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Nel mare della storia l’umanità ha più volte sfiorato le coste d’una terra meravi- gliosa, con l’intenzione d’approdarvi o di entrare per lo meno in qualche suo por- to di fortuna: ma ha dovuto sempre abbandonare tali tentativi. Quella terra me- ravigliosa è il Regno della Pace: terra desiderata, anelata, vista e intravista, fertile e affascinante. Ma fino ad oggi, per gli uomini, inaccessibile. Difatti, tutte le volte che l’umanità stava per spuntarla e già si riprometteva un soggiorno beato senza fine su quel continente proibito, un vento levatosi all’improvviso, una minaccia di scogli inopinatamente affiorati, un fatale errore di manovra la respingeva in alto mare, sicché essa veniva a trovarsi di nuovo fra le onde inquiete e sotto nuvo- le poco rassicuranti o nuvoloni carichi di brontolii temporaleschi.

È vero, in tutti questi anni noi abbiamo evitato il peggio; la terza guerra mon- diale non c’è stata; ma noi abbiamo vissuto anni difficili e angosciati, tra un sussulto e l’altro: la lontana guerra di Corea (ma oggi che cosa può significare la parola lontano coi mezzi di comunicazione e d’informazione che abbiamo?), la guerra dell’Indocina, la guerra più prossima a noi in Egitto, la guerra in Algeria e le agitazioni e i torbidi nell’Asia Minore1. E più ancora molesta di questi sporadici «Il Tempo», 6 gennaio 1960

1 L’autore elenca una serie di conflitti che segnarono il quadro internazionale nel secondo do- poguerra. La guerra di Corea, che ebbe luogo tra il 1950 e il 1953, determinò una delle crisi più gravi della Guerra fredda e si risolse con la suddivisione del Paese nei due Stati ancora oggi

128 focolai, che avrebbero potuto accendere l’intera polveriera e condurci a un con- flitto mondiale di proporzioni enormi e di conseguenze disastrose, più ancora insidiosa la guerra fredda, che ci tenne continuamente, in tutti questi anni, sot- to l’incubo delle bombe atomiche, che ci snervò nell’incertezza di una vita senza prospettive o di prospettive catastrofiche. La guerra fredda! La prima volta nella storia dell’uomo che si ricorre a un modo di guerra così diabolico. La tensione di due campi avversi che si affannano in gara a chi arriva prima a fabbricarsi le armi più potenti e micidiali per scaricarsele addosso. Come se non fossero bastate due calde guerre mondiali, alle nostre generazioni doveva esser riservato il privilegio di sperimentare una guerra di nuovo conio: la guerra fredda. Una spada di Damo- cle su tutta l’umanità.

Quanti Natali siamo stati costretti a festeggiare, intirizziti dalla guerra fredda e indotti a riflettere, di conseguenza, su questa nostra umana natura, incapace di seguire la via della salvezza, della ragionevolezza, incline a lasciarsi trascinare dalla violenza, a perdere tutte le sue conquiste civili, piuttosto che consolidarle in quello spirito veramente distensivo, in quello spirito di vera carità e amore, che ci è venuto dall’esempio e dall’insegnamento di Gesù.

Ma il Natale di quest’anno, sì, abbiamo potuto finalmente risollevare gli ani- mi alla speranza. Il 1959 è stato un anno che segnerà una svolta, e speriamo deci- siva, nel corso della storia. Non è soltanto l’anno dei missili lunari2, ma è l’anno

in cui tra gli uomini è stato gettato il seme della pace, di una pace piena e univer- sale. Mentre volgevamo gli occhi alla Luna, e ai razzi lanciati per raggiungerla, si apriva non senza rumore la cortina di ferro che divide il mondo. Ne usciva un

“grande”3, non per dichiarare la guerra tante volte minacciata, ma per proporre

inaspettatamente la pace. Le mani che i due potenti avversari si tendevano, anche se ancora timide e sospettose, attiravano gli sguardi di milioni e milioni di uomi- ni, speranzosi e increduli, entusiasti e scettici, ma tutti in attesa di un grande fat- to, tutti in ascolto se il seme gettato fruttificasse e crescesse in pianta rigogliosa a coprire delle sue fronde le generazioni viventi e quelle future, o se, male accetto, inaridisse e lasciasse ancor più arida deserta e angosciata la Terra.

Come il tempo passa, quella sorprendente proposta di pace e di disarmo ge- nerale, che elettrizzò i nostri animi, sembra sempre più cedere del suo calore e

esistenti; la guerra di Indocina vide contrapposti dal 1946 l’esercito francese e il movimento per l’indipendenza del Vietnam, prodromo del conflitto che avrebbe insanguinato la regione negli anni Sessanta; l’accenno all’Egitto e ai “torbidi” in Asia minore vuole richiamarsi alla guerra del 1956 tra l’Egitto, da una parte, e la Francia e la Gran Bretagna dall’altra, per il controllo del Ca- nale di Suez, con i relativi focolai di tensione che in seguito avrebbero coinvolto anche lo Stato di Israele; infine, la guerra d’Algeria fu quella che si combatté tra la Francia e il locale Fronte nazionale per l’indipendenza tra il 1954 e il 1962. Per una panoramica d’insieme: M. Flores, Il

secolo-mondo. Storia del Novecento, vol. II (1945-2000), Il Mulino, Bologna 2005.

2 Già nel 1957 i sovietici avevano lanciato nello spazio lo Sputnik 1 e lo Sputnik 2 con a bordo la ce- lebre cagnetta Laika, seguiti rapidamente dagli Stati Uniti con il satellite Explorer (gennaio 1958). 3 Come si comprenderà proseguendo nella lettura, si tratta di Nikita Chruščёv (1894-1971), lea- der dell’Unione Sovietica dal 1953 al 1964, che affermò la teoria della “coesistenza pacifica” tra i blocchi della Guerra fredda all’assemblea delle Nazioni Unite del 18 settembre 1958.

del suo fulgore, sempre più adagiarsi negli schemi abitudinari della grigia vita. Vanno con i piedi di piombo gli uomini che hanno in mano i governi dei popoli, si fanno prudenti e avanzano con tutte le cautele. Si perpetua così quell’atmosfera di diffidenza, quella paura di scapitare, di perdere prestigio e potere, che invi- schiano e soffocano ogni impulso straordinario e coraggioso. Si dirà che la storia è guidata, anzi, deve essere guidata dalla prudenza e che gli slanci improvvisi del sentimento sono come le piene che rompono le dighe ed allagano le regioni; che il compito della storia è appunto quello di sistemare e rafforzare tali dighe.

Il disarmo universale! Vi immaginate voi che a un dato segnale i popoli del mondo, tanto i più agguerriti quanto i meno preparati, raccolgano precipitosa- mente tutte le armi di cui dispongono e che hanno accumulate in questi anni; mi- tragliatrici, cannoni, missili, bombe e bombe atomiche, ne facciano un mucchio e le distruggano sotto gli occhi delle popolazioni della Terra, festose e plaudenti? Quale falò, quale fiammata purificatrice! Quali abbracci e strette di mani e mana- te confidenziali sulle spalle tra gli uomini, tra le nazioni, ieri una all’altra infide e minacciose, oggi sgonfiate della loro boria, liberate dai loro rancori, portate tutte a un livello di vera fratellanza e di fiduciosa solidarietà! Gli uomini ritornerebbero alle loro case con un’emozione indicibile, non più stretti dappresso da un corteo di paure, ma con l’animo sciolto e ben disposto. L’umanità inizierebbe un nuovo gran- dioso ciclo, tutto rivolto al bene e al benessere, al progresso. Non più doppiezze, non più ipocrisie, non più guanti di seta sopra guanti d’acciaio, non più distorsioni di occhi dalla meta, per guardarsi timorosi alle spalle. Le immense ricchezze, prima profuse negli armamenti, messe a disposizione della scienza, della tecnica, del pen- siero; le poderose navi da guerra trasformate in navi da carico, destinate a distribu- ire fra i popoli le materie prime e i vari prodotti; i carri armati resi strumenti utili, poderose macchine agricole; i reattori e i missili, adoperati nelle più estese e veloci comunicazioni della Terra; la potenza atomica piegata a sciogliere i ghiacci dei poli, a trasformare in terre fertili i deserti, a diradare i grovigli delle giungle.

Questo quadro di immensa apertura e di splendido ottimismo ci si era pre- sentato subito davanti agli occhi, non appena abbiamo sentito diffondersi per le onde della radio la notizia strabiliante della mozione di Kruscev sul disarmo generale delle Nazioni Unite. Ma è appunto questo quadro che ha suscitato diffidenza in molti e che li ha indotti ragionare scetticamente. – Un’altra gran- de illusione, se non un inganno. Siamo ormai troppo esperti di promesse non mantenute, di raggiri, di colpi di propaganda, per credere che uno Stato poten- tissimo possa rinunciare di punto in bianco alla propria potenza, disposto ad un tratto a privarsi degli strumenti di guerra, che gli sono costati immenso denaro e immensi sacrifici. Tutto ha l’apparenza di una trappola, di un cavallo di Troia. Distruggiamo le armi, ma intanto che voi distruggete le vostre ed io fingo di di- struggere le mie insieme con voi, io mi riservo quelle segrete per balzarvi addos- so, quando sarete disarmati, e per sopraffarvi.

Un tale ragionamento, anche se non così esplicito, serpeggia nelle menti di molti, si annida nei meandri cerebrali degli stessi capi di governo, inaridisce il

130 terreno da cui dovrebbe germogliare la pianta meravigliosa della pace universale. Si torna alla diffidenza, ci si trincera dietro a baluardi di se e di ma, ci si rimette gli occhiali del pessimismo; ancora una volta il polso torna al soffocato ritmo dell’an- goscia, dopo quello sprazzo di raggiante speranza; la guerra fredda è ancora intor- no a noi, la minaccia delle bombe atomiche pende sopra il nostro capo.

Il 1960 che ci sta davanti, sarà un anno decisivo, ma non vorremmo che ci trovasse incerti e dubitosi, che nostro malgrado la decisione fosse per noi come la pietra che si mette sulle illusioni perdute. L’umanità soffre da molto tempo per questo stato di incertezza e ormai non saprebbe più sopportare il perpetuarsi delle condizioni in cui è vissuta tutti questi anni. L’umanità è malata, ma non rassegnata a considerare la sua un malattia cronica, che si trascini avanti fra brevi miglioramenti e lunghe ricadute. I dottori la auscultano seri, fanno tra di loro frequenti consulti, ma le diagnosi sono contraddittorie, e i rimedi escogitati sono tutti infirmati da dubbi ed esitazioni. No! L’umanità ha bisogno di un energico intervento e di una coraggiosa chiarezza di visione, che la liberi dai troppi com- plessi inibitori. Essa sa che nella storia arrivano dei momenti in cui la soluzione dei più intricati problemi affiora dal fondo ed è a portata di mano, basta saperla cogliere. Ma per coglierla, è necessario guardare davanti a sé con animo spregiu- dicato, risoluto e libero. Se si esita o si tentenna, se ci si lascia ammuffire da situa- zioni stantie o inceppare da resistenze ideologiche e politiche, l’occasione sfugge e non si ripresenterà più o, se si ripresenterà un’altra volta, sarà troppo tardi.

Ora l’anno che si è chiuso ci ha aperto la vista su due orizzonti fra di loro con- giunti: uno, da cui si leva con esaltanti promesse la scienza, rivolta alle più grandi conquiste dello spazio; l’altro, da cui irraggia uno spiraglio d’aurora fra spesse cortine di nuvole e foschia: un’aurora, che promette di diventare una giornata così serena, quale l’umanità non hai mai visto nella sua storia.

Un porto è sempre un porto, cioè una realtà fluente, l’immagine della vita. Pren- diamo pochi bacini del nostro porto di Trieste, gli usuali, tra molo e molo, lungo le rive, a contatto immediato con la città: e proiettiamoli nel tempo. Quale pro- spettiva! Mettiamo sessant’anni fa e scegliamo una giornata qualunque. Di là dal giardinetto di piazza Grande, la piazza del Municipio, in faccia al mare, sopra il verde d’un gruppo d’arbusti spuntano gli alberi d’un vaporetto, e tra le piante s’intravede un camino giallo o grigio col suo pennacchio di fumo. Vanno e vengo- no, da questo punto della riva, i vaporini della costa istriana.

Dal giardinetto di piazza Grande passiamo sulla riva, affacciamoci al mare. Ecco l’apertura del golfo, tra la Lanterna e la Diga, con sagome di navi all’ancora e con qualche vela lontana. Il molo San Carlo, nel mezzo. Di qua, a sinistra, un bagno galleggiante: ogni tanto un corpo umano terso si lancia a tuffo dal tram- polino. Di là, a destra, ferma sull’ancora arrugginita, una vecchia nave a tambu- ri: svelte bandierine colorate salgono e scendono su e giù per l’albero di prua, a ripetere i segnali della Lanterna. È annunciato l’arrivo di un piroscafo, in prima, seconda, terza vista. Cala l’ultima bandierina sulla nave a tamburi e già al largo della Lanterna si presenta il profilo della nave in arrivo. Sono i grandi piroscafi che vengono dalle Indie e dalle Americhe, dall’Egitto o dalla Spagna: occupano con la loro mole, lenta filante, quasi tutta la visuale del porto.

«Il Tempo», 4 febbraio 1960

132 Il sole va raggiungendo il suo culmine. Siamo in una di quelle limpidissime giornate invernali che fanno presentire la primavera: la temperatura è fredda, ma l’alito della primavera, non si sa come, è dappertutto, nel cielo e sulla collina rosata, nelle increspature del mare e tra le pietre del selciato, e anche sotto le ali dei gabbia- ni che si librano in alto sui bacini, ed anche in quel corpo di bagnate, che vibra tutto sulla cima del trampolino misurando lo scatto per il tuffo, e ti fa venire i brividi.

Il molo San Carlo intanto va popolandosi sempre più, sino a formare un va e vieni di due colonne di cittadini che si sbottonano cappotti e pellicce. Gran scap- pellate e sorrisi da una parte e dall’altra.. Il liston dal Corso è traboccato in piazza Grande e dalla piazza si è prolungato. Dagli uffici gli uomini, dalle case e dalle scuole le donne e i ragazzi, molti di questi ancora coi libri sotto il braccio, sono usciti a godersi il sole nella passeggiata del mezzogiorno.

Se avremo pazienza di attendere il calar del sole, ecco verso il tramonto uscire dalla Sacchetta vicina le paranze dei pescatori istriani, i bragozzi dei chioggiotti, e il porto, tra Diga e Lanterna, popolarsi di vele, vele rance e candide, vele a strisce vivamente colorate, festose e vibranti negli ultimi abbagli del sole.

Tempi felici, quando l’agiatezza era accompagnata da un lavoro intenso e si- curo, e si poteva godere di tutto? Tempi diversi, tanto diversi, che oggi paiono un sogno e, come Cacciaguida rievoca al suono delle ore della chiesa di Badia, in quel suo «riposato e così bello viver di cittadini», a noi par di udire ancora il bronzo del campanone di San Giusto spandersi nel cielo, fra i palloncini rossi e gialli che ogni tanto scappano dalle disattente mani dei bambini e navigano liberi in alto, sempre più in alto, nella luminosa mattina domenicale.

Passano gli anni. E un giorno ci svegliamo tranquilli, dopo mesi e mesi di so- spese angosce. Non si ode più il brontolio, che ora si avvicinava, ora si allontana- va da occidente. L’ultima guerra del Risorgimento è finita con la nostra vittoria. L’Italia, per tanti anni sospirata, è finalmente a Trieste.

Il bagno galleggiante davanti a piazza Grande, che ha mutato il nome dell’Uni- tà, è sparito, ed è sparita la vecchia nave a tamburi. I piroscafi coi due, coi tre cami- ni fasciati di rosso, che sembravano giganti sullo sfondo delle colline, punteggia- te di case, sono stati sostituiti dalle motonavi poderose e dinamiche. Il molo San Carlo è diventato il molo Audace, da quando l’Audace, la prima nave di battaglia italiana vi ha sbarcato i bersaglieri. Anche il giardinetto di piazza Grande è spa- rito. La piazza è diventata una vasta spianata aperta sul mare, come se la città giù dal suo antico Colle, passando dal Municipio, stesse per imbarcarsi tutta.

Passano ancora gli anni. Un altro triste giorno ci svegliamo pure. Sarebbe sta- to più pietoso non svegliarsi. Il porto è deserto, non una barca, non un bastimen- to, non una nave: un deserto d’acqua e di pietre costrutte. Il sole indifferente vi splende sopra, i liberi venti increspano i bacini tra molo e molo. Siamo di nuovo in guerra: un’altra orribile e infausta guerra, che spopola e distrugge e non ha senso. Rombano nel cielo gli aeroplani tra urli di sirene, la gente scappa e sparisce nelle tane: torna fuori a guardare intontita, in mezzo a un fumo acre e a un sentor di calcinacci e di sangue.

Non c’è più la guerra. I cittadini tornano a brulicare nelle vie, tra le rovine e si mescolano ai soldati stranieri. Per quanto non ci sia più la guerra, il porto ha messo su una nuova armatura guerresca, e quale armatura! Occhi di luce sospet- tosi dappertutto, zone d’ombra da cui emergono all’improvviso sagome d’incro- ciatori laminati; luccicano canne d’acciaio, rombano sordamente macchine sotto pressione. Come passiamo sulle rive, a distanza, ora investiti da zaffate di nafta e da forti irradiazioni di caldaie, ora abbagliati da lumi intensi dentro fredde cor- renti. Musi e bordi torpediniere e di caccia, affiancati, ammassati, e una bassa sel- va d’alberi grotteschi, tra cui occhieggiano piccoli fanali rossi e verdi. E su tutto, dominando porto e città, mare e colline, sventagliano in alto i riflettori, corrono e formano striscioni luminosi, sommergendo nella loro luce spettrale ogni cosa. Attenzione al filo spinato, che ci tiene a debita distanza dalle rive, e ai cancelli, che ci impediscono l’accesso ai moli. C’è di che star coi nervi tesi, pronti a ogni sor- presa. Ma no, non siamo più in guerra e, anche se di tanto in tanto il cielo freme, non fischiano più le sirene e gli aeroplani notturni passano innocui.

Le sere che sedevamo alla brezza marina sulle cime dei moli, con le gambe spenzolate sull’acqua e con l’animo sognante, sono archiviate in un passato così lontano, che si sembrano tempi preistorici. E se non vogliamo appoggiarci a qual- che bunker o a qualche stecconata, ci conviene inoltrarci per le vie urbane. Qui i caffè, i ristoranti, le sale da ballo, dietro le vetrate appannate dal freddo, sono zeppe di musiche e di brusio. Caldi ambienti ovattati, dove ragazze di città e di suburbio si divertono e chiassano con soldati e marinai stranieri. E le jeeps atten- dono di fuori le ore piccole.

Ancora passano gli anni. Come se ne sono andati i tedeschi, come se ne sono andati gli jugoslavi di Tito, così se ne vanno anche le truppe americane e inglesi. L’Italia è tornata un’altra volta e sembra ripetersi il novembre del 1918. Ma è ben diverso avvenimento. L’entusiasmo sì, ma i nostri animi non sono più sicuri, le ferite sono aperte, grava sul nostro entusiasmo una cappa d’avvilimento, che i tricolori sventolanti non bastano a sollevare. Ci guardiamo alle spalle minacciate, guardiamo in avanti verso un futuro incerto.

Ma guardiamo anche in alto! Le stelle sono sempre uguali, stanno e si muo- vono calme, così per sé, così misteriosamente pallide di sopra al velo di luce del- la città. La Cintura d’Orione, i Gemelli, l’Orsa Maggiore occupano le loro zone in mirabile armonia. Come splendevano sessant’anni fa, splendono tutt’ora indif- ferenti ai destini della terra e di questo grande-piccolo porto, che è uno dei mille e mille porti della terra e che potrebbe prosperare o scomparire, senza utile né danno per loro. Eppure, a guardarle così, oltre la nebbia luminosa che sta sulla città, noi che mutiamo con gli anni, che vivemmo quei tempi lontani e che vivia- mo questi presenti, desidereremmo spegnere per un momento tutte le luci arti- ficiali che ce le offuscano, per poterle contemplare nella loro naturale, schietta, splendente bellezza.

Quanto segue, è il prodotto della necessità di scrivere ancora una pagina, poco conosciuta, di storia della nostra città. L’Associazione Volontari della Libertà di Trieste, affidò a suo tempo al prof. Roberto Spazzali l’incarico di compiere una dettagliata ricerca sui documenti in nostro possesso, che in seguito, sarebbe stata oggetto di particolareggiata trattazione. Si trattò de …L’Italia chiamò – Resistenza

politica e militare italiana a Trieste 1943-1947 (2003). L’opera fu resa possibile grazie

ad un fondamentale contributo da parte della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia. Ciò avvenne per espressa richiesta del Presidente della Repubblica Carlo