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32 tan to agitarsi. Solo a considerarlo dal suo lato di naturale reazione psicologica, tale fenomeno si manifesta come un fenomeno di vita: ognuno vuol respi rare dopo l’oppressione, sfogarsi in ra gione di quanto ha dovuto prima rattenersi. Ma con ciò siamo ancora molto lontani dalla vera capacità di rico struire. Sotto la febbre si sente la stan chezza, nella mobile lucidità del pen sieri s’avverte la mancanza d’una per- suasione fruttuosa. Le zolle che il sole della libertà, uscite finalmente dalle nubi sof- focanti e tempestose, riscalda, sono per anco sterili o soltanto in arido fermento.

E arido fermento, per ritornare al principio da cui sono mosso, mi sem bra questo ricercare nelle opere dello spirito, di cui ci siamo nutriti noi della generazione d’avan- tieri e di ieri, le colpe della nostra disgrazia. Perché da un Nietzsche, per esempio, noi avremmo potuto benissimo ricavare un frutto tutto diverso, che non quel boccone av- velenato che certuni sono andati, mi si perdoni l’immagine, a mordere nella sua polpa: e così di Proust e così di Dostoiewski [sic] e così il Freud. Il culmine dell’arte e del pen- siero, il filo su cui cammina un’epoca di civiltà, è sempre pericoloso e aperto, a destra e a sini stra, su precipizi. Alla stessa stregua si potrebbe ricercare e trovare motivi di colpa per i nostri deviamenti in autori “sani”. In quegli stessi pensatori o poeti che si vorrebbero contrapporre agli altri “malsani”, e, tanto per ci tarne qualcuno, far risalire a certe teo rie della Filosofia della Pratica di Croce o a certi racconti di Thomas Mann la responsabilità delle perversio ni che ci hanno rovinati (e certuni l’hanno già affermato).

In un senso più intatto e profondo, l’opera di chi brucia se stesso in un tentativo di “far luce”, a illuminare, comunque sia, questo nostro muoverci a tastoni con impeti e cadute, con rag giungimenti e travolgimenti, nel buio della vita terrena, sta fuori della sfera in cui è legittimo parlare di responsa bilità civili. La pittura d’un Van Ghog, il li- rismo d’un Nietzsche, i personaggi d’un Dostoievski [sic], le intuizioni d’un Bergson, le analisi d’un Freud, rispon dono a qualche cosa ch’era profonda mente nascosta e viva nelle coscienze dell’epoca recente e, non sappiamo an cora, se non continui a es- ser viva nella nostra d’oggi. Il fatto morale, per chi giudichi di simili opere, è da porsi al trove che non nelle ripercussioni o nei riflessi ch’esse abbiano avuto in certe zone umane, dove si formano gli am bienti intellettuali, le atmosfere di cul tura, le lotte per il potere politico; è da porsi nell’adesione piena o mancata dell’anima dell’autore alla sua opera: è un fatto d’ordine interno nel mondo dello stesso autore. E quando l’auto- re brucia se stesso nella sua opera, come è il caso di Van Ghog e di Nietzsche, o quan- do rischia tutta la propria intel ligenza in un audace scavo dentro le viscere dell’uomo, com’è il caso di Freud, allora non si può più parlare d’opera morbosa.

La libertà dello spirito è, nella conti nuità delle vicende umane, la più gran- diosa, anche se la più pericolosa, delle libertà, ed è quella che eleva l’uomo ai più alti fastigi del suo destino. Soltanto il dramma insito nel contrasto tra la fralezza della natura e la potenza dello spirito può porre un limite a tale libertà; tutti gli altri freni o cautele sono pregiudicevoli.

La società deve e può difendersi dalla corruzione, dal disintegramento, dall’azione nefasta dei falsi profeti; ma non è nell’ambito della lotta, combattuta dal genio contro la mediocrità e le sue cristallizzazioni, che vanno cer cati i mali da cui le [sic] necessità guardarsi. Direi anzi che proprio nei risul tati di questa

lotta eroica sta il vero divenire della società. L’aberrazione comincia dalle inter- pretazioni e dal livello a cui l’opinione comune abbassa le opere degli spiriti au- daci e solitari; e soltanto a questo punto è lecito parlare di responsabilità.

C’è nella bella e paurosa traiettoria che l’umanità compie nel suo spazio vi- tale (mi si passi tale trasposizione di concetto, che veramente qui mi pare ap- propriato), una forza intima di cui non sapremmo fare a meno, senza sen tirci diminuiti agli occhi della stessa divinità che di tale forza ci ha dotati, anche se qualcuno volesse biblicamente riferirla all’albero della conoscenza del bene o del male, al demonio, al peccato originale: ed è la forza che ci spinge a conoscere noi in noi stessi e in relazione col cosmo. La volontà e la capa cità di tale esperienza trascendono la linearità della ragione e scoprono una dimensione nuova, per cui la stessa ragione, che ha pur tutti i diritti d’esser sovrana nella sistematica guida del nostri modi d’essere e d’agire, deve a volta a volta mutare i propri disegni. Qui consiste il vero equilibrio: nell’a deguamento della ragione, che inclinerebbe a raggiungere un piano di stabi lità e di chiarezza, all’energia spirituale che auda- cemente si muove nell’o scura sfera del mistero cosmico e ne coglie i bagliori. Le grandi epoche della storia ci danno la misura di questo felice accordo.

Le maggiori scoperte della scienza e della tecnica vanno parallele, non dico sempre nel tempo, alle intuizioni dell’anima lirica e alle illuminazioni del pensiero creatore. Un’uguale “paurosa bellezza” è in quelle come in queste. Vorremmo, per amor d’u- na pace civile, intesa in termini mediocri, rinunciare alle une e alle altre? Ammesso l’assurdo d’una tale possibilità non assume rebbe il mondo un aspetto di miseranda società per azioni a capitale limi tato, in cui le stesse manifestazioni più elevate, quali per esempio i prodotti dell’arte pura o del pensiero sistematico, sarebbero esangui?

E chi ci assicura, d’altro canto, che le cause della spaventosa crisi dell’e poca nostra non siano da ricercarsi proprio nel campo opposto, cioè nella stanchezza e nell’esaurimento d’una società che non ha saputo più trasfor mare in modi vitali, utili al suo progresso, le anticipazioni illuminate dei suoi spiriti creatori? Dubito fortemen te che la Germania che ha seguito Hitler sia la Germania di Nietzsche, se non per grossolano accostamento. La rozzezza, l’ignoranza, il fanatismo cieco degli hitleriani contrastano troppo con la sensibilità esasperata, con il culto della bellezza, con la rottura dolorosa tra il sogno e la realtà, profondamente sofferta nell’anima, dell’autore di Also sprach Zarathustra. Né credo che la Francia nel 1939 debba la rilassatez za delle suo fibre morali, civili e mili tari alle incantate fiabe della memoria d’un Proust o alla cristallina e preziosa sfera in cui un Valéry ha saputo de purare i torbidi e misteriosi messaggi del caos. E neppure mi persuade che la poesia dell’Alcione possa aver dato alimento spirituale al fascismo.

Non sono questi gli spiriti che l’Europa d’oggi e di domani dovrebbe rin negare per rimettere in sesto la propria coscienza. Non col bendarsi la mente si evita di cadere negli abissi aperti dell’anima umana. Se siamo pro fondamente malati, non dobbiamo ignorare la nostra malattia; se l’Europa sta scontando le oscure tenden- ze della stessa civiltà che la urge, è necessa rio, mi sembra, cercar di portarle alla luce con quanto più coraggio possibile e con la più spregiudicata intelligenza.

«La voce libera», 13 agosto 1945