di Eugenio Bennato, per

riaffermare fin dove può spingersi l’uomo per mantenere viva la fiamma della libertà acquisita:

Femmene belle ca date lu core si lu brigante vulite salvà

nun ‘o cercate, scurdateve ‘o nome, chi ce fa guerra nun tene pietà. Ommo se nasce, brigante se more, ma fino all’ultimo avimma sparà e si murimmo, menate nu fiore e na bestemmia pé stà libertà.

Si cominciava a capire, a contare i morti che nessuno avrebbe pianto mai; qualcuno si accorgeva che gli emigranti erano ombre nella memoria di una nazione in cui si potrebbe tranquillamente dire “se Dio non c’è tutto è permesso” (Papa Benedetto XVI); qualcuno gridava forte, catturando i sentimenti in un brano musicale popolare, il sogno spezzato diventato amarezza senza fine.

Gli italiani erano tra i tanti morti delle miniere di carbone del Belgio, tra coloro che hanno reinventato la ristorazione inglese, tra chi ha permesso il funzionamento a pieno ritmo delle catene di montaggio e delle presse di Francia e Inghilterra, tra chi ha facilitato la ricostruzione post-bellica della Germania.

Oggi si guarda agli extracomunitari come rivalsa storica, con leggi speciali che minacciano anche le libertà individuali; sembra sentire i Cavalieri Crociati, lanciati al galoppo, ripetere più volte “Dio lo vuole” per avere la forza sufficiente a cancellare gran parte della loro stessa storia.

Nel frattempo il nostro Governo prepara il nuovo Decreto per la suddivisione delle quote di extracomunitari tra le ragioni italiane visto che la politica è diventata gossip per catturare facili voti e, poi, … gli affari sono affari.

Tutte le regioni avranno la loro manovalanza a basso costo, le piccole e medie fabbriche risparmieranno un po’ di soldi sui salari, le signore perbene potranno continuare a rompere le scatole ai ragazzi mulatti o cingalesi, le famiglie affettuose affideranno i genitori, i nonni o i figli a colf di colore (quanto è elegante!) o ragazze ucraine, i ristoranti potranno, finalmente, avere un lavapiatti che parla inglese.

E se qualcuno di questi extracomunitari, durante il viaggio della speranza, dovesse decidere di morire in mare o lasciarsi uccidere dai trafficanti di esseri umani (una volta erano chiamati schiavisti) pazienza: c’è sempre chi è pronto ad organizzare un altro barcone con posti pagati al pari di un viaggio in crociera.

Festa del 2 giugno: una fotografia sbiadita

Dal discorso del Presidente Ciampi per la Festa del 2002 leggiamo: “Il 2 giugno 1946 il popolo italiano scelse la Repubblica, la democrazia completando, con un gesto consapevole, le conquiste del Risorgimento. Pose fine a uno dei periodi più tormentati dell’Italia moderna. Oggi voi giovani potete guardare al futuro con chiarezza e serenità”.

Fu proprio il Presidente Ciampi, durante il governo Amato nell’anno 2000, ha ridare vigore a questa principale festa nazionale italiana precedentemente abolita per “risparmiare”.

E’ una festa in cui si vuole ricordare il referendum istituzionale indetto a suffragio universale il 2 e 3 giugno 1946 dove gli italiani furono chiamati a scegliere la forma di governo, monarchia o repubblica, che avrebbe dovuto governarli (ma, principalmente, garantirli) in futuro lasciando alle spalle le ultime tracce del regime fascista.

Con 12.718.641 voti contro 10.718.502 si abbandonavano 85 anni di regno e veniva sancito l’obbligo, per la casa Savoia, di abbandonare l’Italia.

Ci piace aggiungere che tale festa è conseguente alla celebrazione del 25 aprile come continuità storica di un cambiamento fortemente voluto e che riveste un’importanza al pari della Presa della Bastiglia (14 luglio francese) e della dichiarazione d’indipendenza americana (4 luglio statunitense).

Erano, anche, gli anni dove milioni di tessere fasciste si trasformarono, improvvisamente, in accaniti sostenitori dei partiti dell’arco costituzionale pronti ad essere rimessi in gioco come è accaduto con l’attuale governo.

Il trasformismo dei perdenti diventa la forza dei vincitori offendendo, continuamente, la semplicità di chi offriva l’unica cosa che aveva, come la vita, affinché i mezzi di produzione non avessero il sopravvento sugli uomini ma gli uomini fossero in grado di alzare la bandiera della loro dignità.

Nel documento Le riflessioni di Ciro (pagine 73-75)