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NELLE FOTOGRAFIE DI CENTANNI FA

Nel documento Cronache Economiche. N.009-010, Anno 1977 (pagine 77-85)

Giorgio E. Colombo

La fotografia sta lentamente entrando nel circuito delle grandi mostre, e la sua presenza è ormai abituale anche nelle gallerie d'arte, dove sostituisce o inte-gra quel « quadro » la cui crisi, come è noto, segna la nascita dell'arte moderna. È un ricupero faticoso e quasi contro-corrente, perché di ricupero si tratta, da-to il grande prestigio che i foda-tografi e la fotografia ebbero per tutto l'ottocento, a partire da quel 9 gennaio 1839, quando lo scienziato Arago annunciò solenne-mente alla Accademia delle scienze di Parigi la scoperta di Daguerre.

Proprio la fortuna della fotografia, il tro-varla ovunque, il suo uso e abuso indi-scriminato, la facilità di ottenerla e i risultati sempre più succulenti, sono la causa della sua banalizzazione: talmen-te siamo rivestiti di pellicola fotografica, da non vederla più. Guardiamo dal mi-rino, giudichiamo dallo schermo televi-sivo o dal retino di giornale, ci emozio-niamo al cinema o sfogliando una rivista per soli uomini. Ricuperare il significato della fotografia significa ricuperarne la distanza, leggerla come linguaggio. Ben vengano allora mostre di archeolo-gia fotografica come quella che è stata ospitata nei mesi giugno-luglio a Palazzo Madama di Torino, « Fotografi del Pie-monte 1852-1899 » e che è stata trasfe-rita in settembre alla Meridiana di Pa-lazzo Pitti a Firenze, dove la discussione sulla fotografia è di casa dopo la grande mostra dei fratelli Alinari.

L'esposizione è stata preceduta da un complesso lavoro di ricerca per rintrac-ciare il materiale sparso per tutto il ter-ritorio piemontese, lavoro condotto da Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, San-dro Lombardini, Rosanna Maggio Ser-ra e Cesare Tambussi. Dopo una circo-lare del Museo civico di Torino a tutte le biblioteche del Piemonte, è seguita una visita sul posto e una raccolta di sette, ottocento stampe fotografiche ori-ginali, dalle quali sono state scelte le duecentoventi che compongono la mo-stra. È iniziato cosi uno schedario gene-rale dei fondi fotografici del Piemonte che speriamo possa continuare, con la segnalazione non solo delle stampe ma anche delle lastre negative.

I contributi particolari dei singoli stu-diosi sono raccolti nel catalogo, dove

le belle 92 tavole sono precedute da una nota di Maria Adriana Prolo sulla dagherrotipia a Torino, dagli appunti di Rosanna Maggio Serra sul fondo D'Andrade del Museo civico, e dalle schede biografiche degli autori con bi-bliografia sui medesimi di Claudia Cas-sio, opera paziente e difficile nella rico-struzione dei nomi, degli indirizzi, delle date. Insomma la mostra e il catalogo non sono stati l'occasione, come spesso capita, di una presentazione imbellettata del già visto, ma la messa a punto di un importante lavoro, per nulla concluso, come avverte Giorgio Avigdor nella in-troduzione, e anzi da proseguire con una certa premura, per la facile dispersione e deperibilità del materiale.

Un primo risultato della mostra è l'emer-genza di un tessuto culturale ricco di fo-tografi significativi e ben individuati: sono autori riconosciuti in ruoli ufficiali, spesso al servizio di S. M. il re d'Italia, hanno rapporti col mondo dell'arte (ma estranei a ogni bohème), della scienza, delle Accademie; si ritrovano e si con-frontano alle Esposizioni universali do-ve do-vengono distribuiti diplomi e meda-glie poi esibiti nei cartoncini portafoto-grafie o negli annunci pubblicitari; sono il segno popolare di una scienza concre-ta e vittoriosa. Non c'è una netconcre-ta divi-sione tra dilettanti e fotografi di profes-sione: insieme a titolari di studi foto-grafici veri e propri (Ambrosetti, Ber-rà — fondatore della associazione « Fo-tografia Subalpina » — Besso, Castella-ni, Ecclesia ecc.) troviamo i più diversi professionisti: ingegnere è Giovanni Fer-rari, attivo nel saluzzese; pittore e re-stauratore Giacomo Imperatori, fotogra-fo del lago Maggiore e delle sue disastro-se inondazioni, fermate in immagini di gelata tragedia; avvocati sono Francesco Negri di Casale, studioso di microfoto-grafia e inventore del teleobbiettivo, e l'astigiano Secondo Pia, primo fotografo della Sindone, attento registratore di an-tichi ambienti architettonici e monumen-tali; industriali, uomini politici e di scienza i Sella biellesi; pittore, archeolo-go, restauratore il portoghese Alfredo D'Andrade.

Gli scambi continui con la Francia (il secondo esperimento di dagherrotipia in Italia avviene a Torino nello stesso

an-G. Imperatori (Intra 1831 -Novara 1888) - Intra 1868, Disastri del fiume S. Bernardino del 2 ottobre 1868. Fotografia mm. 252 x 180 - Verbania. Museo Civico.

Henry Le Lieure

(seconda metà del XIX sec.) - Vue de la rue de la Cernala -dall'album « Turin ancien et moderne » - Torino, Biblioteca dei Musei civici.

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-Vittorio Sella (Biella 1859-1943). Punta Parrot. Dal pianoro

superiore del Lysioch. Fotografia mm. 378 X 280

-Biella. Istituto di fotografia Alpina « Vittorio Sella ».

Giuseppe Marinoni (Venezia 1825 ?) -Gruppo di fronte ai Castello di Rivara,

prima dei lavori di ristrutturazione ante 1872. Fotografia mm. 217 X 168

Secondo Pia (Asti 1855 • Torino 1941) Rocca canavese. Porta presso ii castello. Fotografia mm. 200 x 250

-Torino. Collezione G. Pia

no, 1839, in cui era stato comunicato a Parigi) spiegano la presenza attiva nella nostra città di noti fotografi francesi co-me Le Lieure e Marville.

Ritrovati questi autori, presenti con stampe nitide, spesso radunate in album lussuosi (« Album della città di Vercel-li », « Album artistico della città di Asti », « Album Turin ancien et moder-ne »), nasce un dubbio sulla limitaziomoder-ne della mostra alle « stampe originali di paesaggio e veduta urbana », che nel ta-glio secco e preciso vorrebbe allontana-re i languori del bozzettismo, ma che in-vece, proprio accettando come dato ov-vio e indiscusso questo « vedutismo », non riesce a spiazzare la fotografia dal-l'album di famiglia, non riesce a intro-durre quella distanza in grado di rom-pere l'incanto dell'immagine ingiallita e teneramente seppiata, un incanto che è poi una trappola in cui cade volentieri 10 spettatore vagheggiando buoni senti-menti di nonni integerrimi, valli aspre, natura incontaminata, piazze pulite e si-lenziose (dove le figure svaniscono in tracce di fantasmi, perché le lastre poco sensibili hanno bisogno di lunghi tempi di posa, mentre le persone si muovono). Solo accostando il vedutismo agli altri filoni della fotografia ottocentesca, e non invece isolandolo, se ne possono sottoli-neare le caratteristiche convenzionali e linguistiche, la novità o il tradizionali-smo (della pittura fatta a macchina), la sua pretesa scientifica e positiva, la sua posizione insomma nel sistema simboli-co simboli-complessivo attraverso il quale si vie-ne configurando la nuova società della borghesia industriale. Solo cosi la foto-grafia cessa di essere presa come il pro-lungamento immediato del ricordo o del-l'ambiente, cessa la sua funzione illuso-ria e perciò traditrice di finestra aperta su chissà quali lontane beatitudini. E al-lora si capirebbe che non per un caso 11 vedutismo si accompagna al fotoritrat-to, alla foto d'arte, alla fotografia scien-tifica, alla fotografia segnaletica e giudi-ziaria.

Diventerebbe allora più chiaro perché la fotografìa si sviluppa specialmente dopo il '60 accompagnando il processo dell'unità italiana e insieme la formazio-ne delle grandi città, coinvolta in un progetto politico nel quale la scienza e la

tecnica sono chiamate a dare ordine, funzione, efficienza agli spostamenti di grandi masse subalterne in via di rapida e traumatica trasformazione. La città è pronta ad accogliere le ciminiere; la sua forza, ancien et moderne, si esibisce quasi a scopo intimidatorio. Le lunghe prospettive e le geometriche piazze di Le Lieure segnano la stessa compiacenza di un potere che ama guardarsi allo spec-chio e sparpagliare per ogni dove l'effi-ge trionfante dell'uomo formato tessera. La macchina di Le Lieure o di Marville mette in posa l'ambiente urbano, come un qualsiasi personaggio che si appog-gia alla colonna romana davanti allo sce-nario dipinto.

Anche l'arte è prima di tutto segno di prestigio, di forza, di durata; l'arte anti-ca soprattutto, a cui peraltro l'Acanti-cade- l'Accade-mia si ispira, sarà alla portata del più modesto salotto. La fotografia introduce l'arte in ogni casa, la riduce in formati accessibili, standard, la prepara per la grande industria editoriale.

All'incrocio tra l'arte come prestigio, il passato come gloria, l'archeologia e il re-stauro come restituzione puntuale di una diversità, quella medievale, vagheggiata come teatro dell'immaginazione, si si-tua l'operazione di Alfredo D'Andrade,

Commissario regionale delle Belle Arti per il Piemonte e la Liguria, coadiuvato da fotografi come Ecclesia, Besso, Pia, gli Alinari, e da letterati come Giu-seppe Giacosa e il fratello Piero, atten-to studioso di ambienti valdostani. E nel teatrino neogotico del castello me-dievale al Valentino, costruito per la Esposizione dell'84, D'Andrade ben rias-sumeva questa aspirazione letteraria e sabauda; esposizione, è bene ricordarlo, organizzata dalla Società promotrice del-l'industria: come dire che contro ogni facile schematismo, locomotive e sogni feudali non si escludono affatto. Non meno significativa l'attività della famiglia Sella, con la sua precisione scientifica, l'oculatezza amministrativa, lo studio e il controllo della natura (co-me parte necessaria al controllo dell'uo-mo e della società'» Nel 1863 Quintino Sella fonda il Club Alpino Italiano e le fotografie alpine del nipote Vittorio ne continueranno il programma e la fortu-na, tanto da essere richieste non solo in

Europa ma anche in America. La sem-plice e rude virtù del montanaro è il complemento all'astuzia dell'uomo d'af-fari, cost come il sogno dell'avventura feudale accompagna il correre delle va-poriere: non sarà neogotica la stazione di Torino? Al di là della bellezza delle foto di montagna di Vittorio Sella, pro-prio anche con esse si apriva il saccheg-gio delle valli alpine, contemporaneo al-la specual-lazione edilizia nelle città. E infine, al termine di un fotoritratto non più compiacente e narciso, o, se si vuole, registrando la parte nascosta del fotoritratto, ecco la fotografia come clas-sificazione criminale, base della foto se-gnaletica della polizia. A Torino nasce una nuova scienza che classifica, misura, numera, fotografa: è l'antropologia cri-minale di Cesare Lombroso. Qui la foto-grafia come controllo sociale celebra i suoi trionfi: andrà a riempire gli scheda-ri della polizia, dei manicomi, delle car-ceri.

C'è da auspicare che l'archivio fotogra-fico in fattura presso il Museo civico prenda in considerazione questa conside-revole mole di materiale (sia in stampe che in negativi) che ho avuto modo io stesso di esaminare attentamente nel Mu-seo di Antropologia criminale di Torino. Al termine di questo breve itinerario la fotografia ha perso il suo sorriso un po' sbiadito, per riprendere, nella circolazio-ne dei segni di cui è parte emicircolazio-nente, la sua forza informativa e la sua pregnan-za estetica. L'avvio del lavoro rappre-sentato dalla mostra « Fotografi del Pie-monte » è fondamentale: ma per allon-tanare proprio quegli equivoci che i cu-ratori volevano evitare, va collegata a un discorso più ampio, da attuarsi si in tempi lunghi, ma da anticipare come metodologia generale fin dall'inizio.

LA PRIMA FERROVIA

Nel documento Cronache Economiche. N.009-010, Anno 1977 (pagine 77-85)