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La professione del mediatore culturale

4.8 I rischi nella professione: tra emotività e conflitto

La professione di mediatore culturale è continuamente esposta alla dimensione del conflitto, dell’emotività, e richiede notevoli capacità nel “saper gestire le problematiche”,“saper valutare” e “saper autovalutarsi” nel sistema delle rappresentazioni e nelle modalità di approccio. Si inserisce in “contesti delicati” che richiedono “capacità di empatia” e allo stesso tempo “distacco” rispetto alle diverse situazioni, oltre che capacità di “messa in relazione” tra i bisogni dell’utenza immigrata e il mandato istituzionale del servizio in cui la mediazione si inserisce.

Proprio la posizione del mediatore culturale come “terzo”, “tramite” nella comunicazione, facilita il rischio di sbilanciamento tra le richieste “di convincimento e di ottenimento di vantaggi” dell’utenza immigrata e le richieste di “integrazione e in un certo senso controllo sociale” da parte dei servizi. Il difficile compito del mediatore è quello di “non lasciarsi trascinare” da queste forze opposte e cercare di enfatizzare il più possibile una relazione “paritaria” tra le parti in gioco. Un compito non privo di rischi, dal momento in cui anche il futuro della professione del mediatore culturale dipende fortemente sia dalle risorse finanziarie e richieste istituzionali, che dalla stessa presenza dell’utenza immigrata. Come poter conciliare entrambe, affinché possa essere completo

195 Balsamo F. (2006). Autonomia e rischi della mediazione culturale. In Luatti L. (Ed.),op. cit.,

il riconoscimento della figura del mediatore culturale? Come essere in grado di “distaccarsi” dal rischio di “immedesimazione” nei confronti dei propri connazionali o di “difesa della propria professionalità di mediatore con un preciso mandato istituzionale?”196 Non è affatto semplice gestire i processi di identificazione.

Il mediatore potrebbe “sentirsi nei panni” dell’utente straniero che ha vissuto difficoltà e sofferenze nei processi di inserimento e di “integrazione” nella società di accoglienza. Un sentimento che potrebbe essere anche rafforzato: dalla rabbia e frustrazione rispetto alla posizione di asimmetria percepita all’interno del servizio in cui svolge la mediazione, dallo scarso riconoscimento della professione, dal pregiudizio degli operatori dei servizi, dalle condizioni di scarso potere contrattuale ed incertezza nella stabilità lavorativa, o ancora dalla percezione di scarso cambiamento da parte della società, nonostante gli sforzi nella professione. Oppure nel polo opposto, il mediatore potrebbe sentirsi completamente “estraneo” all’utente immigrato, “paladino” del servizio e della società di accoglienza, tenuto conto che il raggiungimento dello status professionale ha alimentato il distacco con “gli autoctoni”, “gli immigrati”, che non sono stati in un certo senso, in grado di compiere fino in fondo gli sforzi per una completa “integrazione” nel Paese di accoglienza. In questo caso il mediatore rischia di enfatizzare le procedure e le regole del servizio in cui opera la mediazione o di esprimere una sorta di “chiusura” o “messa alla prova” nei confronti dell’utente immigrato che accede al servizio. In entrambi i casi un’eccessiva immedesimazione nelle parti impedisce al mediatore di “saper cogliere” oltre che “saper mediare” tra i diversi punti di vista.

Un ulteriore rischio nella professione è quello per il mediatore di non essere riconosciuto nel suo ruolo, svalutato o percepito come “traditore” sia da parte degli utenti immigrati, che dagli operatori del servizio. O nel caso opposto di “porsi come protagonista”, focalizzare su di sé la relazione, con il rischio di produrre una comunicazione frammentata tra operatori ed utenti stranieri, che in alcuni momenti si sentono “estranei” o “esclusi” dalla comunicazione. Questo non può che alimentare una percezione di distacco, sfiducia tra le parti che si sentiranno meno inclini nel mettersi in comunicazione e in relazione, oltre al rischio di “aumentare la funzione di delega” al

mediatore e quindi lo stesso “sforzo” ad una comunicazione interculturale, capace effettivamente di “rompere le barriere del pregiudizio”.

Il mediatore culturale non può dare per scontata la mediazione a più livelli, a livello linguistico, culturale, perché altrimenti alcuni elementi incompresi nella comunicazione tra l’utente straniero e l’operatore del servizio, potrebbero essere dati per scontato, producendo malintesi ed errori. Oltre al fatto che neppure la piena appropriazione dei codici linguistici e culturali del Paese di origine e di quello del Paese di accoglienza, può essere data per scontato, soprattutto quando il mediatore si trova di fronte a situazioni in cui viene richiesta un’espressione valoriale che può portare a un “dover scegliere tra i valori del Paese di origine e quelli di accoglienza”, o a “doversi sbilanciare”, mettendo in discussione il sistema delle appartenenze e il sentimento di lealtà.

4. 9 La mediazione culturale in Italia

In Italia, la figura del mediatore culturale nasce verso la fine degli anni ottanta e gli inizi degli anni novanta come “mediatore linguistico”, traduttore, interprete, facilitatore linguistico nella comunicazione tra pazienti, utenti immigrati e medici ed operatori all’interno dei servizi. L’obiettivo è quello di “togliere le barriere linguistiche” nell’accesso e nell’usufruzione dei servizi, di risolvere problemi e produrre soluzioni per la popolazione immigrata, dal momento in cui l’Italia diventa sempre più “terra di immigrazione” e “società plurietnica”. Se da un lato vi è un tentativo di dare dei riconoscimenti per l’esercizio della cittadinanza alla popolazione immigrata, dall’altro le politiche migratorie e i mass media tendono a promuovere un’immagine stereotipata e negativa di tutta la “componente straniera”, tale da produrre una sorta di “separazione” rispetto agli “autoctoni”.197 Infatti, come sostiene Perocco: «la discriminazione è sistematica e interessa tutte le sfere della vita sociale degli immigrati (materiale e

197 Si evidenzia una forte contraddizione tra l’aumento delle richieste di ricorso ai mediatori da

parte degli operatori dei servizi pubblici e privati e la riduzione dei fondi destinati alla cittadinanza immigrata. Castiglioni M. (1997), op. cit. p. 13.

spirituale, individuale e collettiva) e ciò li pone strutturalmente in una situazione di inferiorità sociale»198.

Tra gli anni novanta e il duemila vi è una fase di sperimentazione della “mediazione”, quale pratica innovativa per l’inclusione dei “nuovi cittadini”, sebbene si incominciano a notare i limiti di una mera mediazione linguistica, che fanno sì che sia sempre più richiesta una “mediazione culturale”.

Il ruolo e i compiti dei mediatori per favorire le misure di integrazione sociale vengono per la prima volta riconosciuti in modo ufficiale nella legge n 40 del 6 marzo 1998 e nel decreto legislativo n. 286 del 25 luglio 1998 “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione”, che stabiliscono:

«dei criteri per il riconoscimento dei titoli di studio e degli studi effettuati nei Paesi di provenienza ai fini dell'inserimento scolastico, nonché dei criteri e delle modalità di comunicazione con le famiglie degli alunni stranieri, anche con l'ausilio di mediatori culturali qualificati»199; «la realizzazione di convenzioni con associazioni regolarmente iscritte nel registro di cui al comma 2 per l'impiego all'interno delle proprie strutture di stranieri, titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a due anni, in qualità di mediatori interculturali al fine di agevolare i rapporti tra le singole amministrazioni e gli stranieri appartenenti ai diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici e religiosi»200.

Nonostante ciò nel territorio italiano si vengono a delineare dei percorsi eterogenei sia per quanto riguarda la definizione e la formazione del “mediatore culturale” o del “mediatore interculturale”, che il suo riconoscimento formale. Infatti questa figura viene per lo più promossa dalle associazioni sensibili ai “problemi degli” immigrati, e resa

198 Basso P.(a cura di) (2010). Razzismo di Stato. Stati Uniti, Europa, Italia, Milano, cit., p. 418. 199 Legge 6 marzo 1998, n. 40."Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello

straniero.", art. 36 co. 6 e Dlgs. 25 luglio 1998, n. 286 “"Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero", art. 38 co. 7.

200 Legge 6 marzo 1998, n. 40."Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello

straniero.", art. 40 co. 1 e Dlgs. 25 luglio 1998, n. 286 “"Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero", art. 42 co.1.

fruibile attraverso delle convenzioni, presso le Questure, gli ospedali, le amministrazioni comunali, i centri di prima accoglienza, le scuole.”201

Nel duemila la mediazione risulta essere una prassi consolidata all’interno dei servizi, anche se le difficili condizioni di lavoro dei mediatori legate a diffusi contratti a chiamata o di collaborazione, e la scarsa ed incerta retribuzione, fanno sì che i mediatori stessi avanzino richieste di riconoscimento professionale prima a livello regionale e poi a livello nazionale. Un riconoscimento che è avvenuto solo parzialmente in alcune regioni italiane come il Friuli Venezia Giulia e la Valle d’Aosta in cui è stato promosso un Elenco Regionale dei mediatori culturali, senza tuttavia la possibilità di creare un vero e proprio Albo regionale o nazionale dei mediatori culturali. L’iscrizione formale agli elenchi regionali da parte dei mediatori aveva più finalità: tutelare una formazione di “mediatori culturali di qualità”, promuovere il ricorso ai mediatori culturali come prassi all’interno dei servizi, dare una maggiore visibilità alla professione di mediatore.202

Nel duemilanove, con la stesura del documento della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome 09/030/CR/C9 “Riconoscimento della figura professionale del Mediatore interculturale” si è definito il mediatore culturale come: «un operatore sociale che facilita la comunicazione tra individuo, famiglia e comunità nell’ambito delle azioni volte a promuovere e facilitare l’integrazione sociale dei cittadini immigrati» che favorisce «la rimozione delle barriere linguistiche e culturali, la valorizzazione e la promozione della cultura di provenienza, la promozione della cultura di accoglienza, l’integrazione socio-economica e la fruizione dei diritti e l’osservanza dei doveri di cittadinanza»203.

Negli anni la centralità della figura del mediatore culturale è sicuramente aumentata, anche se il ricorso alla mediazione culturale è ancora fortemente discrezionale a livello

201 Casadei S., Franceschetti M. (2009) Il mediatore culturale in sei Paesi europei (Italia,

Francia, Germania, Grecia, Regno Unito, Spagna) ambiti di intervento, percorsi di accesso e competenze, Report di ricerca ISFOL, p. 3.

202 Ivi, p. 6.

203 Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome (2009), Riconoscimento della figura

professionale del Mediatore interculturale 09/030/CR/C9, Roma, Allegato 1. In: http://www.edscuola.it/archivio/scuole/sacchi/mediatoreItercult.pdf

nazionale e regionale, vista anche la sua prevalenza nel settore del privato sociale in collaborazione con gli enti pubblici attraverso delibere e convenzioni.204

204 Si stima che circa il 92% dei mediatori culturali dipendono da enti, associazioni, cooperative,

mentre solo l’8% agisce in proprio. Favaro G. (2006), I paradossi della mediazione. In Luatti L. (Ed.), op. cit., p. 26.

Capitolo quinto

Migrazioni femminili e mediatrici culturali in Italia e nel Friuli