Piera Condulmer
Piatto d'argento deI '700.
Tardò a configurarsi come categoria a sé quella degli Orafi a Torino, ad enu-clearsi dal contesto di altre attività af-fini, e anche non affini ma che avevano a che fare con i metalli preziosi, come l'alchimia. Bisogna peraltro considerare la particolarità del materiale trattato, non solo carico di simbologia, di ana-logie, di richiami ancestrali presso tutte le civiltà, oggetto di brame smisurate, simbolo del potere e per moltiplicare il quale schiere di alchimisti e di ciurma-dori si sono affannati per secoli, divo-rati dall'auri sacra fames; ma proprio perché all'oro e all'argento era legata la monetazione, e alla loro purezza o me-no il valore stesso della moneta. Inve-stiva perciò la vita economica stessa de-gli stati, e già presso i romani possiamo riscontrare l'intervento continuo del le-gislatore sul consumo e sulla lavorazio-ne di questi metalli, tanto più che erano per loro tutti d'importazione. Aggiun-gasi poi, che la sollecita conoscenza del-le tecniche di fusione e di del-leghe rende-va sempre possibile l'inganno e l'im-broglio.
Non può perciò meravigliare che nella economia povera e chiusa della Torino medievale non riscontriamo la compa-gnia degli orafi e degli argentieri, tra le ventisei enumerate nei primi documen-ti che le nominano, cioè gli Ordinadocumen-ti del Comune di Torino degli anni 1374-75. Compare invece negli Statuto vetera di Amedeo V i l i del 17 giugno 1 4 3 0 d o -ve si emanano Ordini generali e privi-legi — prò confectione monetarum alio-rumque operum ex auro et argento. È una evoluzione continua quella dell'or-ganizzazione di questi particolari arte-fici, che devono accettare nella loro at-tività il controllo legale per pubblico interesse; e sono assimilati ai merciers, boitiers, tabletiers e dovranno « entre tenir bonnes et loyales balances et leurs marcs justes, et raisonnables » sotto pe-na di forte multa.
Le disposizioni del 23 maggio 1476 con-figurano ormai l'organizzazione degli orefici, e l'aspirante ad esservi ammesso dovrà prima « remettre a la Chambre des Comptes (...) semblable poinsson à yceluy dont il voudra user et marquer et baillera par escrit son nom et sur-nom »; dovrà inoltre versare una
cau-zione di 10 marchi d'argento. Il titolo dell'oro dovrà mantenersi a 22 carati e tre quarti, quello dell'argento a 11 de-nari e 9 grani. Inoltre dovranno essere ammessi alla visita settimanale i con-trollori dei pesi e delle bilance, pena l'indignazione sovrana e la multa di 10 marchi d'argento.
Sono stati nominati i merciers: essi era-no soprattutto rivenditori, che vende-vano vaisselle, cinture d'oro e altri jo-yaux ordinati agli artigiani, ma tali og-getti dovevano rispondere ai requisiti di legge circa il titolo del metallo prezioso (cosi i geolliers, boittiers, i tablettiers) pena la confisca della merce. Per ovvia-re agli abusi degli alchimisti, questi do-vevano portare l'oro o l'argento trasfor-mati alla più vicina monnoye (zecca) e non potevano venderli ad altri.
Da quanto si può desumere dal Duboin, l'iscrizione alla Compagnia rimase fa-coltativa fino all'editto di Carlo Ema-nuele I del 1582, 17 gennaio, con il quale si intima ad artisti e mercanti di unirsi in congregazione, eleggere tre « dei loro più sufficienti iscritti che li sovraintendano, due detti massari e uno priore », che doveva investigar sovra i disordini e gli abusi, doveva tenere la cassa con le scritture. Gli ispettori du-cali dovevano essere accolti con cortesia. Per le ragioni già esposte, la categoria degli orafi veniva sempre più portata nella sfera dell'ingerenza sovrana con la disposizione del 1° aprile 1590; essa sta-biliva che tutti coloro che tenevano bot-tega, coloro che fabbricavano bottoni d'oro e seta (bottonai), i tessitori di stof-fe d'oro e d'argento, oltre gli orefici e i gioiellieri e gli argentieri, dovevano prestar giuramento nelle mani del Vi-cario.
Tutte queste disposizioni venivano mes-se a stampa nel 1597 (coi tipi di M. Ca-valieri ) sotto il titolo di Ordini politici sopra gli orefici, con la premessa « Do-po lunga riflessione e discussione del Consiglio dell'inclita e molto magnifica città di Torino, ecc. ».
Ma i controllori ducali troppo brutali destano ostilità, e li sentono, gli orefici, come un'offesa alla loro dignità; i mer-ciers si lamentano che non possono sop-portare di essere multati e confiscati se ciò che rivendono, magari importato da
Ginevra, da Genova o da Milano, non risponde ai requisiti di legge; perciò i mastri orefici fanno un esposto e man-dano Memoria al duca il 19 maggio 1612, nella quale chiedono che siano deputati al controllo i loro consoli e u n Conservatore, i quali sotto giuramento interroghino gli orefici sull'osservanza delle norme e sui titoli dei metalli. Per un seguito di circostanze il Senato non esamina il Memoriale, e gli orafi manda-no un secondo Memoriale, al quale Car-lo Emanuele dà pronta risposta; il se-nato interina i nuovi ordini nel 1619: veniva concessa l'elezione di due con-soli (che doveva avvenire il 2 gennaio di ogni anno) e di un Conservatore trien-nale cui sarebbe devoluto il potere di di-rimere le cause con il fisco fino al va-lore di 25 scudi. Per l'elezione si sareb-bero dovuti congregare nella chiesa dei santi Simone e Giuda. Si sarebbero po-tuti servire dell'assaggiatore della zec-ca, o eleggerne uno loro, ma di gradi-mento della Camera dei Conti.
Il più vecchio sindaco orafo della città era detentore di una piccola marca col toro, che avrebbe apposto gratis su tutti i lavori sui quali era possibile apporla. L'unità di peso doveva essere conside-rata lo scudo per l'oro e il marco per l'argento, con i sottomultipli di oncie, denari, grani.
L'oro ufficiale era quello dello scudo, cioè di carati 21 e sei ottavi (inferiore al precedente campione), l'argento di 11 denari; la cera per incastri di pietre e diamanti nei gioielli, deve essere quella bianca con polvere d'oro di fresa, o di mattoni. L'assaggio poteva essere fatto con tocchini o con coppelle. Le attuali disposizioni furono pubblicate a suon di tromba il 25 gennaio 1623.
Oltre alle già accennate, altre norme era-no contemplate in questa prima regola-mentazione ufficiale e sistematica di tale corporazione, che veniva ad assumere u n carattere di monopolio, in quanto era l'unica in Piemonte in questo settore, e richiese che le disposizioni impartite avessero valore per tutto il ducato. Inol-tre veniva concesso agli orafi e argentie-ri che si mettevano in viaggio per re-carsi ai vari mercati, di « portare pi-stolle e schiopette stante i molti bri-ganti... », dietro offerta all'erario di 700
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ducatoni, ma venivano esentati dal di-ritto del quos2. Si rileva ancora che in Torino non potevano esservi più di ven-totto mastri e botteghe, e l'aspirante ad aprirne una doveva dimostrare di posse-dere almeno 500 scudi e avere cinque anni di esperienza nell'arte, e depositare una cauzione di 200 scudi d'oro, oltre si capisce, la presentazione del capo d'opera e del punzone con la sua marca. Nessun servitore forestiero era concesso di assumere senza cauzione di 100 scu-di, per danni o furti che poteva arrecare. Ma l'arte non si sentiva ancora perfetta nella sua costituzione; intralci e abusi continuavano a verificarsi, duplicazioni o modificazione di punzoni o di marchi, o contraffazioni, brogli nell'esecuzione dei capi d'opera: per cui l'arte provoca una nuova battuta del dialogo col po-tere pubblico. I mastri più ligi alle nor-me regolanor-mentari si sentivano sempre più danneggiati dagli abusi degli orafi improvvisati che riuscivano con raggiri a strappare un'approvazione alla pre-sentazione del loro capo d'opera, che talvolta non era stato fatto da loro. Ed allora ecco un nuovo esposto dei principali maestri di bottega alla reg-gente Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours, nel 1677, per richiamare il governo al suo dovere di difendere gli onesti artigiani « da' poco timorati della divina e humana giustizia » e denuncia-re falsificazioni di ori ed argenti, liga-ture arsenicate, saldaliga-ture in oro e ar-gento, polveri pesanti e artificiali nei castoni, al punto da venire compromes-sa l'onorabilità dell'arte.
La duchessa è molto sollecita nello stu-diare i provvedimenti atti a regolamen-tare in modo definitivo la corretta at-tività di questa università che tratta ma-teria cosi delicata, e che è la più sogget-ta agli alti e bassi della politica, sia per l'importazione delle materie prime, sia per l'esportazione dei manufatti3. Gli Statuti, ordini e privilegi dell'arte e del-la università degli orefici deldel-la città di Torino, sotto la scuola e la protezione del beato S. Eligio, emanati con mani-festo del 9 dicembre 1678 per voci e grida, si può dire rappresentino la re-golamentazione definitiva dei diritti e dei doveri di questa categoria artigiana-le, avendo trovato il punto di equilibrio
tra libertà e controllo statale che rimar-rà inalterato fino alle Costituzioni di Vittorio Amedeo II.
Occorreva agire con molta diplomazia e prudenza perché non si formassero mentalità individualistiche in seno al-l'arte, con il prevalere dell'autorità del sindaco, nella difesa autonoma di quei diritti ch'erano stati riconosciuti come legittimi dell'associazione. Tanto più che il fulcro delle richieste era la sal-vaguardia della dignità della categoria, la possibilità di mantenere senza sca-pito il suo livello tecnico di produzione, senza che venisse screditato da chi abu-sava di certe illecite compiacenze: era questione più di prestigio che di egoismo economico, tanto più che alle cariche delle università e del consolato veniva-no elette sempre persone di alto valore morale.
Quando Vittorio Amedeo II riesce a strappare dalle mani della madre le re-dini del comando, imprime ad esso un ritmo concitato per liberare il Piemon-te dall'incubo francese, dalla sua tuPiemon-te- tute-la. In una situazione sempre fluida, il primo a risentire delle vicende politiche è l'oro, per le leggi suntuarie richieste in determinati momenti, per le restrizioni del commercio dei preziosi, per le flut-tuazioni del suo titolo ufficiale, che co-stringeva in questo caso gli orafi a mo-dificare le lavorazioni cui dovevano ap-porre il marchio. Il re riconosce all'ar-ticolo 39 delle sue Costituzioni del 1723 l'Università degli orafi e le sue magi-strature. Questo porta ad un controllo sempre più pressante dello stato, che avoca a sé solo la pratica dell'assaggio dei metalli con l'impressione di un suo marchio che è quello dell'ufficio del Mar-chio: l'orafo ormai deve avere continui rapporti con la Camera dei Conti, con il Consolato sopra i Cambi e Negozi (an-corché i gioiellieri avessero già una lo-ro magistratura e un giurista di nomina sovrana) e con l'Ufficio del Marchio. Gli oggetti d'oro e d'argento devono or-mai portare tre marcature.
Ma in pieno Settecento, in un periodo di pace, esplode per cosi dire la grande fioritura dell'arte orafa a Torino e in Piemonte, e coincide proprio con la sta-gione del barocco piemontese. Grandi artisti offrono disegni ai nostri artefici.
Nel 1713 si consente la vendita dell'oro e dell'argento a titoli inferiori ai 22 ca-rati e agli 11 denari; nel 1732 si ritorna all'antico titolo; ma nel 1740 il ministro marchese d'Ormea firma disposizioni vietanti la vendita dell'oro e dell'argen-to all'estero, qualunque fosse l'oggetdell'argen-to, dei filati d'oro e galloni anche usati. Con Vittorio Amedeo III si ha una re-quisizione dei metalli per necessità di monetazione, e per controllare quali quantità d'oro vengano impiegate per usi diversi, si cambia il punzone dell'uf-ficio (una ellisse con inserito il mono-gramma con corona. Intanto era sta-to decretasta-to dal Consolasta-to sui cambi, negozi e artisti, di fare un elenco di tutti i mastri argentieri dal 1732, con la loro marca e viene curato dai sindaci G. V. Tempia gioielliere e G. Paroletto argentiere, stampato dallo stampatore Giuliano nel 1785 (esso fu poi aggior-nato fino al 1793 dall'intendente gene-rale conte Ghiliozzi). Nel 1773 è resa più severa Yadmissione all'università delli Gioiellieri, come risulta dai Regi-stri dell'Archivio di Stato.
Ed è interessante a questo proposito, da-re uno sguardo al panorama degli arte-fici di questo settore nella Torino sette-centesca, per renderci conto come l'as-sociazione in tale arte rappresentasse una vera pépinière di artigiani, reclutati però tra i diversi membri delle stesse famiglie, si da instaurare vere dinastie, come quella degli undici Rossetto, dei sette Barberis, dei diciannove Segre (gli argentieri ebraici hanno qui un notevole sviluppo), i Pittaluga, i Paroletto che hanno nell'arte ricoperto sempre cariche di rilievo, i Vernoni, i Tantardini, i Re-gis, i Rossi, i Tua, i Capello, e i quattro Boucheron con il grande Gian Battista. Si avvicina la bufera napoleonica; le fi-nanze precipitano, il regno di Sardegna scompare. In un'atmosfera di preoccu-pata incertezza, università e uffici per-dono di valore, senza che pel momento siano abolite le corporazioni di arti e mestieri, ciò che avverrà nel 1804. Si fa ancora un censimento degli orefici e ar-gentieri operanti, e risultano essere solo 29 compresi gli abusivi, cioè quelli che esercitano senza l'approvazione del con-solato 4. Ma ormai gli antichi orgogli, l'antico spirito di emulazione per il
me-glio del prodotto, non hanno più ragio-ne di agitare gli animi: la Francia in-vade il mercato con i suoi prodotti e la categoria rimane inattiva. Nel 1804 si decretò la morte di un morto...
Poi anche la vicenda napoleonica, come tutte le vicende umane, ha la sua fine, ed entriamo nel periodo della reazione; periodo di transizione per il Piemonte verso il riformismo.
Ripresero vita le antiche università del-le arti, e per quanto riguarda gli orafi, essi dovettero rinnovare tutti i punzoni di marcatura delle loro botteghe, furono riprese le operazioni di assaggio alla zecca, l'Ufficio del marchio vi appone l'impronta dell'avvenuta verifica con le iniziali di chi l'ha eseguita; il marchio per l'oro a 18 K è uno scudo gotico con croce mauriziana e corona, per l'argento a 11 denari è lo scudo di Savoia coro-nato; a 9 denari è ovale con aquila co-ronata. Si è ripreso ad esprimere il ti-tolo dell'oro e dell'argento in carati e denari, abolendo quello in millesimi in-trodotto dall'ordinamento francese (che però più tardi sarà ripreso).
Il Manifesto della Camera dei Conti in data 24 settembre 1824 rende note tutte le disposizioni e le modifiche apportate ai vincoli corporativi, ma nel 1829 que-sti vengono di molto allentati, perché nel frattempo numerose erano state le richieste di dispensa dall'appartenere al-l'associazione.
Il clima nel quale si erano andate rico-stituendo le università d'arte era di mol-to mutamol-to rispetmol-to a quello in cui si era-no formate e si eraera-no evolute: quella serie di vincoli e di soggezioni a cui erano soggetti gli ascritti, quella impos-sibilità di una dinamica interna, anche tecnica, individuale, destavano insoffe-renza; se non proprio il numero chiuso, una spiccata propensione ad esso da par-te dei maestri, depar-terminava una sorda ostilità da parte di lavoranti che pur sen-za capitali, sentivano che liberamente avrebbero potuto esprimere qualcosa di buono; questi erano tutti fattori sfavo-revoli al come prima caro alla restaura-zione. Per cui, forse, quel Regolamento del 10 luglio. 1824 che ricordava i do-veri di fabbricazione e merceologici ai mastri gioiellieri e argentieri (che pur unendosi in una sola università avevano
due sindaci) e disponeva che gli aspi-ranti alla bottega dovevano farne do-manda all'Intendente della propria pro-vincia, presentare il disegno del proprio futuro punzone all'approvazione del-l'Ufficio marchio (che se accettato, scol-pito in lamina di rame, doveva essere depositato al Segretariato dell'Ufficio stesso); quel Regolamento, dicevo, che non contemplava più espressamente l'obbligo della presentazione del capo d'opera al vaglio del sindaco, il diritto-dovere da parte di questi di indagare sulla normalità e la condotta e la reli-gione dell'aspirante, come già nel 1612 era stato statuito e successivamente con-fermato fin nelle Regie Patenti del 1814, poteva essere già indicativo del nuovo indirizzo liberistico che l'organizzazione del lavoro esigeva ed andava prenden-do. Solo che le immediate proteste della corporazione fece per allora rientrare ogni timida innovazione in questo setto-re e fu dichiarato che tutti simili adem-pimenti dovevano considerarsi impliciti. Ma nel 1829 gli Uffici del marchio, che oltre che a Torino erano stati aperti a Novara, Vercelli, Cuneo, Alessandria, Nizza, Genova, ciascuno con il proprio segno (testa di cavallo, delfino, occhio umano, ecc.) vengono soppressi, cosi a poco a poco, senza scosse, ci si avvia verso la liberalizzazione dai vincoli cor-porativistici, liberazione che sarà uffi-cialmente sancita da Carlo Alberto nel 1844 con Patente datata da Racconigi5. In una società in evoluzione industriale la forma di dispotismo esercitata dai maestri delle varie corporazioni, era or-mai intollerabile e anacronistica, e an-che mortificante, perché faceva perdere gli anni più creativi ai giovani, costretti in una successione esasperante di anni di apprendistato, di garzonato, subordi-nando poi la loro possibilità di eserci-tare in proprio una professione o un mestiere al giudizio non sempre sereno su di un lavoro d'esame; questo spesso richiedeva mezzi finanziari per essere eseguito, di cui non sempre erano in pos-sesso gli esaminandi, cosi come di quelli per le offerte alla corporazione e alla cappella e per il pranzo d'obbligo. Il numero chiuso perciò nei vari corpi si manteneva anche per queste vessazioni, che facevano privilegiare i figli dei
mae-Caffettiera fine '700.
stri. Di questo si era reso perfettamen-te conto Carlo Alberto, abolendo prima, nel 1838, l'obbligatorietà del capo d'ope-ra, e sei anni dopo nel dichiarare deca-dute tutte le corporazioni d'arte e ogni loro privilegio.
Carlo Alberto con la sua pensosa sensi-bilità, si era reso conto come nella co-scienza sociale si fosse maturata la di-gnità del lavoro manuale e il riconosci-mento della sua importanza nella vita dei popoli. Già nel giugno del 1838 ave-va dato il suo caloroso assenso al sorge-re dell'Associazione per l'avanzamento delle Arti e dei Mestieri, la quale a sua volta sosteneva iniziative caritative vol-te a tal fine in varie parti del Piemonvol-te; vide con favore sorgere le scuole dette dell'Oratorio di Don Giovanni Bosco nel 1841; egli stesso nel 1845 istituiva una scuola di Chimica e Meccanica ap-plicate alle Arti; della Scuola S. Carlo abbiamo fatto già cenno. Ma una nota particolare deve essere fatta della scuo-la Bellini di Novara del 1833, istituita