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Un giudice per le indagini preliminari oppresso: il sistema che non c’è

La conclusione cui si è giunti si riallaccia a considerazioni che, negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice “nuovo”, più volte sono affiorate in dottrina. Che l’obiettivo del legislatore codicistico fosse coniare un pubblico ministero «molto forte», reale dominus della fase investigativa è inconfutabile183; così come l’idea che

quell’ufficio dovesse essere un organo «a sovranità limitata», per via dei robusti argini imposti alla sua azione da un garante giurisdizionale autenticamente terzo.

Come si è accennato, pure se in forma necessariamente riassuntiva, i contrappesi del sistema sono presto saltati184: i controlli giurisdizionali – del giudice per le indagini

preliminari e del tribunale del riesame – si sono presto rivelati poco efficaci e gli sbarramenti probatori, volti a demarcare in modo ferreo la fase pre e post dibattimentale, sono stati abbattuti in nome dell’(inedito) principio di non dispersione della prova185.

Conseguentemente, in tema di rapporti tra gli attori in scena la sovranità del pubblico ministero, da fisiologica e limitata quale doveva essere, è presto divenuta patologica e illimitata186. All’esito di queste spinte antitetiche – tra vuoti e timidezze normative,

“picconate” della Corte costituzionale e contrapposte ideologie animanti il codice – ciò che è venuto meno è stato proprio l’intero sistema187.

Lo stress test a cui il giudice per le indagini preliminari è stato sottoposto ha avuto il suo culmine con l’approvazione della l. 332/1995. Da allora, la tematica dell’abuso delle misure cautelari è poco a poco uscita dal dibattito politico-sociale e dalle riflessioni degli interpreti, sostituita dal confronto quasi ossessivo su altri (in verità pochi) temi cari alla nuova stagione politica – c.d. «berlusconeide»188 – infine riesplosa soltanto per effetto della nota sentenza

Torreggiani della Corte EDU del 2013.

Per poter comprendere come la Corte abbia potuto dichiararsi sbalordita («frappé») per l’eccessivo numero di detenuti a titolo cautelare (all’epoca del ricorso, circa il 40% degli ospiti nelle case circondariali) occorre, anzitutto, storicizzare la riforma del 1987-1988. Come si è accennato, l’obiettivo primario del legislatore codicistico è stato

182 NOBILI, Qualche riflessione sul 1994, in Scenari, cit., p. 112, il quale scorge questo cedimento di sistema in altre spie normative, tra cui gli artt. 291, co. 1 e 6, 358-369, 141-bis c.p.p. e l’art. 371-bis c.p.

183 AMODIO, I rapporti tra pubblico ministero e giudice delle indagini preliminari nel nuovo processo penale, in Il pubblico ministero oggi, cit., p. 210.

184 Si inserisce in questa linea interpretativa l’interessante e condivisibile contributo di CAMON, La fase che

“non conta e non pesa”: indagini governate dalla legge?, in Legge e potere nel processo penale, Atti del

convegno di Bologna, 4-5 novembre 2016, Padova, 2017, p. 93 s.

185 Parla di «principio costituzionale del tutto inventato» VASSALLI, Introduzione a L’inconscio inquisitorio, cit., p. 17, che – come è noto – in quel periodo fu giudice della Corte costituzionale.

186 Tutto ciò, mutuando l’opinione di autorevole dottrina, è il portato dell’ormai ben noto equivoco di fondo, in tema di indagini preliminari e loro natura, a cui tutto il codice pur si ispira. Cfr. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 905 secondo cui «non basta ridenominarli [gli atti compiuti dal p.m. – ndr] “indagini preliminari”: bisognava ridurne l’effetto sulla futura decisione; e se da atti processuali, quali erano, diventano un lavoro col quale la parte pubblica raccoglie i materiali dell’eventuale domanda, vanno correlativamene alleviate le forme. L’autentica svolta accusatoria implicava indagini ridotte al minimo carico formale richiesto dagli interessi sottostanti».

187 AMODIO, I rapporti tra pubblico ministero e giudice, cit., p. 212; in generale, si v. AA.VV., Il codice di

procedura penale: esperienze, valutazioni, prospettive, Atti del convegno di Milano, 23-24 ottobre 1992, Milano,

1994, p. 47, 118, 347.

giurisdizionalizzare il potere coercitivo sdoppiando i poteri accumulati dal giudice istruttore in due organi distinti e, successivamente, di riempire il c.d. vuoto dei fini189.

Benché disposizioni quali gli artt. 273-274 c.p.p. costituissero un notevole progresso rispetto alla disciplina abrogata, è stato tuttavia sottostimato un aspetto cruciale. Confinato in secondo piano, il cuore del sistema ideato dalla Costituzione è rimasto forse sullo sfondo: l’idea del carcere come misura eccezionale, perché lesiva al massimo grado della libertà personale, è risultata debolmente sviluppata.

Da un sistema dalle fragili seppure stilisticamente perfette soluzioni garantistiche è uscito incompiuto altresì il rapporto tra cautela e presunzione di non colpevolezza. Declinato soltanto nella versione “classica”, come regola di trattamento e apposizione di limiti temporali alla durata della detenzione ante iudicium, non si è colto che un fondamentale problema era, oltreché quello della qualità, anche della quantità del fenomeno cautelare in carcere. Un sistema che ne tollera un’applicazione così estesa, quasi di massa, dimostra di considerare l’istituto uno strumento normale per garantire il supremo interesse della collettività (magari alimentato dall’emergenza sociale di turno, vera o indotta che sia), con un preoccupante “orientamento di ritorno” inquisitorio che vede nell’imputato libero una lodevole eccezione alla regola che lo vuole detenuto in attesa di giudizio190.

In quel contesto, anzi, la giurisdizionalizzazione ha prodotto un risultato imprevisto, una sorta di eterogenesi dei fini: è attecchita l’idea che l’incidente cautelare, con la sua giurisdizione dalle forme pesanti, pure se provvisoria e a cognizione sommaria, sia nei fatti così estesa, penetrante ed efficace da «poter sostituire in qualche caso l’accertamento sul merito dell’imputazione»191.

La fragilità del codice del 1988 ha certamente avuto un peso non indifferente nel tramonto dell’“illusione” garantistica, ma non ne è l’unica causa. A ciò si affianca una persistente inclinazione inquisitoria, affiorante a livello socio-culturale prima ancora che giuridico192.

Se di regola è sconveniente affidarsi a impressioni mutuate da singole esperienze pratiche, giunti a questo punto non sembra però faziosa la denuncia di un autorevole interprete secondo cui, nell’esperienza quotidiana, si ha sovente la sensazione che «il giudice della cautela sia solidale con gli investigatori in quanto considera suo dovere istituzionale assicurare al pubblico ministero l’uso di tutti gli spazi e di tutti gli strumenti necessari all’accertamento del reato»193. Il degrado del giudice per le indagini preliminari a mere rubber stamp, cioè a soggetto che si limita a timbrare altrui richieste come spesso è a dire

189 Orientamento ben espresso da GREVI, Presunzione di non colpevolezza, garanzie dell’imputato ed

efficienza del processo nel sistema costituzionale, in Presunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, Atti del convegno di Foggia – Mattinata, 25-27 settembre 1998, Milano, 2000, p. 17.

190 ZAPPALÀ, Le garanzie giurisdizionali, cit., p. 480 e CORDERO, Procedura penale, cit., p. 466-467, secondo cui «nel canone inquisitorio l’imputato è “custodiendus”, se non risulta innocente». La custodia è uno «stabulario», fuori del quale è improbabile che il reo confessi.

191 AMODIO, Inviolabilità della libertà personale, cit., p. 21. Della stessa opinione, SPANGHER, Evoluzione ed

involuzione del sistema cautelare, in Studi in onore di Mario Pisani, I, a cura di Corso – Peroni, Piacenza, 2010,

p. 804. Sulla stessa lunghezza d’onda IACOVIELLO, Procedimento penale principale e procedimenti incidentali.

Dal principio di minima interferenza al principio di preclusione, in Cass. pen., 2008, p. 2190 s.

192 NOBILI, L’immoralità necessaria, Bologna, 2009, p. 112 sottolinea che «l’art. 27 comma 2 della costituzione è la radice... è la regola primordiale. Eppure, nella nostra collettività, essa non risulta assorbita, dal cervello, dal sangue, con la necessaria sicurezza. [...] Quando si decideranno a spiegarlo davvero ... che si punisce “dopo” e non “prima”». Riflessione che non si allontana molto da quella, lapidaria, di CORDERO, Procedura

penale, cit., p. 469, secondo cui «le macchine repressive sono meno riformabili degli Stati, perché toccano un

metabolismo sociale profondo».

negli Stati Uniti per il grand jury, è dunque spiegabile anche in quest’ottica, ove le radici del problema affondano in un terreno di coltura comune a quello da cui sono fiorite le scialbe opzioni legislative analizzate.

Il filo rosso che collega la istituzionale afasia del giudice al tendenziale predominio dell’ufficio del pubblico ministero – gigantismo di certo acuito nel sistema post 1992, ma tutt’altro che scomparso oggigiorno – è dato dalla circostanza che è sempre l’inquirente a “dettare il tempo” della fase investigativa: egli può secretare il registro delle notizie di reato (art. 335 c.p.p.), sceglie se e quanto tenere l’indagato all’oscuro della sua qualifica (art. 369 c.p.p.), può non procedere agli accertamenti pro reo (art. 358 c.p.p.) e, soprattutto, può allegare un dossier cautelare ritagliato ad hoc per garantirsi o indurre, con il carcere, la disponibilità dell’indagato al fine di proseguire indisturbato l’inchiesta, ottenere in sede di interrogatorio investigativo conferme o informazioni e, magari, cercare di protrarre il più possibile la misura in modo da soddisfare l’interesse sanzionatorio194.

Infatti, «è un dato innegabile che il pubblico ministero che chieda e ottenga nella fase preliminare la custodia in carcere [può] ciò non di meno proseguire le attività di indagine, secondo le proprie valutazioni tattico strategiche, senza subire alcun condizionamento, sul piano dell’impulso al processo, dall’aver attivato il potere coercitivo»195.

Il paradosso del gigantismo dell’attore, che fa da contraltare all’offuscamento del garante giurisdizionale, è che – per certi versi – il sistema vigente (soprattutto sino al 2001) fosse più arretrato, sul piano delle garanzie, rispetto al codice Rocco196. Coglie di certo nel segno chi

sottolinea che la spiegazione più piana degli asettici poteri conferiti al giudice per le indagini preliminari risiede nell’horror hereditatis – tant’è che, durante i lavori preparatori, ogni volta in cui ci è interrogati sul se attribuirgli o meno un certo potere, si è risposto che mai glielo si sarebbe potuto riconoscere, perché altrimenti egli sarebbe ridiventato un giudice istruttore – ma, per quanto la tradizione possa avere pesato, la scarsa sensibilità al tema dell’abnorme ricorso allo strumento cautelare ha comportato cedimenti inspiegabili e aporie di sistema onestamente incomprensibili.

Se si pone nuovamente sotto indagine l’art. 291, co. 1 c.p.p., in relazione all’art. 268 c.p.p. per come colpito dalla sentenza costituzionale n. 336 del 2008 già citata, ci si avvede di quanto il diritto vivente sia andato, per certi aspetti, perfino oltre la logica sottesa al potere di selezione riservato al pubblico ministero. Con il riconoscimento al difensore del potere, dopo l’esecuzione dell’ordinanza applicativa di una cautela personale, di ottenere la trasposizione magnetica delle registrazioni di conversazioni intercettate, ove utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non ancora depositate, la Corte

194 Sono noti taluni espedienti, veri e propri abusi nell’impiego dello strumento cautelare. Taluni operanti in via diretta, talaltri in via mediata. Basti por mente alle ipotesi in cui, ottenuta l’ordinanza applicativa, il pubblico ministero, in elusione dell’art. 92 att. c.p.p., la trattiene onde procedere all’interrogatorio senza eseguirla. Intuibile l’effetto psicologico sull’interrogato, il quale è consapevole che dal tenore delle sue risposte dipende la sua permanenza in libertà. Oppure si rammenti l’esecuzione frazionata della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, in base alla quale il pubblico ministero esprime il suo consenso alla richiesta dell’imputato

in vinculis soltanto per un reato per volta, in modo che la sentenza sia pronunciata per una sola imputazione

anziché per tutti i plurimi addebiti (previamente non riuniti). La conseguenza è che la custodia prosegue per gli altri reati, in attesa che si perfezioni l’iter, eventualmente corretto in sede esecutiva ex art. 188 att. c.p.p.

195 CERESA GASTALDO, Riflessioni de iure condendo sulla durata massima della custodia cautelare, in Riv. it.

dir. proc. pen., 2014, p. 834. Compaiono qui concetti che approfondiremo nei capitoli successivi:

autonomia/condizionamento tra incidente cautelare ed esercizio dell’azione penale; esercizio della domanda cautelare a “rischio zero”.

196 Per assurdo che possa sembrare, questa è l’opinione di due autorevoli “padri” della riforma del 1988, PISAPIA, Relazione introduttiva, cit., p. 20 e AMODIO, I rapporti tra pubblico ministero e giudice, cit., p. 213.

costituzionale ha «indirettamente ammesso che il giudice chiamato ad emettere l’ordinanza cautelare possa avere una cognizione inferiore non solo rispetto a quella del pubblico ministero, ma anche di quella comunque garantita al difensore “solerte”»197.

In simili casi, dunque, il soggetto deputato ad assumere la decisione è l’unico dotato di una cognizione amputata – tanto rispetto all’inquirente, quanto al difensore. Non v’è da stupirsi, allora, se nella pratica quotidianità “questo” giudice per le indagini preliminari tenda ad adagiarsi sulla richiesta dell’attore, spesso trasponendola pedissequamente nell’ordinanza applicativa di una cautela personale198 – e non tanto, o non solo per ragioni ordinamentali,

giacché in simili contesti i risultati sarebbero i medesimi anche se il richiedente fosse un magistrato speciale, un organo della polizia giudiziaria o perfino un altro giudice – spogliandosi di fatto di una delle più qualificanti funzioni attribuitegli, così alimentando l’impressione che il pubblico ministero sia il reale dominus non soltanto dell’investigazione, bensì anche della libertà personale.

E se l’intervento di un giudice sfornito di piena conoscenza non può che risolversi in una beffa per l’indagato, l’assenza di qualsivoglia potere istruttorio rischia di far assumere al sistema tratti deformi. Non si comprende perché mai non si è temuto di inquinare il ruolo del giudice dibattimentale – allargano i suoi poteri di acquisizione probatoria ex officio199

mentre si è dimostrata tanta ritrosia nella fase preliminare, pur di escludere poteri da esercitare solo a domanda di parte e, addirittura, solo a domanda dell’indagato privato della libertà personale200.

Oltretutto, i ragionamenti condotti dalla Corte di cassazione a sezioni unite in merito all’art. 507 c.p.p. – «vera e propria mina vagante in un sistema di stampo accusatorio»201

meglio si adatterebbero all’ambito cautelare, come qui tratteggiato: domanda di parte e assoluto divieto per il giudice di “farsi carico” dell’investigazione.

197 VALENTINI, Sovraffollamento carcerario e custodia cautelare, cit., p. 316, sviluppando uno spunto di ILLUMINATI, Accesso alle intercettazioni utilizzate, cit., p. 3765.

198 Emblema di questo atteggiamento è la copiosa giurisprudenza sulla motivazione per relationem, pericolosamente in odore di elusione degli artt. 13 e 111, co. 6 Cost. Sul punto, si v. KALB, Motivazione ed

effettività del sistema dei controlli, in Le fragili garanzie, cit., p. 83 s. e, volendo, MALERBA, Il “nuovo” potere di

annullamento del tribunale del riesame alla luce della l. 16 aprile 2015, n. 47: un’occasione perduta, in Cass. pen., 2015, p. 4234 s.

199 L’art. 507 c.p.p. è una tra le disposizioni più travagliate del codice del 1988 e tra quelle che, nel biennio 1992-1993, hanno occasionato la c.d. “controriforma” a opera della Corte costituzionale. Corte cost., 26 marzo 1993, n. 111, in Giur. cost., 1993, p. 901, con nota di SPANGHER, L’art. 507 c.p.p. davanti alla Corte

costituzionale: ulteriore momento nella definizione del “sistema accusatorio” compatibile con la Costituzione. I

commenti, in dottrina, sono stati numerosi. Qui ricordiamo, per tutti, FERRUA, I poteri probatori del giudice

dibattimentale, cit., p. 1065 s. La sentenza interveniva successivamente a Cass., sez. un., 6 dicembre 1992,

Martin, cit., confermata da Cass., sez. un., 18 dicembre 2006, Greco, in C.E.D. Cass., n. 234907, con nota di APRILE, Sui limiti di applicabilità dell’art. 507 c.p.p.: una nuova sentenza che non elimina ogni dubbio

interpretativo, in Cass. pen., 2007, p. 3341. Il principio di diritto, mai revocato in dubbio, in merito al potere

officioso è così compendiato: «Il potere del giudice di disporre d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 507 c.p.p., può essere esercitato pur quando non vi sia stata precedente acquisizione di prove, e anche con riferimento a prove che le parti avrebbero potuto chiedere e non hanno chiesto, ma sempre che l’iniziativa probatoria sia assolutamente necessaria e miri, pertanto, all’assunzione di una prova decisiva nell’ambito delle prospettazioni delle parti, non essendo consentito, invece, che il giudice possa coltivare un’ipotesi autonoma e alternativa, pena la violazione del basilare principio di terzietà della giurisdizione».

In generale, si v. CARACENI, Poteri d’ufficio in materia probatoria, cit., p. 107 s.

200 NOBILI, La difesa nel corso delle indagini preliminari, cit., p. 77; conforme, FERRUA, Il ruolo del giudice, cit., p. 62 e GIOSTRA, Il giudice per le indagini preliminari, cit., p. 1263 il quale, a p. 1265 sottolinea che «se il legislatore disconosce a chi subisce il carcere preventivo l’elementare diritto di dimostrare che [... i] presupposti non sussistono, lo Stato dimostra non la sua debolezza, ma la sua inciviltà».

Un giudice siffatto, agendo oltretutto esclusivamente pro reo, non vedrebbe intaccata la sua terzietà-imparzialità. A questo proposito, coglie nel segno l’orientamento secondo cui «si deve abbandonare il pregiudizio secondo cui imparzialità significa indifferenza o comunque disimpegno del giudice rispetto alla formazione della verità giudiziale [...] L’importante è che non sia il giudice a determinare il thema probandum, né a prospettare ipotesi decisionali [poiché] quando si confondono le funzioni, psicologicamente incompatibili, dell’inquirente e del giudice, nell’atto di accusa c’è già in nuce la condanna»202.

Infatti, se l’opzione a favore di un giudice deprivato del potere di assumere iniziative probatorie accresce, in generale, il tasso di imparzialità della decisione sul merito dell’accusa, in ambito cautelare avviene l’opposto203, poiché non può definirsi

autenticamente terzo quel garante che, chiamato a disporre dell’altrui libertà, veda il proprio raggio d’azione delimitato dalle, e subordinato alle, strategie dell’inquirente. In quest’ottica, riassunta in dottrina con la formula in dubio pro libertate204, dovrebbe essere aggiornato il

concetto di equidistanza del decidente dalle parti.

Tratteggiata, tradizionalmente, come «processo nel processo»205 la vicenda cautelare

assume sempre più i tratti di una giurisdizione in avvicinamento a quella di merito206, senza

tuttavia replicarne il caratteristico schema triangolare basato sulla parità delle parti in un contraddittorio che preceda la decisione. Questa asimmetria genera un contraddittore forte e uno debole e il relativo gap dovrebbe, a parere di chi scrive, essere colmato dal giudice: laddove non sia il confronto dialettico dei contraddittori a produrre decisioni giuste, dovrebbe soccorrere l’intervento – anche officioso – riequilibratore dell’organo di tutela.

Quest’atteggiamento di dichiarato favor verso il contendente più debole, volto a compensare lo squilibrio tra le parti in fase di indagine, è in effetti presente nella mente del legislatore che ha scelto però di porvi rimedio attraverso il potenziamento di talune garanzie difensive. Emblematico, l’art. 391-octies, co. 2 c.p.p.: apprezzabile nell’intento di emancipare il difensore dalle strettoie disegnate dagli artt. 358 e 367 c.p.p.; insufficiente, tuttavia, laddove rimette l’attivazione del potere investigativo alla formale conoscenza dell’esistenza del procedimento, a sua volta largamente dipendente dalle strategie del pubblico ministero. Eppure la disposizione è indicativa della convinzione, non ancora compiutamente sviluppata, circa la «necessità che, nelle decisioni de libertate, ci si [debba fare] carico delle “debolezze” della difesa, sin dal momento dell’adozione della coercizione, non apparendo sufficienti [...] i meccanismi “a contraddittorio postumo” messi in campo dal sistema»207.

L’attuale giudice per le indagini preliminari è, invece, del tutto ripiegato su un’ideale di assoluta terzietà-imparzialità che – nell’illusione che farne un organo pietrificato potesse scongiurarne una torsione verso la figura dell’istruttore208 – gli conferisce i tratti tipici

202 GIOSTRA, Contraddittorio, cit., p. 3-4. V. altresì nt. 89 e la bibliografia ivi indicata.

203 Spunti in NEGRI, Fumus commissi delicti. La prova per le fattispecie cautelari, Torino, 2004, p. 32 e CARACENI, Poteri d’ufficio in materia probatoria, cit., p. 229 s.

204 RUGGIERI, La giurisdizione di garanzia, cit., p. 242.

205 Corte cost., 17 febbraio 1994, n. 48, in Giur. cost., 1994, p. 271.

206 Un ottimo esempio di questo progressivo avvicinamento è offerto dall’evoluzione del concetto di incompatibilità tra la funzione di giudice della libertà e di giudice del fatto, avendo la Corte costituzionale affermato alla prima valore ed efficacia pregiudicante rispetto alla seconda.

207 CARACENI, Poteri d’ufficio in materia probatoria, cit., p. 242; conf. RUGGIERI, La giurisdizione di

garanzia, cit., p. 295.

208 Timore che, a trent’anni dall’entrata in vigore del “nuovo” codice, non pare più giustificare la compromissione della funzionalità del sottosistema cautelare.

dell’impotenza, «racchiuso nella gabbia di un osservatorio da cui contempla, in religioso silenzio, la geometrica potenza del pubblico ministero»209. La disuguaglianza sostanziale

delle parti genera, in conclusione, una contrapposizione di interessi solo apparente e si ripercuote su un contraddittorio sterile di fronte a un garante fittizio.

Il giudice, invece, soprattutto in fase investigativa dovrebbe assumere come proprie le prerogative difensive dell’indagato ristretto, scongiurando che il rischio della mancanza di prova ricada su di lui. Quella tratteggiata diventerebbe una fisiologica carenza di equidistanza del giudice, riappropriatosi di una cognizione esaustiva e di ben calibrati poteri officiosi in bonam partem – sulla falsariga di quelli previsti dagli artt. 421-bis e 422 c.p.p. – tale da permettergli di riacquistare spazio, affrancandosi autenticamente dalla vicinanza – talvolta, soggezione – al pubblico ministero.

Con ciò si vuole sostenere che non confliggerebbe con un sistema di matrice accusatoria l’attribuzione al giudice di un munus conformato nel senso di dover assicurare l’effettiva parità di rapporti tra le parti, conferendo priorità assiologica alla salvaguardia dei beni

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