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Professore ordinario di Diritto costituzionale Università degli Studi di Teramo

1. Formulazione della domanda e assunzione degli assiom

È sempre scientificamente doveroso esplicitare le premesse teoriche da cui si muove perché cambiando il punto di partenza cambia il punto di arrivo: date certe premesse il risultato è già determinato mentre, assumendo premesse diverse, muta inevitabilmente anche la nostra conclusione. A meno di incorrere in errori di calcolo – cioè della logica argomentativa – la scelta di valore dello studioso si consuma in buona parte nella “precomprensione”1 del fenomeno che si intende analizzare, in quella fase preliminare in cui

il problema viene “inquadrato” cioè viene deciso, non solo cosa analizzare, ma in che modo e da che premesse farlo.

Questa regola epistemologica è vera in ogni branca della ricerca scientifica ma è particolarmente rilevante per lo studioso del diritto. Le nostre particelle elementari sono “norme” e “rapporti giuridici” e la loro collocazione in sistema genera “status”, “persone”, “enti” e “ordinamenti”. Ciò significa che noi

1 Nell’ermeneutica, come è noto, spetta ad Heidegger, il merito di aver evidenziato la natura circolare del processo

interpretativo: l'interprete, che si accinge a comprendere un oggetto, è inevitabilmente condizionato da uno sfondo di giudizi antecedenti prodotti sia dalla tradizione culturale, sia dalla dottrina scientifica, sia dal suo personale orizzonte di attese. Quindi, nel momento in cui si accinge a comprendere, egli non è mai neutrale rispetto all’oggetto di indagine ma sempre influenzato dai giudizi preesistenti. (cfr. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Halle, 1927, trad. it. di P. Chiodi, Milano, 1970, par. 32). Anche per Gadamer ogni comprensione è interpretazione nel senso che comprendere è un atto che muove da una precomprensione dell’oggetto di indagine (H.G. GADAMER,

Verità e metodo, 1960-1965, trad. it. a cura di G. VATTIMO, Milano, 1990, p. 325). Sul piano epistemologico ciò

significa che la precomprensione, in quanto “costitutiva” di ogni processo ermeneutico, non può essere rimossa ma deve essere portata alla luce per farla rientrare nella comprensione scientifica e in tal modo neutralizzarla: “L’importante non sta nell’uscir fuori del circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta” (M. HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., pag. 240).

analizziamo oggetti - in buona parte - privi di consistenza materiale, impassibili di analisi strumentale, che per loro natura sfuggono al metodo sperimentale.

Quando anche abbiamo un oggetto fisico da analizzare – il “testo” di un provvedimento o una disposizione normativa – l’oggetto del nostro interesse non è l’analisi del fenomeno materiale in sé (grammaticale, sintattica, lessicale o grafologica) ma il passaggio dal mero testo al suo significato, dalla sequenza di parole all’idea (precettiva) che essa esprime.

Dobbiamo cioè interpretare quel testo e, per farlo, dobbiamo presupporre ed assumere in premessa un’enorme quantità di informazioni, non solo letterali ma anche politiche, sociali, culturali, tecniche oltre che giuridico-sistematiche. Per interpretare un testo giuridico noi dobbiamo porlo in relazione con l’intero contesto sociale in cui quel testo è stato generato ed è destinato ad avere vigenza. Per passare dal suono codificato nei simboli alfabetici al precetto giuridico dobbiamo presupporre il “mondo”, inteso come realtà sociale di riferimento.

Detto ciò è altrettanto evidente che questa enorme quantità di informazioni non può essere esplicitata ogni volta che uno studioso espone la propria teoria su una qualunque questione. Così come un fisico delle particelle dà per scontato il “modello standard”, un giurista presuppone il positivismo normativo; così come un medico non deve argomentare il rifiuto della teoria ippocratica degli umori, un giurista non deve perder tempo a confutare il giusnaturalismo.

In realtà la simmetria tra scienza giuridica e scienze naturali finisce presto perché, nonostante l’antichità della nostra disciplina, sono assai poche le nozioni consolidate e univocamente accettate. A volte le teorie che si ritenevano a ragione superate tornano in auge a distanza di decenni o secoli secondo il meccanismo tipico delle mode culturali e non certo dell’evoluzione scientifica. Ma questo discorso porterebbe lontano e ci fermiamo.

La soluzione del problema è di esplicitare in modo chiaro e sintetico: l’oggetto dell’analisi, ovvero le domande che il ricercatore pone a se stesso e a cui intende rispondere nonché le premesse teoriche più prossime delle questioni che si sono in tal modo definite.

Nel caso che ci riguarda l’oggetto attiene al fenomeno delle “mutazioni della sovranità” del quale intendiamo analizzare due questioni, la prima di natura teorico-descrittiva e la seconda di natura empirico- prescrittiva:

a) individuare e classificare tutte le possibili evoluzioni dell’ente statale rispetto al territorio, al popolo ed alla sovranità;

b) individuare nel diritto positivo (internazionale e nazionale) norme di riconoscimento capaci di qualificare in termini di legittimità/illegittimità le evoluzioni sub a).

Per quanto riguarda l’inquadramento delle questioni da esaminare è evidente che ci troviamo in una terra di confine tra diritto interno e diritto internazionale, tra la mera “descrizione” di fenomeni politici e la “prescrizione” della loro conformità ad un ordinamento di riferimento, tra la ricostruzione di mere regolarità fattuali oppure di parametri autenticamente normativi.

Per questa ulteriore e specifica ragione nel caso de quo è rilevante l’impostazione teorica di partenza e quindi, ad esempio, aderire al positivismo formalista di Hans Kelsen oppure alla teoria decisionista di Carl Shmitt, alla visione monistica oppure dualistica del rapporto fra diritto costituzionale e diritto internazionale.

Sarebbe però scientificamente insoddisfacente il generico richiamo ad una corrente di pensiero, ad una scuola o ad un autore perché ben sappiamo che ciascuno lo intenderebbe in modo diverso. Per dirla con Pirandello “Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!”2.

Pertanto, con l’intenzione di ridurre la soggettività interpretativa - per intenderci - mi limito ad esplicitare le premesse logicamente prossime ed antecedenti alle questioni da esaminare e cioè a porre alcune definizioni basilari.

Gli assiomi e cioè gli enunciati che, pur non dimostrati, assumo come veri sono i seguenti:

I) Lo “Stato” è la formazione sociale (popolo) organizzata da un ordinamento giuridico sovrano che dispone del monopolio della forza in un determinato spazio (territorio) e in un determinato tempo3.

II) Il “popolo” è l’insieme delle persone a cui l’ordinamento giuridico statale riconosce lo status di cittadino4.

III) Il “territorio” è la superficie del globo terrestre su cui un determinato Stato è in grado di imporre la vigenza del proprio ordinamento giuridico5.

2 L. PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d'autore, 1920.

3 La definizione non è incompatibile con la lezione tradizionale secondo cui lo stato è l’ente i cui elementi costitutivi

sono il popolo, il territorio e la sovranità. Tale definizione però pare insoddisfacente nella parte in cui lascia indeterminati e non definisce i rapporti tra gli elementi costitutivi nonché la diversa natura e rilevanza di ciascuno di essi.

4 Il popolo, insieme al territorio, forma l’elemento oggettivo o materiale dello stato mentre la sovranità ne

rappresenta l’elemento soggettivo.

5 E’ bene chiarire che la definizione assume il territorio come condizione di esistenza dello stato (il fatto che esso vi

eserciti un effettivo monopolio della forza) e come limite alla competenza dello stato (in quanto disciplinata dall’ordinamento). Com’è evidente si esclude dal significato del termine qualunque riferimento alla natura

IV) La “sovranità” è la capacità dell’ordinamento statale di prevalere su qualunque soggetto che fa parte del popolo o che si trova nel suo territorio (supremazia interna) e di rapportarsi in termini di parità e indipendenza con gli altri Stati (sovranità esterna)6.

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