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La memoria è nella vita dei popoli, come in quella degli individui, il fondamento del progresso. Chi crede che la vita sia soltanto nel domani e trascura la memoria, toglie il nervo al proprio sviluppo. Quei popoli e quegli individui sono equilibrati e forti, che alla visione dell’avvenire uniscono la coscienza del passato. Far giusti- zia della propria storia, sceverarne il vero dal falso, gli errori dalle buone azioni, è come riconoscere più profondamente se stessi, la dignità dello spirito umano, che opera in continuità razionale e non per arbitrarie intermittenze.

Motivi evidenti hanno generato il disorientamento morale della nostra epoca, per cui oggi si tende disgraziatamente a negare ogni valore alla storia, si ritorna con pessimismo e scetticismo a uno stato di natura, dal quale non si vede salvezza se non in una palingenesi mistica, illusione tanto più pericolosa in quanto fa ca- dere gli animi scettici e stanchi nel difetto opposto, nella credulità e nell’aspettati- va di un’era fantastica irrealizzabile, quale sarebbe la cosiddetta felicità dei popoli, il paradiso in terra, la stasi del benessere, che come un sole perenne dovrebbe splendere su una vita inerte, disanimata della sua stessa drammaticità originaria.

Soltanto la storia può darci l’equilibrio, la serenità del giudizio, e formarci il carattere. Nella storia riconosciamo le nostre virtù e i nostri difetti, per riallacciar- ci a quelle e correggere questi. E se mai ci fu un’epoca in cui è stato necessario far tesoro della storia, è proprio questa nostra epoca delusa, convulsa, disorientata.

36 Vive ancora la generazione che ha fatto e patito l’altra guerra e tale generazio- ne, se non sia stata proprio del tutto offuscata da venti anni di conformismo e di servitù, può oggi testimoniare quale fosse l’animo dell’Italia allora, dell’Italia del maggio del ’15, di Caporetto, del Piave e di Vittorio Veneto: quale la realtà storica della nostra Nazione, che seguendo le generose direttive del suo Risorgimento si alleava con le Nazioni amanti della libertà e della giustizia contro i popoli domi- natori e contribuiva con immensi sacrifici di sangue a quella vittoria sugli Impe- ri Centrali, che donava a vita indipendente le piccole nazioni dell’Europa centro e sud-orientale e, tra le altre, la Jugoslavia.

Ma c’è un’altra testimonianza, ben più sicura e immutabile, ed è la testimo- nianza di quelli che son caduti nell’altra guerra, sacrificandovi volontariamente la propria vita. Questi morti ci hanno lasciato un retaggio, che nessuna offesa ha il potere di scalfire e nessuna ignoranza di render vano. E chi può ancora in buona fede (degli altri in mala fede non parlo) dubitare, per perplessità d’animo o pusillanimità di giudizio, dell’appartenenza di Trieste e dell’Istria all’Italia, veda le lettere e gli scritti dei nostri volontari caduti nella guerra di redenzione.

Non rettorica postuma, come più volte ne ha fatto il fascismo, non ambizioso elenco di nomi gloriosi, ma la verità più profonda dell’animo espressa, davanti alla morte e nei più gravi pericoli, da chi nulla si riprometteva, se non la sicurezza d’essere a posto con la propria coscienza.

A rileggere, a leggere oggi quei quattro volumetti in cui G. Gall Uberti, intorno al 1926, raccolse le lettere e i diari dei volontari giuliani1 (e formano appena una

incompleta e rapida silloge di quello che i combattenti di queste terre, morti in guerra, hanno scritto allora), non può esserci né italiano né straniero che non senta la comunione di spirito, di ideali e di volontà che legava friulani, triestini, istriani alla loro Patria.

Non c’è epopea lungo tutto il fronte italiano e nella Francia e nella Macedonia dove combatterono gli Italiani che non sia stata nutrita anche del sangue volontario di que- ste terre. Tutti i ceti, le classi, tutte le condizioni, le età vi son rappresentate: studenti e vecchi professori, artigiani, maestri, operai, nobili e popolani, cittadini e campagnoli. E dietro questi combattenti, bisogna immaginare i padri, le madri, le sorelle, i fratel- lini, tutte le famiglie che son rimaste di qua, nell’attesa, nella trepidazione, nell’ango- scia, e quasi sempre con una consapevole fierezza che li rende degni di Loro.

Mai come a quei tempi la nobiltà dei sentimenti umani s’è così sublimemente armonizzata con la fede nella Patria. I sacrifizi, le privazioni si corrispondevano da una parte e dall’altra. L’impenetrabile barriera di fuoco che li divideva mate- rialmente, non impediva, anzi intensificava, la comunione degli spiriti; e i com- battenti e le loro famiglie si ritrovavano uniti nella loro stessa fede, nelle stesse speranze. L’Italia era nei cuori e nelle menti, negli atti quotidiani e nelle azioni eroiche, nell’anima di chi andava felicemente incontro alla morte e di chi fiducio- samente, pazientemente aspettava che il destino si compisse.

1 G. Gall Uberti (a c. di), Documenti di gloria, Biblioteca di coltura de “La Vedetta italiana”, Trieste 1927 e Id. (a c. di), Lettere di volontà e di passione: nuova serie, Biblioteca di coltura, Trieste 1927.

La commozione che si prova leggendo quei diari, quelle lettere che non poteva- no essere indirizzate se non raramente alle famiglie, ma che vibravano tutte di loro, quei testamenti dove i cuori si mettevano a nudo, ci eleva e ci rinfranca, sopra tutto oggi, nell’avvilimento a cui ci costringe la malafede altrui o il male inteso interesse.

Noi triestini sentiamo che nelle parole di quei nostri morti, tanto più commo- venti quanto sono più semplici, dettate da anime semplici c’è la nostra verità, l’in- cancellabile diritto ad essere quello che siamo: Italiani nelle fibre più intime, nei sentimenti più profondi, nella concretezza stessa della nostra vita. Non possiamo rinnegare quei morti, non possiamo respingere il loro retaggio, perché nulla di più libero e sacrosanto è stato espresso dalla nostra gente, che non sia la loro fede e il sangue per questa versato. Il nostro avvenire è strettamente, profondamente unito a quel passato, la nostra continuità è soltanto nella visione che Essi hanno avuto.

«Ricordino – ammoniva Giuseppe Vidali2 – che non si sale all’Umanità senza

aver fuso prima come in una sola grande famiglia le menti e i cuori di quanti fanno la Nazione».

La stessa verità, per tutti, ha espresso Lodovico Viezzoli3 nel suo testamen-

to, quando si rivolge al fratellino rimasto a Trieste: «Ricorda come è morto tuo fratello per la Patria, amala anche tu… e ti auguro che tu possa pensare anche all’umanità tutta, quando avrai soddisfatta la Patria». «Consolati – dice poco più su alla madre – pensando che tuo figlio è morto per dare una vita più lieta ad al- tri». Vent’anni aveva Lodovico Viezzoli quando cadde sull’altipiano di Asiago.

E vent’anni aveva Pantaleone Zottig4. «Tutta una fioritura di antiche speranze

ora sono tramontate, e per sempre. Noi restiamo i soldati del Dovere e questo do- vere è un gigante, è un enorme Dio. Per noi oggi Dio è la Patria che non deforma i suoi figli, che non cancella il suo passato, che pugna per l’avvenire. Unico nostro conforto è questo ancora: possiamo cader trafitti difendendo l’Italia. Dell’altro non c’importa. Ieri sera da un’altura dominante io spingevo lo sguardo ingordo sulla mia città. Come è bella! Sembrava crollata su se stessa in doloroso abbando- no, come di chi piange ed aspetta e spera. In una delle case certo c’era la mamma mia che sospirava… Ah se la mia povera mamma potesse sapere ch’io son qui vi- cino e lontano, e che ho tanto sofferto e pianto. Potete dire: Coraggio mamma, tuo figlio vive, tuo figlio non ha smentito se stesso: egli è corso al cimento, fiero e superbo di poter lottare per la Patria agognata».

E così son tutti, tutte le centinaia dei nostri morti, senza presunzione, sen- za manie né desideri di conquista, non esaltati a vuoto, ma puri dentro una sola fede, fede nella libertà e nella giustizia. E così Trieste ha palpitato e palpita ancor oggi con Loro.

2 Su Giuseppe Vidali, irredentista istriano e volontario nella Grande Guerra, fondatore della De- mocrazia Sociale di ispirazione repubblicana, notizie in G. Fogar, Dall’irredentismo alla Resistenza

nelle provincie adriatiche: Gabriele Foschiatti, Del Bianco, Udine 1966, pp. 26-27, 34-35, 44-45.

3 Triestino, Sottotenente del 228° Reggimento di Fanteria (“Brigata Rovigo”), caduto il 28 giugno 1916. Cfr. http://www.frontedelpiave.info/public/modules/Fronte_del_Piave_article/Brigata-Rovigo. 4 Volontario mazziniano, triestino: Fogar, Dall’irredentismo alla Resistenza cit., p. 45; suoi scritti in B.M. Favetta, Trieste e l’Italia nelle lettere dei volontari giuliani, Cappelli, Bologna 1968.

«L’Illustrazione italiana», 31 marzo 1946

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