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La mattina del 25 marzo facevo la mia solita strada, per sboccare in piazza della Borsa e di qua in piazza Unità e giungere, di sotto alle volte del Municipio, al Pa- lazzo del Genio Civile dove trovasi il mio ufficio. La strada è vicina e parallela alla riva del mare; a gettarvi uno sguardo ogni tanto, per i varchi delle trasversali, si vedono uno o due alberetti del viale, un pezzo di nave, una vela, il treppiede del fotografo con la bautta nera e, sempre, in fondo, quell’azzurro del golfo variabilis- simo che ti dà il senso di un gran respiro.

C’era in quei giorni in città la commissione degli esperti dei Governi Alleati, che doveva fissare sulla base etnica i termini oggettivi della situazione1. L’alber-

go dove la commissione alloggiava, guarda il mare e, allora, aveva un monticello davanti, formato dai blocchi di cemento, dal terriccio, dai detriti di un grossis- simo bunker che si stava demolendo. “La montagnola del pianto” la chiamavano con ironia i triestini, perché lassù, ci stava permanentemente, giorno e notte, un gruppo di slavi calati in città con bandiere, i quali volevano dimostrare alla com- missione che Trieste era slava. Dalle trasversali si vedeva il profilo del monticello, la gente, le bandiere e in cerchio attorno le berrette rosse della polizia alleata. Ogni tanto faceva capolino dall’una o dall’altra delle trasversali la polizia a cavallo e con un trottarello girava intorno alle vie per osservare il campo: belli quei caval- li sauri dorati e, alti in sella, quegli uomini con le tracolle candide.

«Mercurio», novembre-dicembre 1946

46 La città pareva, come da quasi un anno, supina e tranquilla nella sua attesa, simile a una febbricitante, trapassata di tanto in tanto da qualche brivido, che guardi con stupore a tutto quello che le avviene intorno. Avvilita, percossa, vili- pesa, veniva ora auscultata dai dottori inviatile dall’estero.

Giunto nel mio cammino (era un lunedì e di lunedì si cammina sempre un po’ svogliati e distratti), all’ultima trasversale, prima di sboccare in piazza della Borsa, fui quasi travolto da un manipolo di giovani vocianti, in corsa dietro una bandiera. Quando ebbi coscienza dell’emozione provata, i giovani eran già scom- parsi. Quel tricolore stinto, sventolato in corsa, quel grido in volo, tutto pieno d’anima: «Italia, Italia!» m’avevano scosso e commosso. Stetti là fermo a guar- dare e vidi che la gente per la strada, sui marciapiedi, agli usci delle botteghe, era commossa come me e già qua e là i passanti cominciavano a correre.

Fu questo, semplicemente questo l’inizio delle manifestazioni del 25 e del 27 marzo. Le più grandi giornate di Trieste. Quel pugno di giovani eccitati formò una valanga, in un baleno le strade fluttuarono di cortei, le case si coprirono di tri- colori. Dopo due ore la città s’era levata su dal suo letto d’avvilimento e la sua feb- bre era passata nell’aria, non più febbre di malattia, ma di passione. Il 27 il popolo

fu chiamato, direi impose al C.L.N.2 d’esser chiamato a raccolta: quasi 200.000

persone concorsero a formare un corteo interminabile, che coperse letteralmente di teste e di bandiere agitate la vastissima piazza Unità dal mare al Municipio, e ancora non potè essere del tutto contenuto, e che girò fino a notte per le vie citta- dine. Nello splendore del sole di marzo si ripeterono, per chi le aveva vissute, le giornate novembrine del 1918, quando Trieste accolse col trasporto della sua ani- ma, compressa da quasi quattro anni di guerra, l’arrivo delle sue navi vittoriose.

Perché le manifestazioni del 25 e del 27 marzo fossero sentite in tutta la portata della loro spontaneità, vere manifestazioni di popolo senza distinzioni di classi o di categorie, c’eran voluti vent’anni di adunate con precetto, di greggi inquadrati, di folle mimetizzate e un anno di processioni sfilanti giù dal suburbio e di cortei di villici calati dal territorio. In quei due giorni i cittadini di tutte le età di tutti i ceti si riversarono dalle case nelle strade, per confondersi in un’espressione col- lettiva. La folla dei triestini, nel tumulto d’uno sfogo improvviso che la liberava da una lenta soffocazione di mesi, esprimeva veramente l’anima della città.

Ricordo che mi misi sul marciapiede all’angolo di una strada secondaria, per dove un affluente raggiungeva la fiumana. Le file erano scomposte, i volti trasfi- gurati, le gambe e le braccia come mosse da un’anonima energia elettrizzante. E vidi vecchie negli abiti ottocenteschi, che uscivano certo raramente di casa, vidi ragazzi scontrosi dalla cera pallida che forse partecipavano per la prima volta a un corteo, e signorine accanto a garzoni di bottega e a operai, uomini di studio e impiegati ammuffiti negli archivi accanto a uomini di mondo e a giovani ele- ganti che in nessun’altra occasione si sarebbero mescolati a una folla, e studenti, sartine, donne di Rena Vecchia e signore di palazzo. Acceso in volto, coi capelli al vento e la bocca aperta al canto, riconobbi un professore anziano che avevo sem-

pre visto severamente composto e dignitoso. Trascinato dall’onda comune in un ritmo svelto ed energico, scorsi un poeta dialettale, vecchio artritico che di solito cammina lento lento sul suo bastone e si guarda intorno pavido e sospettoso, per non essere urtato dai passanti, cantare e urlare anche lui e mandar lampi dagli occhi sotto le ciglia cespugliose. Tutti gli individui si confondevano nella marea e la marea sembrava sollevar le pietre del selciato e sulle bandiere in moto si china- vano le bandiere delle case e queste si scioglievano dal torpore dei mattoni e del cemento per vibrare e quasi muoversi con la folla.

Persino la flemma degli spettatori inglesi fu in certo modo scossa. Vidi sul vol- to di soldati e ufficiali, che assistevano alla manifestazione, in piedi sulle loro mac- chine o affacciati a qualche balcone, quel segno di sorpresa e di vivo interesse che non è soltanto per lo spettacolo esteriore ma anche per lo spirito che lo muove.

La città si rivelò in quei due giorni, fece traboccare apertamente i suoi sen- timenti e la sua volontà. Tali manifestazioni non possono più ripetersi, ma, se anche quel grido unanime della disperata speranza non fu raccolto da chi poteva decidere dell’avvenire di questa città, esso deve esser ricordato da tutti gli italiani e rimarrà come il segno infuocato d’una vera passione nel grigio degli interessi e della speculazione internazionale.

Questo l’avvenimento più importante della vita triestina nel 1946, se è ancora importante, al mondo d’oggi, avere un’anima.

«Qualunque declamazione su uomini che hanno posto la vita o la morte al ser- vizio d’un’idea, mi sembra una profanazione», ha scritto Giuseppe Mazzini. E sarebbe una profanazione declamare su Guglielmo Oberdan. Guglielmo Ober- dan lo si può avere nel cuore, come tutti i volontari triestini che sacrificarono la vita nella guerra di redenzione, e più che nel cuore, nell’anima e nelle fibre, come Battisti, Filzi, Sauro, che lo imitarono nella stessa morte — «già morire di una fuci- lata austriaca o di capestro, fa lo stesso», sono parole Sue — o lo si deve rinnegare, ma non si può farne un motivo di vuota esaltazione. La realtà storica d’Oberdan, la sua figura umana sono altrettanto grandi, se non forse più grandi an cora, del mito che si è creato intorno a Lui.