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68 l’indipendenza della patria comune, anche qui germinò il sangue dei martiri — e per tutti rievochiamo quel Guglielmo Oberdan che, vittima cosciente, gettò la pro- pria, nuda vita a sfida d’un impero, e vinse, lui solo, indifeso contro una immane potenza organizzata, perché la libertà, o presto o tardi, vince sempre nella storia — dovrebbero ricordarlo i governi oppressori, di tutti i tempi. Erano, quelle giornate indimenticabili del ‘18, coronamento al sangue degli italiani, redenti e irredenti, pro fuso insieme in una fraternità consacrata dal più nobile e generoso ideale di patria, su tutti i fronti, dalle nevo se cime delle Alpi al mare di Monfal cone. Qua- rantun mesi di lotta ininterrotta e asprissima! Settecentomila morti!

E molti di quei triestini, di quelle donne triestine, che nell’ebbrezza della Re- denzione, coi visi pallidi, gli occhi febbrili ed umidi di pianto, erano usciti dalle loro case tristissime e si trascinavano per le vie con le coccarde tricolori al petto, applaudendo, esaltandosi, giravano intorno lo sguardo ansioso e in ogni gruppo, in ogni drappello di soldati, di marinai italiani cercavano un loro caro: un figlio, un fratello, un fidanzato. Da tre, da quattro anni non sapevano più nulla di loro. Sareb- bero ritornati? La lapide che oggi si riscopre, porta in cisi i nomi di quelli che non tornarono. Mutilata nella recente guerra, quasi che dal destino fosse commesso ai morti di scontare gli errori dei vivi, i triestini l’hanno voluta giustamente rein- tegrare nella sua luminosa e austera nudezza, perché ricordi a tutti, di dentro e di fuori, che il sublime sacrificio di quei Caduti non può, non deve essere stato vano.

La guerra del ‘15-18 fu una guer ra di rivendicazione e di giustizia, che la merita- ta Vittoria suggellava. Tutta la popolazione triestina era esultante, l’intero popolo triestino era per l’Italia, quel popolo che pochi giorni prima, quando a Lubiana si farneticò d’incorporare il Litorale Adriatico alla Jugoslavia, insorse compatto e creò il suo Comitato di sa lute pubblica, in cui socialisti e liberali fino allora avversari agirono concordi sul terreno nazionale. Quella fu veramente libera scelta e libera espressione, quello fu il nostro plebi scito, prima ancora che l’esercito ita liano vit- torioso mettesse piede in cit tà. E ciò va ricordato a coloro che hanno potuto dubita- re, in tempi re centi, del carattere di queste nostre terre e che non solo non ci hanno per messo d’esprimere liberamente la no stra volontà, ma che per quaranta giorni ci hanno lasciato in balia di chi pretendeva che avvallassimo il sopruso e la prepoten- za sotto la mi naccia delle mitragliatrici puntate in tutti gli angoli delle vie.

Noi non siamo né dei fanatici, né dei misconoscenti. Noi riconosciamo che senza l’Esercito degli Alleati sa remmo stati travolti, inermi e indife si come era- vamo. Ma noi chiediamo al popolo inglese e al popolo americano e soprattutto ai loro governi: «Perché avete atteso ben tre anni, do lorosi e tragici per noi, prima di dar ci atto apertamente d’una realtà, che sin dai primissimi giorni dell’occupa- zione si presentò lampante anche agli occhi di chi ignorava la nostra storia? Per- ché tutto questo tempo, e dopo aver permesso lo strazio di Zara, di Fiume, il sui- cidio di Pola e la tragedia di tutte le nostre belle città istriane, italianissime fin nelle pietre, perché? prima di riconoscerci il dirit to palese, naturale, riconsacrato col nostro sangue nella guerra del ‘15-’18, che fu anche la vostra guerra, il di ritto di appartenere all’Italia?»

Sappiano gli Alleati — e per le stesse tradizioni democratiche dei lo ro paesi do- vrebbe esser loro facile di saperlo — che il solo, il vero territorio libero è quello della propria Pa tria, dove si possa vivere in libera co munione con coloro che ci sono fratelli per costumi, per linguaggio, per civiltà.

Nessuno meglio di un nostro poeta, modesto e grande poeta che gira tutt’ora per le nostre strade come un qualunque cittadino sconosciuto, ha saputo coglie- re, proprio nei giorni ricordati della Redenzione, l’anima d noi triestini. Lascia- temi ripetere, quello che allora, con la sua schiettae commossa semplicità, disse Virgilio Giotti: «Dovesse un giorno essere il Mediterraneo un laghetto e l’Italia uno scoglio e gli italiani venti persone, io mi sentirei ancora italiano, né altro vorrei essere né altro sentirmi»

Sì, prima di essere mercanti, prima d’essere lavoratori del braccio e del cervel- lo, noi siamo italiani e come tali vogliamo condividere in tutto e per tutto la vita e il destino della nostra Nazione.

È imperialismo questo? È volontà di sopraffazione? Furono imperialisti, sopraffato- ri [sic] i combattenti italiani che nel 1918, quando avrebbero potuto passar oltre nell’im- peto della vittoria,si fermarono ai giusti confini che la natura aveva dato all’Italia?

Il popolo italiano non è militarista, non ha gli istinti barbarici del “guerriero” (la parola stessa non è latina), troppa civiltà è passata per il suo sangue. All’oscuro “onore militare” di marca straniera in nome del quale si possono commettere tante scelleratezze (e tante son state commesse sotto i nostri occhi) egli preferi- sce la coscienza di battersi con coraggio per un principio universalmente umano. Perché il popolo italiano è un popolo che si batte e si batte eroicamente, se sono in gioco la libertà e il diritto; se è l’amore alla propria terra che lo spinge a difen- derla anche a rischio dei più gravi sacrifici. E lo ha dimostrato al Piave, quando risollevatosi dalla sciagurata ritirata di Caporetto, ha saputo fermare col coraggio della disperazio ne il nemico imbaldanzito e potente, lo ha dimostrato a Vittorio Veneto, quando ha saputo ricacciare dal suo lo della Patria l’occupatore.

Ma a noi, che quell’epoca eroica abbiamo vissuto, a noi che abbiamo vissuto le grandi giornate della no stra Redenzione, che abbiamo assi stito all’epilogo glorio- so, — per ripe tere le parole che ebbe a dire in quei giorni un nobile vegliardo, Giu- seppe Marcora1, da molti anni presidente della Camera dei Deputati — «l’epi logo

di un secolo di dolore, di perse cuzioni, di martiri, di cospirazioni, di insurrezioni, di guerra...», quando credemmo di poter affermare che «nessun piede straniero calpesta più né più calpesterà il Trentino nostro, né Trieste figlia di Roma, né altre nostre terre...», a noi era purtroppo riservato dal destino d’assistere, nello svol- gersid’una sola generazione, alla più dolorosa tragedia della nostra Patria: invasa dal settentrione a mez zogiorno, da occidente ad oriente, la vedemmo ripiombare nella rovina dei secoli, ridiventare campo di battaglia e di distruzione per eserciti

1 Avvocato e politico italiano (1841-1927), di orientamento mazziniano, esponente dell’Estrema e poi del Partito radicale, resse la carica di presidente della Camera dei deputati dal 1904 al 1919 (con un’interruzione di pochi mesi tra il 1906 e il 1907). Cfr. G. Spadolini, I radicali dell’Ottocento

(da Garibaldi a Cavallotti), Le Monnier, Firenze 1972; A. Galante Garrone, I radicali in Italia (1849- 1925), Garzanti, Milano 1973.

70 non nostri, ludibrio di tutti gli stranieri. La nostra terra, la Venezia Giulia, stacca- ta di nuovo dalla Madrepatria, divisa e martoriata. A noi di sentir fremere le ossa dei nostri Caduti, dei trentamila morti di Redipuglia, quasi che ci rimproveras- sero di non aver seguito il loro monito: «Sappiate vivere come noi morimmo!» «Che il nostro sangue non sia sparso invano!».

E la colpa, sì, fu anche nostra. Ma se noi ci volgiamo indietro a considerare i trent’anni di storia penosa che ci dividono dai giorni fulgidi della nostra Reden- zione, non è per coltivare in noi inutili rammarichi e rancori, ma è per piegare l’animo riverente dinanzi ad altri morti, ai caduti di altre guerre, che meritano la nostra pietà e la nostra devozione e che questo nostro colle onora nel ricordo in- sieme con tutti gli altri. Perché il nostro pensiero riconoscente va a tutti i morti, a tutti coloro che col sacrifizio della vita hanno dimostrato, in ogni contingenza, d’aver fede nella Patria. Ma non dobbiamo permettere che su questi morti si fac- ciano delle indegne speculazioni, che in nome loro si coltivino nostalgie di tempi rovinosi per la libertà e per la Patria.

Noi ci volgiamo indietro al recente passato, non per rammaricarci, ma per trarre ammaestramento dai nostri errori, per rinsaldare la nostra coscienza nei principi e nello spirito che hanno sempre animato la vita del nostro popolo, che l’hanno sorretto nella difficile ascesa della sua storia, e che sono principi e spiriti cristiani di libertà, di civiltà, di solidarietà umana. Un popolo che ha universaliz- zato 1’insegnamento di Cristo, che ha dato all’Europa e al mondo l’arte e il pensie- ro moderni, che ha suonato la diana all’emancipazione e a la fratellanza di tutti i popoli, può esser traviato momentaneamente, ma non può non ricongiungersi definitivamente alla sua luminosa tradizione, non può non continuarla.

E, in realtà, se l’Italia fu salvata sull’orlo della rovina, lo si deve agli italiani stessi, che insorsero prima spiritualmente nella loro coscienza, nei loro senti- menti, e poi fisicamente nelle capanne e nelle officine, per i monti e perle città, da per tutto, in una lotta oscura, difficile, doppiamente ingrata e dolorosa, ricca di sacrifizi e di sangue. Ma in questa lotta e con questa lotta essi dimostrarono al mondo che l’Italia amava la Libertà, combatteva per la Libertà, sapeva morire per la Libertà e la Giustizia.

Il filo era ripreso, gli ideali per cui gli italiani avevano combattuto e vinto nel 1918, tornavano a illuminare, pur tra le rovine, la giusta via. E un’altra volta, come in tutti i momenti più gravi e gloriosi del Risorgimento, la Venezia Giulia fu degna della Patria. Non dimentichiamo che qui gli ostacoli alla resistenza e alla lotta par- tigiana furono infinitamente più gravi che in ogni altra regione d’Italia. I tedeschi erano scesi per tutte le contrade d’Italia, ma qui da noi avevano posto il piede da padroni con la baldanza e la sicurezza di restarci per sempre. Fin dal settembre del 1943 essi aggregarono, di fatto se non di nome, questa nostra terra al Reich nazista e la considerarono loro propria. Qui stesero la rete minuziosa e formidabile della loro organizzazione politica, militare e poliziesca. Qui ogni intenzione avversa era sorvegliata e perseguita, ogni ribellione stroncata sul nascere. Qui, in realtà, non eravamo più considerati cittadini italiani, ma futuri sudditi tedeschi.

E un altro ostacolo per noi rappresentava la vicinanza degli slavi. Ogni nostra generosa offerta di solidarietà nella lotta era accolta con diffidenza: sospettavano di noi, perché nascondevano in loro stessi un piano prestabilito, quello di sopraf- farci al momento opportuno, il piano che non avevano potuto effettuare nell’ot- tobre del 1918. Tedeschi e slavi si contendevano una terra che era nostra.

Ebbene, in queste tremende condizioni, i giuliani non furono secondi a nes- suno nella ribellione morale, nella resistenza e nell’azione partigiana. I campi di deportazione della Germania sono segnati dai nostri martiri; e fra questi lascia- temi ricordare i più oscuri di tutti, quei soldati che non firmarono, ben coscienti di ciò che li aspettava. Gli impiccati, i fucilati, i caduti per la causa della libertà, ful- gidi e oscuri, imprimono a lettere d’oro il nome della Venezia Giulia sulle tavole memorande del riscatto d’Italia.

Come per una nobile espiazione, come a serrare l’anello della continuità della nostra storia, i martiri e i caduti della Libertà si ricongiungono con i martiri e i caduti della Redenzione. I loro spiriti aleggiano oggi su questo colle di San Giu- sto, che è la nostra rocca, la nostra chiesa, il custode delle nostre memorie e della nostra fede. E ci guardano, ci sorreggono, ci ammoniscono a persistere, a lottare per la nostra causa sacrosanta, che è causa di giustizia e di esistenza.

Fratelli dalmati, fratelli istriani, voi siete con noi una carne sola, un’anima sola nell’amarezza che rattrista ma non abbatte i nostri cuori, voi siete con noi nella stessa promessa che facciamo ai nostri morti d’esser degni di loro, ma non a parole, quelle parole che tutti sanno dire e possono nascondere oblique intenzio- ni, bensì con la coscienza diritta di saper essere fedeli ai loro ideali.

La nostra amarezza oggi è confortata dal riconoscimento che ci viene dal libe- ro Governo della Repubblica italiana. Noi siamo grati e orgogliosi per la Medaglia d’Oro al Valor Militare conferita a Trieste, perché attesta che sulle trincee asse- gnateci dalla Nazione noi non abbiamo dormito, ma abbiamo vigilato, agito, re- sistito fino allo stremo delle nostre forze. Ma vorremmo che anche tutti i fratelli italiani ci capissero e ci approvassero. Qualche volta ci sanguina il cuore, quando da lontano ci rimprovera no d’essere nazionalisti, fomentatori d’odio e di discor- die. Ma se siamo qui, aggrappati disperatamente all’ultima difesa rimastaci, dopo lo scem pio che han fatto dei nostri sacro santi confini! Che cosa vorrebbero da noi? Che ci scavassimo da soli la fossa e da soli ci buttassimo dentro, per far da tappeto all’espansione di un popolo straniero che non attende se non questo? Ma sappiano i fratelli italiani che con la nostra debolezza, col nostro cedimento, con la nostra rovina, tutta la pianura veneta, tutta la nostra bella terra italiana sareb- be aperta all’invasione. Come affermò un intelligente giornalista delle vecchie provincie nel giorno dell’Annessione: «Senza Trieste, l’Italia non potrebbe essere mai veramente libera, indipendente, sicura».

Ditelo voi, istriani e dalmati, raminghi e sventurati, se siamo stati noi i primi a rompere il patto civile della fratellanza dei popoli. La propaganda è la propagan- da, ma i fatti sono i fatti e sono essi che parlano con la loro crudezza. Ci sieno re- stituite le nostre città, i nostri campi, i monumenti dell’arte nostra, i nostri cimi-

72 teri, e noi non solo non nutriremo rancori, ma dimenticheremo generosamente il male che ci è stato fatto e tenderemo la mano ai nostri vicini per scambiarci pane, lavoro e civiltà.

E ai potenti che hanno in mano le sorti del mondo noi diciamo: “Lasciateci essere italiani, concretamente, fattivamente italiani, perché in quest’ora grave, piena d’immani pericoli, noi con l’esperienza d’una civiltà millenaria, da questo angolo d’Italia dove confluiscono popoli diversi, possiamo contribuire alla rico- struzione, alla pace, al bene d’Europa».

Perché Giani Stuparich