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Professore ordinario di Diritto costituzionale Università degli Studi di Teramo

3. Qualificazione delle fattispecie

3.2 Norme di riconoscimento di diritto internazionale e il principio di autodeterminazione dei popol

Il secondo fronte da indagare è quello dell’ordinamento internazionale che, sul piano territoriale, è comprensivo dei diversi ordinamenti statali e dunque - in ipotesi - capace di porre regole vincolanti nell’ordine globale. Come è noto però il diritto internazionale non è un ordinamento degli ordinamenti nazionali, né è ad essi gerarchicamente sovraordinato, né prevede un’autorità normativa sovranazionale: esso consiste in un sistema di regole, poste per via consuetudinarie o pattizia, che si applicano ai circa 200 soggetti cui viene riconosciuta la qualità di Stato e che ne rappresentano la base sociale.

Il diritto internazionale non disciplina il modo di formazione e gli assetti organizzativi degli Stati ma si limita a prendere atto della loro esistenza: l’essere o il non essere uno Stato sovrano è una questione di fatto che viene risolta sulla base di una autoproclamazione e poi attraverso valutazioni di natura politica, storica, militare, geografica da parte dei rappresentanti degli altri Stati.

Non a caso la Carta delle Nazioni unite del 1945 non contiene una definizione di “Stato” ma la presuppone: “Possono diventare membri delle Nazioni unite tutti gli altri Stati amanti della pace che accettino gli obblighi del presente Statuto e che, a giudizio dell’Organizzazione, siano capaci di adempiere tali obblighi e disposti a farlo. L’ammissione quale membro delle Nazioni unite di uno Stato che adempia a tali condizioni è effettuata con decisione dell’Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza” (art. 4).

La personalità giuridica internazionale è il risultato di una “cooptazione” da parte degli altri Stati che però, nel riconoscere tale natura, non sono vincolati da norme giuridiche sostanziali – salvo il generico “essere amanti della pace” – ma solo da norme procedurali che regolano la fase dell’iniziativa e quella decisionale. Si tratta dunque di una decisione dichiarativa di qualcosa che esiste o non esiste a prescindere dal diritto internazionale e non certo costitutiva di tale condizione14.

Dunque è possibile affermare conclusivamente che la realtà dei rapporti fra ordine internazionale e ordini statali risponda ad una concezione dualista che li vede come indipendenti e separati piuttosto che ad un’utopica concezione monista in cui le loro interazioni sarebbero risolte ad unità dal primato del primo sui secondi15.

14 Peraltro il diritto internazionale ha progressivamente attribuito una limitata personalità giuridica anche ad enti e

organizzazioni, diversi dagli Stati, che perseguono fini riconosciuti dalla comunità internazionale: ne sono un esempio i movimenti di liberazione nazionale che abbiano un controllo effettivo sulla popolazione, cioè una sorta di “monopolio della forza” in formazione. Anche in questo caso ciò che rileva è il fatto di esercitare un potere assimilabile a quello degli Stati sovrani.

15 Nota è la polemica contro la concezione dualista che vide in Hans KELSEN il maggiore esponente, secondo il

quale qualunque atto, che ponga o meno delle norme, in contrasto rispetto al diritto internazionale, debba essere considerato contrario a quest’ultimo e, a seconda dei casi ritenuto nullo o inesistente (H. KELSEN, Il problema della

Non incrina tale conclusione l’eventuale esistenza, in ordinamenti nazionali, di norme di riconoscimento del diritto internazionale che, come il nostro art. 10 Cost., comportino l’adattamento automatico ad esso: rientra infatti nella sovranità di ciascuno Stato il potere di auto-vincolare la propria azione a parametri esterni all’ordinamento, come pure la facoltà di recidere in ogni momento tale vincolo o di derogarvi in casi particolari, ovviamente nel rispetto delle procedure di revisione costituzionale.

La seconda questione da approfondire, sempre sul fronte internazionale, è rappresentata dal principio di autodeterminazione dei popoli. L’espressione potrebbe evocare un potere - se non addirittura un dovere - di interferenza delle istituzioni internazionali nelle vicende statali ma tale precomprensione non pare corrispondere al significato espresso dalla Carta delle Nazioni unite, alle altre fonti sovranazionali ed a quello consolidato nella prassi internazionale.

Le origini del principio risalgono alle rivoluzioni liberali ed in particolare a quella americana e quella francese ma la prima evocazione testuale si legge nella Carta atlantica del 194116 ove, fra i principi

proclamati, è indicato come terzo il “rispetto del diritto di tutti i popoli di scegliere la forma di governo sotto cui desiderano vivere”. Il principio è poi richiamato nella Dichiarazione delle Nazioni unite sottoscritta da 26 Stati nell’anno successivo17.

Il principio viene poi adottato nel 1945 dallo Statuto delle Nazioni unite18 fra i “fini” dell’organizzazione:

“Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e della auto- determinazione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale” (art. 1, 2° comma). Il concetto di self-determination of peoples è poi espressamente nominato anche dal successivo art. 55 in tema di cooperazione economica e sociale19.

16 Il riferimento è alla ”Dichiarazione di principi”, sottoscritta dal Primo ministro del Regno Unito F. D. Churchill

e dal Presidente degli Stati Uniti d'America W. S. Roosevelt il 14 agosto 1941.

17 I rappresentanti degli Stati Uniti d'America, del Regno Unito di Gran Bretagna e d'Irlanda del Nord, dell'Unione

delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, della Cina, dell'Australia, del Belgio, del Canada, di Costa Rica, di Cuba, della Cecoslovacchia, della Repubblica Dominicana, del Salvador, della Grecia, del Guatemala, di Haiti, dell'Honduras, dell'India, del Lussemburgo, dei Paesi Bassi, della Nuova Zelanda, del Nicaragua, della Norvegia, del Panama, della Polonia, dell'Unione Sud-Africana, della Jugoslavia, il 1.1.1942 sottoscrissero l’adesione ai principii enunciati nella Carta atlantica.

18 Lo Statuto delle Nazioni unite (o Carta delle Nazioni unite) fu firmato a San Francisco il 26 giugno 1945 da 50

Stati ed entrò in vigore il 24 ottobre 1945, dopo la ratifica da parte dei 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e della maggioranza degli altri Stati firmatari. In base alle successive adesioni e ratifiche lo Statuto è oggi vigente fra tutti i paesi che fanno parte dell’ONU e cioè 193 Stati.

19 All’interno del Capitolo IX dedicato alla “Cooperazione internazionale economica e sociale”, l’art. 55 stabilisce

che: “Al fine di creare le condizioni di stabilità e di benessere che sono necessarie per avere rapporti pacifici ed amichevoli fra le nazioni,

basate sul rispetto del principio dell’uguaglianza dei diritti o dell’auto-determinazione dei popoli, le Nazioni Unite promuoveranno: a) un più elevato tenore di vita, il pieno impiego della mano d’opera, e condizioni di progresso e di sviluppo economico e sociale;

b) la soluzione dei problemi internazionali economici, sociali, sanitari e simili, e la collaborazione internazionale culturale ed educativa;

Infine nell’Atto finale di Helsinki del 197520 all’art. VIII si afferma che: “Gli Stati partecipanti rispettano

l'eguaglianza dei diritti dei popoli e il loro diritto

all'autodeterminazione” e che “In virtù del principio dell’eguaglianza dei diritti e dell'autodeterminazione dei popoli, tutti i popoli hanno sempre il diritto, in piena libertà, di stabilire quando e come desiderano il loro regime politico interno ed esterno, senza ingerenza esterna, e di perseguire come desiderano il loro sviluppo politico, economico, sociale e culturale”. Dopo aver individuato la base legale del principio di autodeterminazione dei popoli occorre esattamente comprendere quale sia il significato della disposizione ed estrarre le norme vigenti.

Il primo passo richiede di ampliare la base testuale visto che le stesse fonti di diritto internazionale citate proclamano anche un principio confliggente con quello di autodeterminazione dei popoli e cioè il “principio di integrità territoriale degli Stati”.

In particolare lo Statuto delle Nazioni, che all’art. 1 indica fra i “fini” il principio di autodeterminazione, nel successivo l’art. 2 afferma che gli Stati “nel perseguire i fini enunciati nell’articolo 1, devono agire in conformità ai seguenti princìpi” tra i quali il dovere di “astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”. Dunque il principio di autodeterminazione, già sul piano testuale, incontra un serio limite che impedisce di modificare il territorio statale al di fuori delle procedure previste dalla sua Costituzione: qualunque pretesa popolare deve essere incanalata nelle procedure di modifica territoriale previste dall’ordinamento statale.

In modo simile nell’Atto finale di Helsinki, all’art. IV, si legge che “Gli Stati partecipanti rispettano l’integrità territoriale di ciascuno degli Stati partecipanti. Di conseguenza, si astengono da qualsiasi azione incompatibile con i fini e i principi dello Statuto delle Nazioni Unite contro l’integrità territoriale, l'indipendenza politica o l’unità di qualsiasi Stato”. Anche in questo caso il territorio, quale elemento costitutivo dello Stato, è considerato inviolabile e indivisibile.

Il ridimensionamento della portata del principio di autodeterminazione trova fondamento, oltre che nella interpretazione sistematica delle fonti internazionali, anche nella natura stessa dell’ordinamento internazionale che è destinato a regolare i rapporti tra enti sovrani e non quelli fra uno Stato e il suo popolo. Spetta invece al diritto interno, anzitutto alla Costituzione, disciplinare il conflitto fra autorità e libertà, fra poteri dello Stato e diritti dei cittadini. Anche per questa seconda ragione – ordinamentale – il principio di autodeterminazione dei popoli è inidoneo a creare pretese e obblighi fra un ente sovrano e (una parte de) il suo popolo.

c) il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione”.

20 Il riferimento è all’Atto finale sottoscritto da 35 Stati il 1.8.1975 ad Helsinki nella Conferenza sulla Sicurezza e

In terzo luogo esiste una ulteriore ragione che, non solo conferma le conclusioni appena raggiunte, ma ontologicamente impedisce una interpretazione estensiva del principio, tale da legittimare sul piano interazionale una secessione realizzata senza rispettare le regole dell’ordinamento interno. Persino nel caso in cui, per mera ipotesi, venisse abrogato qualunque riconoscimento del principio di integrità territoriale degli Stati.

Il problema infatti è proprio nella formulazione letterale della disposizione. Affermare che “il popolo ha diritto di auto-determinarsi” è una affermazione incompleta poiché manca l’oggetto della determinazione. Su cosa il popolo deve essere libero di decidere? Sulla forma di governo, sull’elettività dei governanti o sull’esistenza stessa di quello Stato? Nonostante le disposizioni che esprimono il principio siano generiche perché omettono l’oggetto della decisione, la risposta può essere trovata proprio nel soggetto della frase: “il popolo”.

Il popolo, secondo quanto si è definito in premessa sub II), è “l’insieme delle persone a cui l’ordinamento giuridico statale riconosce lo status di cittadino”: dunque il popolo esiste in quanto ed in tanto esista lo Stato, il concetto di popolo presuppone uno Stato che riconosca a quelle persone i diritti e i doveri del cittadino. Fino a quando non entra in vigore un ordinamento che attribuisce, con effetto costitutivo, la qualifica di cittadino, il popolo in senso giuridico non esiste. E’ dunque lo Stato che, nella propria genesi, crea il popolo.

Allora la disposizione “il popolo ha diritto di auto-determinarsi”, anche se non ci dice quale sia l’oggetto della decisione, ci dice chi è il soggetto che ha il diritto di decidere: il popolo cioè l’intero popolo. Ciò significa che “una parte del popolo” non ha alcun diritto sulla base del principio di autodeterminazione e solo il popolo nel suo complesso può rivendicare una tale potere. Né può pensarsi che il termine “popolo” sia utilizzato come sinonimo di qualunque gruppo di persone che si autoproclama tale: per questa via si giungerebbe al paradosso di legittimare ogni secessione dallo Stato anche di una città, di un quartiere, anche di poche persone. Il principio diverrebbe un diritto alla frammentazione che disgregherebbe le premesse da cui parte e cioè: la vigenza degli ordinamenti giuridici statali e l’appartenenza coattiva dei cittadini alle comunità statali.

La conclusione che possiamo trarne è che il principio di autodeterminazione dei popoli incontra come limite assoluto il divieto di ingerenza all’interno di un ordinamento sovrano: quindi una “popolazione” non ha alcun diritto ad autodeterminarsi se tale decisione mette in discussione l’integrità del territorio dello Stato. Del resto sul piano applicativo, dal 1945 ad oggi, la comunità internazionale si è mostrata particolarmente riluttante nell’ammettere la secessione unilaterale di una parte di uno Stato indipendente

se alla secessione si opponeva il governo di quello Stato: più esattamente nessuno Stato sorto da una secessione unilaterale è stato ammesso nelle Nazioni Unite21.

La dottrina, per delimitare l’ambito del principio di autodeterminazione, è solita distinguere tra autodeterminazione interna ed esterna, Con l’autodeterminazione interna si intende il diritto del popolo di partecipare attraverso il meccanismo democratico al governo dello Stato e degli enti territoriali autonomi: in sostanza essa consiste nell’affermazione del principio democratico ai diversi livelli di governo e nel divieto di regimi dittatoriali. Come è agevole comprendere si tratta però di un principio importante ma che attiene al diritto interno ed alla materia costituzionale poiché riguarda la forma di stato e la forma di governo. Pertanto rientra nelle considerazioni già svolte nel paragrafo 3.1.

Invece con l’autodeterminazione esterna (in quanto consentita e riconosciuta dagli altri Stati) si intende il principio di diritto internazionale di cui stiamo discorrendo secondo il quale ciascun popolo ha il diritto di “vivere libero da qualsiasi tipo di oppressione, tanto interna che esterna, condizione questa prioritaria per il raggiungimento di relazioni amichevoli tra gli stati membri e per un progresso economico dei popoli fondato su una equa distribuzione delle risorse a livello sia internazionale che interno”22. Tale principio,

come si è visto, non è un diritto delle popolazioni e non ha portata generale poiché incontra il limite del principio di integrità territoriale degli Stati.

Ma in concreto quali sono le fattispecie nelle quali il principio di autodeterminazione così inteso viene applicato? E’ opportuno chiarire che – storicamente – il diritto all’autodeterminazione dei popoli è stato elaborato per dare una veste legale alla decolonizzazione dell’Africa e dell’Asia. Ed infatti, pur proclamato dalla Carta atlantica del 1941 e dallo Statuto dell’Onu del 1945, è solo con la Dichiarazione sull’indipendenza dei popoli coloniali del 196023 che il principio trova una precisa definizione con la

conseguenza di ammettere all'indipendenza ed alla sovranità nazionale oltre cinquanta territori fino ad allora dipendenti.

Nel preambolo della storica Dichiarazione si riconosce “l'appassionato desiderio di libertà di tutti i popoli dipendenti” e che “il processo di liberazione è irresistibile e irreversibile”; il risultato è di affermare apertamente “la necessità di porre rapidamente ed incondizionatamente fine al colonialismo in ogni sua forma ed in ogni sua manifestazione”. E’ molto significativo che, in questo documento, il principio di integrità territoriale venga richiamato, non per limitare il principio all’autodeterminazione, ma al contrario

21 J. CRAWFORD, The Creation of States in International Law, in Clarendon press, Oxford, 2006, p. 390.

22 La definizione è di F. Lattanzi, Autodeterminazione dei popoli, in Digesto delle discipline pubblicistiche, II, Torino, 1987,

pagg. 4-27. In senso analogo cfr. G. ARANGIO-RUIZ, Autodeterminazione (diritto dei popoli alla) in Enc. Giur., IV, Roma, 1988.

23 L’Assemblea generale delle Nazioni unite ha adottato all’unanimità il 14 dicembre 1960 la "Dichiarazione sulla

per rafforzarlo: “tutti i popoli hanno un diritto inalienabile alla piena libertà, all’esercizio della propria sovranità e all’integrità del loro territorio nazionale”.

Il principio di autodeterminazione viene così definito come il diritto di tutti i popoli di decidere liberamente del proprio statuto politico e di perseguire liberamente il proprio sviluppo economico, sociale e culturale. La conseguenza è l’impegno alla “fine di ogni azione armata e di ogni repressione, di qualsiasi specie, contro i popoli dipendenti, per consentire loro di esercitare in modo pacifico e libero il diritto alla completa indipendenza” e al “rispetto dell’integrità del loro territorio nazionale”24.

Come è palese la Dichiarazione sull’indipendenza dei popoli coloniali del 1960 – all’esito di un processo graduale lungamente contrastato dai paesi occidentali – opera sul concetto di “popolo” una ribaltamento semantico in base al quale vengono fatte rientrare tre fattispecie: la popolazione oggetto di dominazione coloniale, di occupazione straniera oppure e di segregazione razziale. Le tre fattispecie corrispondono dall’altro lato a condotte dei governanti che integrano altrettanti “crimini internazionali” in quanto azioni sistematiche e consapevoli di grave lesione dei diritti umani.

Il riconoscimento di queste tre fattispecie rappresenta la più significativa evoluzione del principio di auto- determinazione dei popoli nell’ambito dell’ordinamento internazionale il quale consente di individuare parametri non arbitrari di valutazione della legittimità delle evoluzioni degli enti sovrani in ipotesi speciali.

3.3 Conclusioni

Occorre, a questo punto, tirare le fila del ragionamento svolto cercando di collegare e porre in sistema i principi emersi nell’analisi degli ordinamenti nazionali e in quella dell’ordinamento internazionale. Sul piano generale le evoluzioni degli enti sovrani si verificano in una dimensione che, per sua natura, sfugge alla previsione ed alla capacità di regolazione degli ordinamenti giuridici nazionali. La ragione sta nel fatto che simili evoluzioni incidono sugli elementi costitutivi degli ordini giuridici e, in base alla logica, nessun sistema (sociale, vivente, informativo) è in grado di negare le premesse su cui è fondato senza implodere. Se un ordinamento giuridico nega la sovranità - cioè la pretesa assoluta di assoggettare al proprio governo il popolo stanziato su un territorio - in quel preciso istante perde ogni vigenza e, con essa, la capacità di qualificare le fattispecie concrete.

24 Nella stessa Dichiarazione si precisa che “Nei territori di amministrazione fiduciaria, nei territori non autonomi

e in tutti gli altri territori non ancora acceduti all’indipendenza, saranno adottate misure immediate per trasferire tutti i poteri alle popolazioni dei territori stessi, senza condizione o riserva alcuna, in conformità alla loro volontà e ai loro voti liberamente espressi, senza nessuna distinzione di razza, di fede o di colore, allo scopo di consentire loro di godere di un'indipendenza e di una libertà complete”.

Solo un sistema giuridico di livello superiore (sovranazionale) potrebbe modificare gli elementi costitutivi dello Stato senza compromettere la propria esistenza e dunque rimanendo in grado di governare quella modificazione ed i futuri sviluppi.

Abbiamo però analizzato le peculiarità dell’ordinamento internazionale e soprattutto l’assenza di una potestà normativa capace di imporsi sugli Stati. Non è in caso che le uniche due tipologie di fonti di diritto internazionale seguano una logica volontaristica e privatistica: la consuetudine e il contratto fra Stati (il trattato). Ebbene è esistito un tempo (preistorico) nel quale anche la convivenza fra esseri umani era governata da regole puramente volontaristiche di origine consuetudinaria e pattizia: in quel tempo – che si dilata dalle remote origini dell’homo sapiens fino alla nascita intorno al V millennio a.C. delle prime civiltà - non esisteva alcuna autorità pubblica e nessuno poteva giuridicamente imporre agli altri alcun precetto. Invece con la nascita in Mesopotamia ed Egitto dei primi ordinamenti giuridici si afferma l’autorità normativa che è capace di porre precetti vincolanti erga omnes25.

Questa debolezza strutturale dell’ordine internazionale non è però di per se sufficiente a escludere la possibilità di individuare parametri non arbitrari per valutare la legittimità di una secessione o di un’altra modificazione degli enti sovrani.

Infatti l’evoluzione del diritto internazionale pattizio, che è culminata con la Dichiarazione sull’indipendenza dei popoli coloniali del 1960, dimostra come in alcuni casi i membri dell’Onu siano stati in grado di produrre norme apertamente negatrici della sovranità nazionale: il fenomeno è limitato come si è visto a tre fattispecie - popolazioni oggetto di dominazione coloniale, di occupazione straniera, di segregazione razziale - ma in tali casi è possibile valutare la legittimità/illegittimità di secessioni, dissoluzioni, unificazioni, annessioni senza assumere in premessa parametri extragiuridici e senza cadere nel baratro dell’effettività: per una applicazione recente (e discussa) si richiami la vicenda che ha riguardato il Kosovo26.

Ma soprattutto, con l’affermazione e la diffusa applicazione di norme derogatorie del divieto di ingerenza all’interno di un ordinamento sovrano, il tabù è stato infranto. Affermare che in alcuni casi la sovranità nazionale deve cedere di fronte alla volontà di popoli e popolazioni significa prefigurare una dimensione

25 Cfr G. MARAZZITA, Io solo sono il tuo sovrano, Napoli, 2015, pp. 61 e ss.

26 Il Kosovo era una provincia autonoma della Repubblica Socialista Serba, a sua volta membro della Repubblica

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