• Non ci sono risultati.

108 e l’improvviso apparire sull’acqua d’una lumi naria: la massa d’una nave, fe stante di lumi. Nell’aria fredda si sentiva il calore di bordo, di quella casa galleggiante che la sciava la città per passare gli oceani. Le davamo un addio, non senza sogna- re di metterci anche noi una volta o l’altra in viaggio.

Vivere a Trieste era quasi sempre vivere per navigare: in sogno, nel concreto, nelle aspi razioni, nei propositi. Barche, bastimenti, navi erano in un continuo va e vieni e il porto mutava continuamente aspetto: sagome di navi, ciminiere, albe rature formavano i primi piani mutevoli sullo sfondo fisso delle case scen- deggianti dai colli. In giro per le rive, si conquistava, a ogni tratto, una nuova prospet tiva. I bacini tra molo e molo erano allegri; barche a vela in crociavano con vaporini, che si facevan strada con fischi rochi o acuti, e di tanto in tanto, tra il minutame, con boati di sirena si annunciava il passaggio d’un gigante; un tran- satlantico usciva lento e poderoso, occupando lo spazio con la sua mole e tutte le altre imbarcazioni sembrava no piccole ballerine nella sua grande ombra.

Certe volte si sfoglia un libro della memoria per ritrovarvi il presente e non esserne sorpresi. Potrei ripensarmi nell’autunno del 1918, quando camminando per le rive e i moli il mio piede inciampava ogni tanto in qualche ciuffo morbi- do: tra pietra e pietra cresceva l’erba. Dopo la lunga paralisi del porto, duran te quattro anni di guerra, poteva essere fenomeno naturale che i sassi tornassero al richiamo delle antiche saline, da cui gli avi tergestini ricavavano i loro magri guadagni. Ma pietre e mare dovevano ben presto ri cambiarsi la vita. La ripresa fu sollecita. Le gru dei due Punti franchi, il vecchio e il nuovo, si rimisero in moto. Quel ch’era rimasto della vecchia flotta lloydiana tornò al suo porto. Le ben note sagome delle navi si riaf facciarono ai bacini con piccoli cambiamenti e con nuovi nomi, i1 Baron Call era diventato il Quirinale, il Prinz Hohenlohe il Friuli, il Wien il Vienna, il Ba ron Bruck il Palatino. Trieste ri prendeva le sue linee con il Me diterraneo Orientale e il Mar Nero, con l’India e l’estremo Oriente, con le Americhe. I suoi cantieri a fabbricar nuove navi: tra le due guerre i triestini vi- dero scendere dagli scali e far le prove nel golfo colossi come il Conte Grande e il Conte di Sa voia, la celerissima motonave Victoria, le due coppie della Saturnia e Vulcania, dell’Oceania e Neptunia.

Oggi, dopo 10 anni dalla fine della seconda guerra, i vuoti e gli aspetti statici del porto sono una meraviglia. Dal piazzale di Sant’Andrea osservavo giorni fa la selva delle gru del porto nuo vo: alte, immobili, come ferma te da un incantesimo. Solo dopo aver abituato l’occhio a quella immobilità, m’accorsi che, di tan to in tanto una, al margine, si abbassava e si risollevava giran do pigramente sul collo il suo muso di bestia favolosa. Che co sa andasse a cercare, tuffandosi in quell’im- menso stagno incanta to, non mi riusciva di indovina re, ma forse da quel moto, da quell’embrione di moto poteva venire alla mia fantasia l’estro d’immaginare un improvviso disincantamento: quella foresta di acciaio riprender vita, stormi- re sotto il vento allegro del lavoro; bacini e moli popolarsi di navi, grappoli di merci in sacchi, in balle, in barili, librarsi sopra di esse, volteggiar festose e calare rapide verso le ampie bocche dei magazzini.

Ma l’immaginazione fiabesca è cosi lontana dalla realtà come queste rive d’og- gi da quelle di ieri. Chi avrebbe potuto pensare che invece dei lunghi carretto ni, dei camion in attesa del ca rico, su queste rive si sarebbero allineati sempre più fitti gli au topullman, lustri di vernici viva ci, per sbarcar comitive di gi tanti? Ven- gono a centinaia: dal Friuli, dal Veneto, dall’Emilia, dalla Lombardia, da ogni parte d’Italia, a conoscere la città so rella che per tanti anni fu divi sa dalla patria. E ven- gono anche dall’Austria: forse l’eco d’una antica tradizione li suggestiona e li muo- ve verso quello che in tempi lontani fu il porto, il gran de prosperoso porto, l’unico sboc co dell’Austria sul mare. Friu lani e carinziani, stiriani e vene ti si mescolano, gironzolando per rive e moli e imbevendosi di mare gli occhi stupiti; piccoli mo- toscafi li caricano a 100 lire per persona e gli fanno fare un giro per il porto. Li vedete con sporte, e fiaschi di vino — son tutti turisti di piccolo calibro — che invece di cercarsi un’osteria, si mettono sulle panchine o scio rinano gli involti con la colazio ne sui tavolini di questo o quel bar del lungomare. Quale im pressione si riportano a casa del gran porto di Trieste? Forse in molti, con la stanchezza del gi- rare a vuoto, resta la punta d’un desiderio: mettersi con la lenza a pescare pazien- temente, come hanno visto fare a ragazzi e a vecchi lungo tutte le rive.

Da piccolo, a Servola, mi fer mavo spesso davanti al grande edificio della “Casa degli emi granti”; vi convenivano gli emi grati stranieri dalle terre del Centro Europa e dell’Europa Orientale e s’imbarcavano per le Americhe sui piroscafi della Cosulich, dell’Austro-Americana. Erano ruteni, rumeni, polacchi coi ca- pelli lunghi, ungheresi, balcanici. Merce umana di transito. Mi facevano pena così sperduti coi loro fagotti, con quella aria malinconica di sradicati. Gli operai triestini che, là vicino, affluivano ai rumorosi cantieri, all’Arsenale, parevano, nel confronto con quegli emigranti, umanità privilegiata: sicuri del pane, immessi in un giro e in un ritmo di lavoro che, non che re spingere mai le loro braccia, al- tre ne avrebbe richieste. Il quar tiere operaio sul colle di San Gia como, sovrastante i cantieri, mostrava nella sua fisonomia [sic] po polare l’orgoglio della stabilità o dell’ordinata crescenza.

Da allora ho fatto i capelli bianchi. Per San Giacomo son passato un giorno di questi tempi. La “Casa dell’Emigrante” non esiste più. Tutta Servola è cam biata e il quartiere di San Gia como visto dalla parte dell’Arse nale ha tutto un altro aspetto. Sulla pendice prospiciente il val lone di Muggia è nato un nuovo quartiere bor- ghese col bellissi mo nome di “Campi Elisi”. La città sembra insignorita tra lus so d’automobili o appariscenza. Ma le gru non si sono messe ancora in moto e per udire il rumore dei cantieri bisogna ten dere gli orecchi.

Quel giorno che passavo per San Giacomo, mi fermai, per ascoltare, presso un crocchio di donne; parlavano d’argomento che, si vedeva, le agitava molto. L’im- pressione che riportai da quei discorsi, dal tono di quei discorsi fu più grave di quanto m’aspettassi: più che d’uno stato d’animo profondo, mi chiarì d’uno sta- to di fatto straordina rio. Quelle donne parlavano di contratti di lavoro con paesi lon tani, di partenze, di lunghe tra versate. Molte famiglie d’operai triestini sono infatti ora costrette ad emigrare. I figli, i nipoti di quegli operai che avevo visto,

110 da piccolo, affluire sicuri all’Ar senale e ai Cantieri, devono cer carsi lavoro oltre gli oceani. Avvenimento nuovo, mai prima avveratosi, nelle vicende di que sto nostro porto invidiato. Avve nimento in sordina, senza clamori, che occupa poco posto nel le cronache dei giornali locali. Ma chi non abbia assistito ad una delle ormai tante partenze d’emigranti triestini per l’Au stralia, non sa con quale ani- mo, con quale emozione la città si stacca dai suoi figli.

Un pomeriggio ho visto partire la Paulo Toscanelli con gli emigranti triesti- ni. La bianca motonave era attraccata al molo della Stazione marittima. Come gli emigranti s’imbarcavano, fin da mezzogiorno, infoltiva la gen te venuta per salutarli: parenti, amici, cittadini che in quell’oc casione si sentivano affratellati coi partenti. Al momento della partenza ci sarà stata sulle rive adiacenti alla Sta- zione Maritti ma una folla di più di cinquantamila persone. Tra la candida nave, gremita d’emigranti sulle murate, sui pontili, fin sugli alberi, e la folla stipata, brulican te sulle rive, si stava svolgendo un dialogo commosso, interrotto e ripre- so, con grida, movimenti, richiami. Tutto il cuore della cit tà era là, in quei salu- ti, in quel le raccomandazioni, in quegli addii: tutto il temperamento del popolo triestino si esprimeva in quelle manifestazioni, del popolo che sa essere spiritoso anche fra le lacrime, vivace pur nella di sgrazia. «I va, i va, e noi restemo; anca se imbarcaremo tuta la zità... sempre alegri e mai passion», diceva un giovane ope- raio con l’occhio lucido e la bocca amara. «Andè, andè, fioi, feghe onor a Trieste!», racco mandava un altro operaio anzia no. E una vecchia nonna! Era là, sorretta dai parenti, e continua mente chiedeva se Rico fosse a bordo, e dove fosse, se avesse la sua sciarpa rossa intorno al col lo, se salutava, se sorrideva, e se la traversata fin laggiù sarebbe stata buona; non volle muoversi di là, neanche quando la nave si staccò e girò al largo; la gen te cominciava a sfollare fra com menti e rimpianti: «Nonina, sù, la se movi», ma la vecchia non si decideva e, col volto rigato di lacri- me, andava ripetendo: «Cossa che me toca veder!».

A Tarvisio salgono sul treno i controllori austriaci. Molto compito, l’agente in borghese che ti chiede il passaporto, sbrigativa la finanza. Il treno riparte e la bella Carinzia coi suoi freschi pascoli e le sue verdi montagne ci viene incontro. Sono in Austria. Vecchia conoscenza. L’avevo lasciata nel ’22, non c’ero più torna- to. Quando, nel ’21, vi ero passato per andare in Boemia, l’Austria era ancor tutta affondata nel proprio disastro. Il crollo dell’Impero asburgico aveva fatto penosa impressione anche a me, che ero stato fra quelli che avevano combattuto volon- tariamente perché avvenisse. Il grande Impero secolare pesava con le sue rovine sul piccolo Stato repubblicano rimasto in vita, messo alla pari con Jugoslavia e Cecoslovacchia, staterelli sorti dal nuovo ordine. Solo che, mentre questi si avvia- vano con giovanile baldanza verso il loro avvenire, quello stentava a riprendere fiato. Dell’antica dignità e grandezza pareva non ci fosse rimasto più nulla, se non qualche vecchia uniforme. Avvilimento e ripicco erano nei tratti e nei modi dei suoi funzionari: la mentalità dei poliziotti e della dogana s’era fatta astiosa. Per andare da Trieste a Praga dovetti passare tre confini con le soste interminabili e le noie di tre controlli meticolosi, con timbri e ritimbri e visti sul passaporto. Mi fecero scendere due volte ai vari uffici di dogana per uno scialletto che portavo in regalo ad amici di Praga. Ebbi subito la sensazione di quanto la guerra ci avesse

«La Stampa», 3 agosto 1955