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I RICORSI AMMINISTRATIVI “TRADIZIONALI”: DIFETTI E POSSIBILI CORRETT

Daniele Corletto

Ringrazio innanzitutto ancora una volta gli amici trentini che ci dan- no, oggi come in tante altre occasioni, una bellissima opportunità d’in- contro e di discussione.

Volendo prendere sul serio il ruolo che mi è stato attribuito di “di- scussant”, mi sono sforzato di cercare dei punti attorno ai quali articola- re una proposta di discussione critica su quello che ha detto il presiden- te Pajno, ma la cosa mi riesce assai difficile, dato che mi trovo in pieno accordo con la sua impostazione e con le conclusioni avanzate. Del re- sto forse non è detto che chi “discute” su una relazione debba necessa- riamente “mettere in discussione” gli argomenti e le conclusioni di que- sta.

Mi servirò invece di un paio di punti che il presidente Pajno ha colto in modo molto puntuale come base per una riflessione che avrà il solo pregio di essere breve (del resto non è la ristrettezza del tempo la più classica e spudorata delle scuse per giustificare la frammentarietà e di- sorganicità di quello che si sta per dire, e per accattivarsi la benevolen- za, o almeno la sopportazione dell’uditorio?).

Fra le tante questioni che il presidente Pajno ha trattato, la prima delle due che vorrei riprendere riguarda la sorte sfortunata dei ricorsi gerarchici, e in generale dei ricorsi amministrativi; l’altra, che coincide proprio con una riflessione che andavo ruminando e che adesso mi sen- to autorizzato ad esporre, si riassume in questa formula: i ricorsi in op- posizione sono una modalità di esercizio della funzione di amministra- zione attiva.

Sulla sorte sfortunata dei ricorsi vorrei tornare un solo momento, soltanto per rilevare che la delusione sofferta da chi in qualche momen- to si era immaginato che i ricorsi amministrativi potessero diventare degli utili strumenti, economici, rapidi e semplici per risolvere o preve-

nire le controversie, non pare del tutto superata e anzi lascia spazio spesso non solo ai rimpianti, ma anche a dei tentativi di rianimazione dei poveri infermi.

La malaticcia sopravvivenza dei ricorsi amministrativi (tenendo fuo- ri dal discorso il ricorso straordinario al Capo dello Stato, che ha profili e caratteri peculiari, dei quali non è necessario oggi occuparsi), così come la tradizione e la legge del 1971 ce li ha consegnati, viene illumi- nata di quando in quando dalla speranza di un rilancio, di una rinascita. Come quando, ad esempio, tipicamente in occasione delle inaugurazio- ni degli anni giudiziari del Consiglio di Stato e dei TAR, i rispettivi Presidenti hanno fatto presente la necessità di sostenere il funzionamen- to della giurisdizione amministrativa riducendo il numero delle contro- versie, deflazionando (come si dice) il contenzioso.

Nella Relazione del Presidente De Lise, ad esempio, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2011 del Consiglio di Stato, sulla base della premessa che “la giurisdizione va considerata come una risorsa non illimitata, da riservare alle questioni più rilevanti” (e questa è, in fondo, l’idea che sta alla base della c.d. Proportionate Dispute

Resolution inglese, della quale sta scrivendo la collega Ligugnana), si

sostiene che “almeno per alcune materie, si potrebbe tornare a prevede- re il previo ed obbligatorio esperimento di ricorsi amministrativi, garan- tendo la terzietà e la specializzazione degli organi competenti a decider- li”. Ma dieci anni prima il presidente Baccarini all’inaugurazione del- l’anno giudiziario 2002 del TAR Veneto aveva caldeggiato “l’ipotesi di rivitalizzare il ricorso gerarchico improprio dinanzi a commissioni do- tate di effettiva terzietà”. E ancora un decennio prima, la Commissione di studio nominata dal ministro Cassese nel 1993 e presieduta da Cerul- li Irelli1 avanzò la proposta di istituire delle apposite “commissioni per

l’amministrazione giustiziale” presso ogni amministrazione statale, se- parate dall’amministrazione attiva e circondate di garanzie quanto al- l’indipendenza e alla composizione, con il compito di decidere ricorsi amministrativi.

1 Vedi P

RESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI –DIPARTIMENTO PER LA FUNZIONE PUBBLICA, La riforma della p.a., vol. V, La giustizia nell’amministrazione, 1994.

Del resto, a prendere sul serio le utilità che potrebbero essere offerte da un ben funzionante sistema di rimedi amministrativi ci sollecita an- che quella giurisprudenza del Consiglio di Stato, espressa dalla senten- za dell’Ad. Plen. 23 marzo 2011, n. 3, che ha ritenuto che l’art. 30 del Codice del processo amministrativo – con la previsione che il giudice “esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti” – consenta di “soppesare l’ipotetica incidenza eziologica non solo della mancata impugnazione del provvedimento dannoso ma anche dell’omessa attivazione di altri rimedi potenzialmente idonei ad evitare il danno, quali la via dei ricorsi amministrativi e l’assunzione di atti di iniziativa finalizzati alla stimolazione dell’autotutela amministra- tiva (c.d. invito all’autotutela)”.

Ovviamente, la sottoposizione del ricorso al giudice amministrativo alla obbligatoria condizione del previo esperimento di ricorsi ammini- strativi dovrebbe tener conto del limite che la Corte costituzionale ha segnato2 quando ha chiarito che “l’assoggettamento dell’azione giudi-

ziaria all’onere del previo esperimento di rimedi amministrativi, con conseguente differimento della proponibilità dell’azione a un certo ter- mine decorrente dalla data di presentazione del ricorso, è legittimo sol- tanto se giustificato da esigenze di ordine generale o da superiori finali- tà di giustizia, fermo restando che, pur nel concorso di tali circostanze, il legislatore deve contenere l’onere nella misura meno gravosa possibi- le”. E che sono quindi contrarie agli artt. 24 e 113 Cost. quelle disposi- zioni che comportano “compressioni del diritto di azione, ostacolando- ne l’esercizio, in particolare comminando la sanzione della decadenza in relazione al mancato esperimento di ricorsi amministrativi”.

Proprio richiamandosi a questa sua ferma e risalente giurisprudenza la Corte ha da ultimo ritenuto l’illegittimità delle previsioni in tema di mediazione tributaria obbligatoria: la norma, di cui al comma 2 dell’art. 17-bis del d.lgs. n. 546 del 1992, secondo cui l’omissione della presen- tazione del relativo “reclamo” (o istanza) da parte del contribuente de- terminava l’inammissibilità del ricorso (rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio) è stata ritenuta contraria a Costituzione con la

sent. n. 98 del 2014. Nel frattempo il legislatore, annusata l’aria, ha previsto con l’art. 1, comma 611, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 che la presentazione dell’istanza di mediazione sia condizione di proce- dibilità e non di ammissibilità del ricorso (e la Corte, nella stessa sent. n. 98, precisa che quella sua pronuncia non costituisce una presa di po- sizione sulla legittimità della nuova formula della legge).

Pur restando ferma questa limitazione, spingono nella direzione di una rinascita dei ricorsi amministrativi, o di qualcosa che vi assomigli, non solo ben concrete esigenze (del resto assai note), ma anche gli inviti di provenienza europea a dare più ampia realizzazione ad un sistema di risoluzione alternativa delle controversie (ad es. la Direttiva 2013/11/UE in materia di controversie dei consumatori), e, volendo, anche l’esem- pio di quanto avviene fuori dai nostri confini. Per non andare lontano si potrebbe del resto guardare con interesse alla riflessione (e più ancora alla pratica) che in Francia si è realizzata negli ultimi anni in tema di

recours administratifs préalables obligatoires (i c.d. RAPO) dei quali

avevamo parlato proprio qui a Trento qualche anno fa3.

Non stupisce quindi che l’ordinamento in qualche modo si attrezzi, anche per vie traverse, per trovare una risposta a quelle esigenze.

Nel diritto tributario, lo Statuto dei diritti del contribuente, la legge 212 del 2000, prevede all’art. 7 (sotto il titolo “chiarezza e motivazione degli atti”) certi contenuti obbligatori degli atti dell’amministrazione tributaria, fra i quali ci sta l’indicazione dell’organo o dell’autorità am- ministrativa presso i quali è possibile promuovere un riesame anche nel merito dell’atto in sede di autotutela. Certo, la norma è dettata specifi- camente per il settore tributario, che però non è affatto lontano dal no- stro diritto amministrativo. Ed è pur vero anche che la sostanza delle questioni di cui si discute nei rapporti con l’amministrazione finanziaria è caratterizzata dalla individuazione normativa di presupposti precisi dell’obbligo tributario, dall’assenza di discrezionalità, e con ciò dalla presenza di posizioni giuridiche più definite, diritti contro pretese. D’al- tro lato è anche vero che nella materia tributaria non ci sono di solito

3 Volendo, si può vedere ora D.C

ORLETTO,I “RAPO” (recours administratifs préa-

lables obligatoires) nel diritto amministrativo francese, in G. FALCON (a cura di), For-

me e strumenti della tutela nei confronti dei provvedimenti amministrativi nel diritto italiano, comunitario e comparato, Padova, 2010.

controinteressati, non c’è il terzo che ha interesse al mantenimento del- l’atto così come l’amministrazione lo ha configurato, e che ciò sempli- fica notevolmente il quadro, anche in tema di ricorsi e di annullamento o modifica successiva del provvedimento già adottato. Nonostante que- ste specificità, mi pare che l’esempio non sia privo di interesse anche per noi.

Si direbbe che in questo caso non siamo di fronte ad una richiesta in autotutela come semplice appello all’esercizio di poteri officiosi che l’amministrazione può secondo la sua valutazione decidere di utilizzare oppure no, appello al quale quindi l’amministrazione non è neppure ob- bligata a rispondere: in presenza di una precisa previsione che elenca fra i diritti del contribuente quello di sapere a chi si può presentare la relativa richiesta, verrebbe da dire che qui siamo di fronte alla creazio- ne di un nuovo rimedio, cioè di una istanza a cui l’amministrazione de- ve dare una risposta (così TAR Toscana 22 ottobre 1999, n. 767: “men- tre per l’autotutela spontanea l’amministrazione continua ad essere as- solutamente libera di rivedere o meno i propri atti illegittimi senza che a ciò corrisponda alcuna posizione tutelabile del privato, per l’autotute- la ad istanza di parte, il solo fatto di averla prevista e disciplinata con- duce inevitabilmente alla conclusione che l’amministrazione in questo caso non possa esimersi dal decidere sulla medesima”).

Del resto potrebbe non essere del tutto priva di qualche significato sintomatico, almeno quanto alla comune percezione del fenomeno, la circostanza che la prassi parli ormai correntemente di “ricorso” in auto- tutela.

Vale forse la pena anche di ricordare che l’amministrazione tributa- ria, con un suo regolamento (D.M. 11 febbraio 1997, n. 37) ha a suo tempo limitato la possibilità per gli uffici di intervenire in autotutela ai soli casi di errori materiali o di calcolo e simili, cioè a punti di criticità dell’operato dell’amministrazione che siano evidentemente riconoscibi- li e in maniera abbastanza diretta e facile passibili di correzione.

L’utilizzo di questi “ricorsi in autotutela”, di queste richieste all’am- ministrazione di correggere, o di ritirare, sue decisioni, pare si stia dif- fondendo, al di fuori di ogni previsione normativa, anche ad ambiti di- versi. Se così è, mi pare che siamo di fronte al crearsi, per generazione spontanea, di meccanismi che non sono nella sostanza diversi da quelli

che chiamavamo una volta “ricorsi in opposizione”. Abbiamo infatti per il privato delle possibilità di chiedere, alla stessa amministrazione che ha provveduto, appunto la modifica o il ritiro di sue decisioni, e il dovere, per l’amministrazione, di dare una sua risposta.

E qui vengo al secondo degli spunti che prendo dalla relazione del presidente Pajno, per rispondere alla domanda, che viene fatto di porsi subito, su quale sia la funzione che l’amministrazione esercita in questi casi. Io penso, confortato su questo da quanto ci ha detto il presidente Pajno, che si tratti di una funzione di amministrazione attiva. Mi guar- derò bene dall’affrontare il tema di quale sia il peso e lo spazio da rico- noscere al concetto di autotutela, limitandomi ad esprimere la mia con- vinzione che il potere che viene esercitato, quando si torna su preceden- ti decisioni per rivalutarne legittimità od opportunità, ed eventualmente per correggerle o ritirarle, è ancora sempre quello di provvedere sull’in- teresse pubblico che viene affidato, in via principale e caratterizzante, a quella certa amministrazione.

E questo sia che tale operazione sia spontanea, sia che venga solleci- tata dalla richiesta di un interessato.

Mi pare in ogni caso che non si possa in tali casi ricorrere ancora al concetto di funzione giustiziale.

Direi che la nozione di “amministrazione giustiziale” dovrebbe esse- re riservata a quei casi in cui l’amministrazione esercita un potere di riconsiderazione critica, sotto il profilo della legittimità, delle decisioni che ha preso, in una forma particolarmente vicina a quella della giuri- sdizione, cioè con organi separati da quelli dell’amministrazione attiva che abbiano una funzione espressamente rivolta alla tutela di posizione di privati e che siano dotati di garanzie di indipendenza, di almeno rela- tiva terzietà.

Tali sarebbero state, se la proposta avesse avuto seguito, le Commis- sioni giustiziali ipotizzate nel 1994 dalla Commissione Cerulli Irelli; tali erano, in Austria, gli “unabhängige Verwaltungssenate” fino alla recente riforma recata dalla Verwaltungsgerichtsbarkeits-Novelle del 5 giugno 2012, con effetto dal 1° gennaio 2014.

Un altro bell’esempio di istituto che rappresenta una risposta possi- bile alle esigenze di tutela rapida, economica, informale cui i tradizio- nali ricorsi amministrativi si sono mostrati incapaci di far fronte po-

trebbe vedersi nell’art. 243-bis del Codice dei contratti (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163): il preannuncio dell’intenzione di presentare ricorso giuri- sdizionale che nella materia degli appalti si deve dare all’amministra- zione.

Di questo preannuncio di ricorso viene talvolta sottolineato che la sua ratio sembra piuttosto la tutela dell’amministrazione che quella dei privati, e ne vengono messi in evidenza i limiti, cioè da un lato il fatto che non è obbligatorio, o meglio, che pur essendo dichiarato obbligato- rio, non ci sono però sanzioni sostanziali per la sua omissione, se non eventualmente sotto il profilo delle spese del successivo giudizio, dal- l’altro che anch’esso in fondo presenta i soliti difetti che si attribuivano ai ricorsi amministrativi, collegati con la ripugnanza che l’amministra- zione dimostra di fronte alla prospettiva di rimettere in discussione il suo operato.

C’è poi, carico di possibilità che ancora una volta rischiano di anda- re definitivamente sprecate, l’art. 10-bis della legge n. 241.

Mi pare che quel momento di discussione, di contraddittorio aggiun- tivo su un progetto di atto, su di un testo in sostanza già delineato del provvedimento (ci si trova infatti in fase decisoria) non possa rappre- sentare la riapertura (e men che mai la prima edizione) di un contraddit- torio istruttorio su di una domanda, che deve esserci già stato, ma piut- tosto un contraddittorio di discussione sui termini di opportunità e di legalità di una decisione sostanzialmente già presa, di un testo già scrit- to. Anche qui, inevitabilmente, come nella comunicazione dell’inten- zione di ricorrere, l’amministrazione è chiamata a riconsiderare una sua determinazione (già presa formalmente o già sostanzialmente formata) alla luce di rilievi, osservazioni, lamentele degli interessati, sullo sfon- do della possibilità o dell’intenzione, in un caso esplicitamente dichia- rata, nell’altro sottointesa ma evidentemente presente, di portare i rilievi sollevati (almeno quelli di legittimità, e quelli di merito nella misura in cui si riesca a formularli sotto la specie di figure di eccesso di potere) al giudice, come motivi di un ricorso.

Nel ri-valutare la propria decisione alla luce delle osservazioni del- l’interessato, e comunque alla luce della prospettiva che si apre di un imminente ricorso al giudice amministrativo, l’amministrazione non si spoglia affatto della sua funzione di amministrazione attiva, ma viene

chiamata da questa iniziativa del privato a mettere a fuoco, nel quadro degli interessi (e dei contro-interessi) di cui deve tener conto, anche l’interesse ad evitare la controversia, e con ciò a raggiungere, rapida- mente e pacificamente, la definitiva stabilizzazione dell’assetto voluto. Si potrebbe cioè dire che, specificamente di fronte ad una sollecita- zione articolata dall’interessato attorno a puntuali rilievi, l’amministra- zione deve inserire, nel quadro delle valutazioni e degli interessi di cui tenere conto, il “rischio giudiziario”, cioè la possibilità che il raggiun- gimento dei suoi obbiettivi sia impedito o comunque ritardato e distur- bato dalla prospettiva del ricorso giurisdizionale e dagli esiti possibili di questo. Senza dire poi dell’interesse dell’amministrazione a rendere la sua azione più accettata mostrando la capacità di riconoscere e correg- gere suoi errori.

Non per dare giustizia agli interessati, ma per realizzare in maniera più efficace e sicura le finalità cui deve mirare, e quindi evidentemente in una prospettiva di amministrazione attiva, l’amministrazione deve verificare la tenuta possibile delle sue decisioni, con una valutazione prognostica sul possibile esito del ricorso giurisdizionale che viene an- nunciato.

Sulla base della ricognizione degli orientamenti della giurispruden- za, e di un “esame di coscienza” circa l’esistenza delle illegittimità de- nunciate, l’amministrazione dovrebbe aprire così una fase di autocon- trollo sul suo operato, e un check, una valutazione sui possibili esiti del- l’iniziativa giudiziaria annunciata, sulle possibilità che questa abbia successo.

In questa fase di verifica, di rivalutazione del quadro alla luce del- l’interesse alla stabilità e sicurezza, potrebbero ben trovare spazio even- tuali accordi transattivi con l’interessato, dovendosi del resto verosi- milmente escludere, fino al decorso dei termini per ricorrere, che sussi- sta un affidamento protetto dei terzi avvantaggiati4.

Perché anche questi embrioni di possibili futuri rimedi non vadano incontro alla sorte sfortunata dei ricorsi amministrativi, forse si dovreb-

4 In questo senso, v. G.L

IGUGNANA, Conflitto e consenso nei rapporti tra privato e

amministrazione: riflessioni in merito ai c.d. «accordi transattivi», in D. CORLETTO (a

cura di), Gli accordi amministrativi tra consenso, conflitto e condivisione, Napoli, 2012.

be cercare di inquadrarli in una maniera diversa da quella che talvolta si propone, e cioè non come rimedi giustiziali, non come strumenti che servono a dare garanzie al privato, ma come occasioni per un rieserci- zio, più ponderato e saggio, del potere di amministrazione attiva.

Quando si parla di “amministrazione giustiziale” si chiede esplici- tamente all’amministrazione di sdoppiare il suo ruolo, cioè di trasfor- marsi, non si capisce come, da soggetto di amministrazione attiva a giudice, per giunta giudice in re propria, veramente un’impresa impos- sibile che spiega la triste sorte dei ricorsi. Bisognerebbe invece aver chiaro che qui si tratta di fare amministrazione attiva.

Da questo punto di vista si potrebbe persino pensare ad una qualche riconsiderazione delle tradizionali costruzioni del procedimento ammi- nistrativo.

Si potrebbe cioè convenire che il procedimento amministrativo, una volta adottata e formalizzata la decisione, resta ancora sospeso, aperto per un breve periodo, almeno finché pende il termine per ricorrere al TAR, durante il quale la situazione è ancora non definita, non vi sono aspettative consolidate di terzi, e l’amministrazione ha modo di rivede- re eventualmente la sua scelta, esercitando i suoi poteri di autotutela, ossia poteri di amministrazione attiva sotto forma di rivalutazione, di ripensamento sollecitato e guidato dai rilievi del possibile ricorrente.

Volendo allargare ancora la riflessione, si potrebbero qui ripetere quelle considerazioni che altre volte si sono fatte sulle conseguenze del- l’idea, forse alla fine negativa dal punto di vista dei risultati, dell’ammi- nistrazione come un corpo giuridico formato da giuristi, che applicano norme giuridiche. Forse si dovrebbe tornare a pensare che l’ammini- strazione deve essere un insieme di tecnici, di persone competenti nei singoli campi in cui l’attività pubblica si esplica, che cercano le solu- zioni migliori ai problemi che si presentano e che cercano di realizzare nella maniera più intelligente, più economica, più efficace possibile le indicazioni della politica, che ha il compito di indicare interessi, priori- tà, obbiettivi da realizzare. E che il profilo giuridico rappresenta il limi- te esterno dell’azione, ed una indicazione, non troppo invasiva, delle modalità di essa.

Se così fosse, amministrazione e giurisdizione non potrebbero con- fondersi, restando ben separate nella loro sostanza, e l’idea stessa di

amministrazione giustiziale non avrebbe spazio, se non per alcuni uffici