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Il principio di preclusione: rilievo di metodo, coperture costituzionali e applicazion

L’argomento oggetto del presente studio ci ha portato a impiegare più volte un termine che, nell’elaborazione processualpenalistica, ha rinvenuto poco spazio sino a tempi piuttosto recenti. Discorrere di assorbimento significa nient’altro che indagare una faccia, quella più riconoscibile, del principio di preclusione.

L’istituto della preclusione è stato tradizionalmente oggetto di studio ed elaborazione dogmatica da parte della dottrina processualcivilistica, che lo ha sviluppato principalmente nella sua accezione di consumazione del potere318. Secondo la tesi tradizionale, esso consiste

nell’estinzione di una facoltà processuale dovuta a tre possibili ragioni: l’inosservanza delle modalità di esercizio del potere stabilite dall’ordinamento, il compimento di attività fra loro incompatibili o il pregresso esercizio di un potere non reiterabile.

Si tratta, in buona sostanza, di uno strumento deputato a garantire l’ordinato svolgimento del rito, salvaguardandone la funzionalità e responsabilizzando le parti, le quali, consce di non potere esercitare reiteratamente una medesima facoltà, sarebbero portate a gestire le loro prerogative processuali in maniera più oculata, più razionale.

Chiaramente, non è concepibile una trasposizione sic et simpliciter, in seno al processo penale, dei risultati raggiunti in decenni di teorizzazioni nell’ambito del rito civile; nondimeno, le ragioni che hanno spinto la dottrina processualpenalistica a recuperare l’importanza di questo concetto sono intimamente legate a quelle che campeggiano nelle opere di studio dei colleghi civilisti.

In particolare, vi sono alcuni profili che meritano di essere puntualizzati. Il primo è quello di autoresponsabilità delle parti. La chiave di lettura che interpreta la preclusione, in sede civilistica, come sanzione al comportamento processuale di un soggetto il quale sia rimasto inerte, o abbia imboccato una direzione piuttosto che un’altra, va immersa nel quadro di un processo che valorizza sempre più il principio dispositivo, ponendo le parti dinanzi a plurime possibilità di azione.

Questa loro spiccata autonomia ha come contraltare un prezzo, determinando all’interno del procedimento variabili suscettibili di incrementarne potenzialmente l’entropia, che il decidente deve necessariamente pagare: si tratta dell’impossibilità di intraprendere una

318

V. in particolare CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1923, p. 859 s.; ID., Cosa

giudicata e preclusione, in Saggi di diritto processuale civile, rist., III, Milano, 1993, p. 231 s.; ATTARDI, voce

Preclusione (principio di), in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, p. 893 s.; TARUFFO, voce Preclusioni (dir. proc.

diversa attività processuale, incompatibile con la precedente, poiché scatta appunto il meccanismo della preclusione319.

Un simile ragionamento, operati i debiti aggiustamenti, è trasponibile nel processo penale, specie in quello delineato dall’attuale testo codicistico, che ne ha mutato in parte la conformazione, facendolo virare verso un modello tendenzialmente accusatorio (e parzialmente dispositivo).

Per quanto qui interessa, esso si differenzia dall’assetto precedente, in cui le parti non disponevano di particolari alternative decisorie e, di rimando, non erano in grado di effettuare alcuna scelta strategica. Come già accennato, l’architettura del processo era estremamente semplice.

L’attuale modello accusatorio permette invece alle parti di operare continue scelte di indirizzo, ponendo loro dinanzi a molteplici alternative circa le modalità con cui procedere. È evidente come un simile sistema, che dà massimo rilievo all’autodeterminazione degli attori processuali, faticherebbe a mantenersi coerente e ordinato laddove volesse prescindere dal principio di preclusione/consumazione320 declinabile, forse un po’ grossolanamente, col

brocardo functus est munere suo.

Diversamente, infatti, si finirebbe per rischiare una paralisi del giudizio, posto in balia di una (potenzialmente) illimitata duplicazione di iniziative di accusa e difesa, con definitivo abbandono dell’ideale di procedimento come ordinata sequenza di atti.

Un altro elemento su cui si sono sviluppate le argomentazioni della dottrina processualcivilistica è quello della parità delle parti. Per quanto in questa sede sia possibile approfondire, preme rilevare come la salvaguardia di questo principio in sede di processo civile costituisca un solido argine al potere del legislatore di disporre preclusioni che interessino le attività di difesa delle parti321.

È, in altri termini, impensabile che, per garantire un andamento (più) razionale del procedimento, si vadano a inficiare diritti fondamentali quali quello alla difesa e al contraddittorio, secondo una linea interpretativa che rappresenta, anche per lo studioso del rito penale, una feconda direzione d’indagine.

Questa considerazione è valida a fortiori in ambito penalistico, ove le parti, specialmente nella fase delle indagini preliminari, non sono mai pienamente pari. Parrebbe dunque che il principio di preclusione non possa che essere concepito come garanzia ad personam per l’imputato: in realtà, invece, la giurisprudenza di legittimità, in più occasioni, ne ha fornito un’elaborazione del tutto diversa.

Riguardo all’imparagonabilità di principi di rango costituzionale come il diritto alla difesa o a un equo contraddittorio rispetto a quello di preclusione, il cui aggancio nel testo costituzionale è unanimemente ravvisato nell’art. 111, co. 2, è interessante spendere alcune parole circa il percorso metodologico che una certa dottrina ha svolto per giungere a siffatta conclusione322.

319 Cfr. CARRATTA, Il fondamento del principio di preclusione nel processo civile, in Il principio di

preclusione nel processo penale, cit., p. 17, il quale conferma che «il ricorso a tale meccanismo o espediente o

principio, infatti, si giustifica con l’opportunità soprattutto dei sistemi processuali moderni (in quanto ispirati almeno tendenzialmente alla prevalenza del principio dispositivo) di dare la dovuta rilevanza all’autoresponsabilità delle parti nel processo per ciò che fanno o non fanno».

320 Vale la pena di riprendere il dictum di Cass., Sez. un., 28 giugno 2005, Donati, cit., secondo cui «la preclusione corrisponde ad un istituto coessenziale alla stessa nozione di processo».

321

Ancora CARRATTA, Il fondamento del principio di preclusione, cit., p. 20 s.

322 Cfr. in particolar modo LEO, L’abuso del processo nella giurisprudenza di legittimità, in Dir. pen. proc., 2008, p. 518 s.; IACOVIELLO, Procedimento penale principale e procedimenti incidentali, cit., p. 2190 s.;

Si è, infatti, individuata l’origine di un generale principio di preclusione che permea l’ordinamento proprio nel canone di ragionevole durata del processo323. Questa stessa

dottrina rileva come nell’attuale concezione dei rapporti fra il giudizio principale e quello cautelare si sconti il rischio di travalicare il garantismo, inteso quale giusta predisposizione di rimedi all’errore giudiziario, poiché nella “assurda incomunicabilità” fra i due procedimenti delle risultanze ormai cristallizzate si legittima e forse si incentiva una ripetizione ad libitum di incidenti cautelari: paradossalmente, l’ordinamento attuale sembrerebbe incoraggiare l’errore, anziché prevenirlo o rimediarlo324.

Secondo quest’impostazione, invero piuttosto tranchant benché certamente affascinante, sarebbe sufficiente garantire una sola pronuncia, resa incidentalmente ma nel contraddittorio delle parti e un esame della Corte di legittimità – purché lo scenario fattuale permanga immutato – affinché le decisioni in tal modo ottenute in sede incidentale costituiscano pronunce idonee a condizionare anche il processo di merito.

Il passaggio dal principio di c.d. minima interferenza fra i due giudizi a quello di preclusione può certamente disorientare l’interprete aduso a declinare i rapporti tra i procedimenti nella versione classica325, ma è arduo non rilevare il potenziale incremento del

livello di efficienza e di economia processuale che, attraverso tale via, si raggiungerebbe326.

Tutto ciò premesso, la citata dottrina afferma dunque l’opportunità di tentare un’interpretazione sistematica del canone della preclusione. Per evitare di seguire il rischioso percorso che permetterebbe non già un’interpretazione estensiva degli specifici dati normativi al fine di disciplinare ambiti lasciati in disparte dal legislatore, bensì una sua vera e propria applicazione diretta, sfociando in un “giusnaturalismo processuale” che poco convince, essa si è sforzata di individuare dietro ai vari punti di emersione del paradigma del

ne bis in idem un principio di diretta derivazione costituzionale: quello, appunto, della

ragionevole durata del processo327.

Preclusioni processuali e ragionevole durata del processo, in Criminalia, 2008, p. 253 s., con introduzione di

CANZIO e contributi di MARZADURI e SILVESTRI; ORLANDI, Principio di preclusione e processo penale, in Proc.

pen. e giust., 2011, p. 1 s.

323 In primis, IACOVIELLO, Procedimento penale principale e procedimenti incidentali, cit., p. 2190 s. Di segno nettamente contrario, invece, GALLUCCIO MEZIO, La resistibile ascesa del “giudicando” cautelare, in Il

principio di preclusione nel processo penale, cit., p. 141 s.

Per una simile conclusione in ambito processualcivilistico, cfr. CARRATTA, Il fondamento del principio di

preclusione, cit., p. 19, secondo cui «il principio di preclusione, quale espressione dell’autoresponsabilità

(privatistica) delle parti nel processo per ciò che fanno o non fanno, assume sempre più una coloritura pubblicistica di strumento processuale finalizzato […] anche a rendere concreto e cogente il loro dovere di collaborazione alla “ragionevole durata del processo”».

324

IACOVIELLO, Procedimento penale principale e procedimenti incidentali, cit., p. 2191. 325

Su tutti, cfr. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 429 e ORLANDI, Procedimenti speciali, cit., p. 6.

326 A ciò peraltro non osterebbe una differenza qualitativa e di completezza della cognizione riservata ai diversi giudici. Per quanto attiene la quaestio iuris, l’operazione giuridica compiuta dall’autorità giudiziaria è pienamente sovrapponibile nei due casi. Gli esempi si moltiplicano facilmente: la questione circa l’inutilizzabilità delle intercettazioni impiegate per misure cautelari oggi può essere sollevata e portata all’attenzione della Corte di cassazione indefinite volte, nell’incidente cautelare personale, reale e infine nel giudizio principale (a partire dall’udienza preliminare). Il risultato sotto gli occhi di tutti è che, sul medesimo thema, la Corte – con buona pace di ogni velleità nomofilattica – si può pronunciare anche tre volte.

Discorso parzialmente più complesso va svolto invece per la quaestio facti: se è indubbio che i livelli probatori richiesti in sede di merito siano più elevati, poiché non è sufficiente dimostrare l’esistenza di un fumus per pronunciare sentenza di condanna, è altresì vero che molto spesso non vi sono – di fatto – ragioni per negare

in toto la ricostruzione fattuale cui si è pervenuti nell’incidente custodiale, in assenza di nova. È per ipotesi del

genere che questa dottrina guarda al principio di preclusione. 327

Così LEO, L’abuso del processo nella giurisprudenza di legittimità, cit., p. 512 e SILVESTRI, Le

Esso tutelerebbe la sicurezza delle situazioni giuridiche, essendo evidente come la pendenza di un procedimento generi un doppio costo, in termini di incertezza del diritto nel caso specifico, che grava tanto sulla collettività quanto – e soprattutto – sull’imputato328.

Il pericolo insito in quest’impostazione, tuttavia, risiede nell’attribuire a tale principio un carattere immediatamente precettivo, leggendolo come regula juris immanente all’ordinamento. La tentazione dell’interprete di operare indebiti sconfinamenti dal campo di una legittima interpretazione sistematica a quello della nomopoiesi è palese329.

In una prospettiva più cauta, in effetti, il canone della ragionevole durata del processo potrebbe definirsi (soltanto) un “meta-principio”, assimilabile a quei «criteri di razionalità pratica che soccorrono principalmente il legislatore e la Corte costituzionale nella delicata opera di bilanciamento (trasversale all’intera normativa processuale penale) fra tutela dell’individuo ed esigenza repressiva»330. In altre parole, esso ha certamente valore in

astratto, considerato in sé e per sé, ma il suo prevalente impiego rimane quello di un criterio regolatore in sede di bilanciamento fra principi costituzionali suscettibili di entrare in conflitto fra loro.

Peraltro, l’art. 111 comma 2 Cost. non lo declina in chiave soggettiva, quale diritto proprio delle parti alla celebrazione di un processo dalla durata ragionevole, ma si limita a imporlo come direttiva al legislatore nella sua opera di normazione. Ne deriva, quindi, l’impossibilità di fare competere questo principio ultra individuale con diritti soggettivi “puri”, quali il diritto al contraddittorio, il diritto di difesa331 o il diritto a controinterrogare i

testi d’accusa.

In breve, il processo penale deve sì “tendere” a concludersi in un tempo ragionevole – lasciandosi con ciò ampio spazio discrezionale al legislatore nel declinare il criterio nei casi concreti – tuttavia la speditezza non può neppure obliterare un’indagine sul «contesto» in cui la funzione giudiziaria è stata esercitata332: un processo sprovvisto delle più elementari

garanzie a tutela dell’imputato, eppure ragionevolmente celere sarebbe sicuramente un processo iniquo.

In conclusione, sembra opportuno guardare all’art. 111 comma 2 Cost. più “laicamente”, come al «principio di ragionevolezza applicato al tempo quale contenitore di attività processuali. Non la ragionevole durata del processo, bensì l’efficienza processuale è il valore

ragionevole durata del processo, cit., p. 252 e ORLANDI, Principio di preclusione, cit., p. 4-5 che “degrada” il principio a «meta-principio» inidoneo di per sé a entrare in bilanciamento, al fine di comprimerli, con il diritto di difesa o al contraddittorio o a controinterrogare i testi d’accusa.

328 «Il ritmo del tempo ragionevole è un ritmo sociale, prima ancora che cronologico», così IACOVIELLO,

Procedimento penale principale e procedimenti incidentali, cit., p. 2203.

329 «Il rapporto tra le potenzialità applicative dello strumento e il pericolo di un’interpretazione creatrice costituisce il vero e proprio “banco di prova” dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità […] e il fronte più avanzato della riflessione dottrinale». Così GALLUCCIO MEZIO, La resistibile ascesa del “giudicando”

cautelare, cit., p. 143.

Un’applicazione diretta del principio di efficienza processuale, filtrato attraverso il canone della ragionevole durata del processo e per mezzo dell’istituto della preclusione è ravvisabile in Cass., 12 ottobre 2011, n. 47655 in

Cass. pen., 2012, p. 3779, con nota di VALENTINI, Un’inedita (ma prevedibile) applicazione del principio di

preclusione per consumazione del potere.

330 ORLANDI, Principio di preclusione, cit., p. 4.

331 Così espressamente Corte cost., 9 dicembre 2009, n. 317, in Giur. Cost., 2009, p. 4765 s. con nota di UBERTIS.

332

MARZADURI, in Preclusioni processuali e ragionevole durata del processo, cit., p. 251 e soprattutto FERRUA, Il ‘giusto processo’, 3a ed., Bologna, 2012, p. 62 s.

(di rango costituzionale) idoneo a fungere da limite all’espandersi di garanzie individuali»333;

funzionalità da bilanciarsi costantemente con i cardini di un giusto processo.

Si è detto di come il principio di preclusione rappresenti un efficace rimedio volto a evitare quegli abusi del processo che si identificano in pretestuosi allungamenti delle tempistiche pur prive di motivazioni degne di tutela. Proprio in virtù del fatto che il legislatore non può prevedere per tabulas tutte le ipotesi di disfunzioni suscettibili di realizzarsi in concreto, lo strumento preclusivo ha assunto nel tempo un’importanza imprevista ed esercitato un fascino difficilmente resistibile sugli operatori pratici, destinato com’è a operare «in carenza di meccanismi legali di impedimento, fondati sulle sanzioni dell’improcedibilità o dell’inammissibilità»334.

Il suddetto principio, a causa della pluralità di situazioni non normate fonte di possibile dispersione di attività processuali, è stato oggetto delle applicazioni più svariate che rendono impossibile, o peggio fuorviante, il tentativo di una reductio ad unum.

La giurisprudenza ne ha dapprima fatto uso per fissare l’effetto preclusivo del provvedimento di archiviazione rispetto alla riapertura delle indagini da parte del pubblico ministero e al conseguente esercizio dell’azione penale335. Nella ripresa di tale impostazione

da parte della Corte di cassazione in tempi più recenti emerge con forza un impiego del concetto di preclusione sempre più orientato nella sua declinazione di esaurimento/consumazione del potere di promuovere una certa attività di parte336.

Tentativi di implementare le fattispecie di preclusione al fine di meglio razionalizzare il sistema, a livello di reciproche influenze di atti del procedimento principale e dell’incidente

de libertate, sono tuttavia provenuti dallo stesso legislatore, incontrando però diversi ostacoli

di carattere costituzionale337, nonché veementi critiche in dottrina338.

333 ORLANDI, Principio di preclusione, cit., 5 che valorizza l’affermazione di Corte cost., 22 ottobre 1996, n. 353, in Cass. pen., 1997, p. 1276, con nota di GREVI e 23 gennaio 1997, n. 10, in Foro it., 1997, I, p. 363 in tema di reiterazione ad libitum di domande di rimessione o ricusazione sulla base del medesimo compendio fattuale.

334 RUSSO, Brevi riflessioni sulla preclusione per consumazione nel processo penale, in Giust. pen., 2011, III, c. 113. Simili sanzioni sono espressamente previste, ad esempio, in tema di procedimento di esecuzione, laddove l’art. 666 comma 2 c.p.p. stabilisce l'inammissibilità della «riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi».

Analogamente si esprime Cass., 8 febbraio 2000, Bauleo, in C.E.D. Cass., n. 215230, in merito al procedimento di sorveglianza, nel quale il principio di preclusione processuale trova applicazione «in forza dell'art. 666 c.p.p., dettato per il procedimento di esecuzione e richiamato dall'art. 678 c.p.p., che sancisce l'inammissibilità della successiva istanza, se fondata sui medesimi presupposti di fatto e sulle stesse ragioni di diritto di quella precedente, già dichiarata inammissibile ovvero rigettata con provvedimento non impugnato e per ciò divenuto definitivo».

335

Corte cost., 19 gennaio 1995, n. 27, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, p. 1971, con nota critica di CAPRIOLI,

Archiviazione della notizia di reato e successivo esercizio dell’azione penale, con indirizzo confermato da Cass.,

Sez. un., 24 giugno 2010, Giuliani, in Cass. pen., 2012, p. 4053. Critici, altresì, CORDERO, Procedura penale, cit., p. 435-438, CAPRIOLI, L’archiviazione, cit., p. 472 e GIULIANI, Archiviazione della notizia di reato e istanze di

deflazione processuale, Torino, 2017, p. 138-139.

336 Ex multis, Cass., Sez. un., 24 giugno 2010, Giuliani, cit.: «l’esercizio dell’azione penale è espressione di una scelta che il pubblico ministero, in relazione ad una determinata notitia criminis, compie al termine delle indagini preliminari in alternativa alla richiesta di archiviazione, sicché, archiviato il procedimento, il p.m. perde il potere di adottare ulteriori opzioni sul medesimo fatto».

337 L’aggiunta ad opera della l. 46/2006 di un co. 1-bis all’art. 405 c.p.p. ha introdotto un’ipotesi di archiviazione coatta di fatto subordinata alla formazione di un giudicato cautelare: tale previsione infatti stabiliva che qualora la Suprema corte, nella sua veste di giudice delle impugnazioni cautelari, si fosse pronunciata in ordine all’insussistenza del requisito del fumus commissi delicti, in assenza di elementi sopravvenuti idonei a ribaltare tale giudizio, il pubblico ministero sarebbe stato obbligato a formulare richiesta di archiviazione al termine delle indagini. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 121 del 2009, in Dir. pen. proc., 2009, p. 1367 s., ne ha statuito l’illegittimità, rilevando una confusione degli ambiti funzionali dell’archiviazione e dell’udienza preliminare, unica sede appropriata a fungere da “filtro” ad un esercizio inopportuno dell’azione penale. Si v.

Nondimeno, la declinazione del paradigma preclusivo che ha maggiormente fomentato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale, è quella che attiene all’ambito cautelare pur se in una prospettiva tutta racchiusa all’interno del medesimo339.

I numerosi interventi della giurisprudenza di legittimità hanno contribuito a delineare un sistema capace di bloccare sul nascere, o comunque governare, eventuali ipotesi di abuso del procedimento cautelare da parte dell’organo inquirente. Quest’ultimo, infatti, è formalmente libero di proporre plurime domande cautelari nei confronti del medesimo imputato sulla base degli stessi fatti in riferimento ai quali un previo incidente de libertate pende in grado di impugnazione, ma il potere del giudice di pronunciarsi su tali richieste risulta inibito fino all’avvenuta definizione del procedimento originario.

Tale preclusione alla duplicazione di azioni custodiali de eadem re et persona troverebbe il suo fondamento razionale nell’avvenuta consumazione del potere del pubblico ministero di intraprendere iniziative sovrapponibili nei confronti di un determinato soggetto per lo stesso fatto340.

Ma al di là delle specifiche soluzioni offerte nei casi summenzionati, l’interprete oggi è posto di fronte a un dato obiettivo: la giurisprudenza di legittimità largamente maggioritaria, avallata da plurime sentenze rese nella composizione più autorevole, non ha esitato a

338 Si fa riferimento al procedimento speciale di cui all’art. 453, co. 1-bis e 1-ter c.p.p., introdotto dal d.l. 92/2008. Il procedimento immediato cosiddetto “custodiale” risponde alla ratio di creare, secondo quanto asserito da RENON, Obbligatorio ma non troppo…questioni vecchie e nuove in tema di giudizio immediato “custodiale”, in www.penalecontemporaneo.it, una «corsia preferenziale […] nella trattazione dei procedimenti riguardanti soggetti in vinculis»: il presupposto per poter formulare la relativa richiesta consiste infatti nella definizione del procedimento di riesame, ovvero nell’inutile decorso dei termini per proporlo. Il tema del giudizio immediato custodiale sarà affrontato nella Sez. III, infra.

339

Cass., Sez. un., 31 marzo 2004, Donelli, cit., si riferisce all’ipotesi di interferenze tra l’iniziativa del pubblico ministero ex art. 291 c.p.p. di presentare una nuova richiesta al g.i.p. e quella del medesimo inquirente di impugnare l’ordinanza ex art. 292 c.p.p. di rigetto di una originaria domanda cautelare. Le Sezioni unite, nel principio di diritto, affermano la preclusione della potestà del g.i.p. di statuire, in pendenza dell’appello avverso la prima decisione [senza che sia dato sapere come possa il g.i.p. conoscere se sia stata presentata o meno impugnazione e se l’appello sia pendente o già esaurito], in ordine alla medesima domanda de eadem re et

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