Il dialogo con gli attori sociali: interviste alle mediatrici, ai mediatori culturali e agli operatori/coordinatori dei servizi della provincia d
6.1 Verso la costruzione di un’intervista dialogica con le mediatrici/i mediatori culturali della provincia di Udine
Durante la mia esperienza di tirocinio formativo in qualità di assistente sociale presso il consultorio familiare di Udine ho avuto l’occasione di intervistare alcune mediatrici e alcuni mediatori culturali sul territorio. L’idea è nata dal mio desiderio di conoscere di persona la storia delle mediatrici e dei mediatori prima di tutto come “migranti” e poi come “professionisti della mediazione”. Infatti, nonostante la possibilità di consultare un’ampia bibliografia in tema di mediazione culturale, sentivo l’esigenza di “mettermi in gioco”, di “sentire di persona le emozioni”dei mediatori culturali,240 in particolare delle mediatrici culturali, vista la mia scelta di privilegiare un approccio di genere nella ricerca.241 Quest’idea ha trovato poi realizzazione grazie all’appoggio degli operatori del consultorio, in particolare l’assistente sociale Alessandra Zenarola, che con il suo interesse mi ha supportato in questo “viaggio di scoperta”.
Le mie difficoltà iniziali erano legate a due aspetti: come costruire l’intervista242 e come “agganciare” i mediatori/le mediatrici culturali. Non posso nascondere di essere stata un po’ disorientata all’inizio243, poi ho iniziato a costruire la traccia dell’intervista
240 I fenomeni e gli eventi sociali si trasformano di continuo, sono imprevedibili, ma soprattutto
assumono senso attraverso gli attori sociali che vi interagiscono dando il proprio contributo personale. Ceccatelli Gurrieri G. (2003), op. cit., p. 81.
241 Ho scelto di fare dieci interviste ai mediatori culturali, di cui sette alle mediatrici culturali. 242 L’intervista alle mediatrici e ai mediatori culturali è particolarmente utile per far emergere in
modo più esplicito il doppio codice socio-culturale: da un lato quello dell’”essere immigrate/i”, dall’altro quello di “essere professionisti della mediazione nei servizi”. Ceccatelli Gurrieri G. (2003), op. cit., p. 87.
243 L’esperienza del disorientamento, scrive Salvatore La Mendola, è un passaggio “quasi
obbligato” nella costruzione di una conoscenza che procede attraverso l’incontro con esperienze e relazioni. La Mendola S. (2009). Centrato e aperto. Dare vita a interviste dialogiche, Novara,Utet Università, p. XI.
strutturata244 prendendo spunto da alcune ricerche sulla mediazione culturale che sono state condotte da altre tirocinanti all’interno del consultorio familiare di Udine, poi ho consultato alcuni libri sulla mediazione ed infine mi sono confrontata con la mia relatrice e la mia correlatrice della tesi, che mi hanno suggerito di approfondire nelle interviste le percezioni sul ruolo e le funzioni della mediazione culturale nonché l’aspetto dell’interculturalità.
L’assistente sociale Zenarola, che da anni si è occupata all’interno del consultorio familiare di Udine dei decreti riguardanti minori stranieri, si è proposta di “fungere da filtro” nel contattare le mediatrici e i mediatori culturali per le interviste, visto che la mia non conoscenza delle mediatrici e dei mediatori avrebbe potuto essere un ostacolo per lo svolgimento delle interviste. Così abbiamo preso l’elenco dei mediatori culturali che collaborano con il servizio e abbiamo scelto alcune mediatrici e alcuni mediatori sulla base della provenienza geografica (a campione, abbiamo ritenuto utile sceglierne da diversi continenti, proprio per cogliere “universi” anche lontani tra loro).
Il contatto con le mediatrici per via telefonica da parte dell’assistente sociale Zenarola, che all’inizio spiegava brevemente a tutte le mediatrici e mediatori le motivazioni e le caratteristiche legate alla scelta dell’intervista,245 ha suscitato reazioni diverse. Alcuni/e mediatori/mediatrici che avevano già svolto delle interviste all’interno del servizio si sono rese subito disponibili, altri/e hanno chiesto maggiori informazioni, quasi diffidenti e titubanti rispetto alla prima parte dell’intervista nel “dover raccontare di sé”, altri/e hanno rifiutato dicendo di “aver troppi impegni con la mediazione” o “di attendere di essere ancora pagati/e per altre ore di mediazione”.
Ho iniziato le interviste con tutti i dubbi sul mio modo di pormi, nel cercare di non condizionare le risposte, inconsapevole anche rispetto ai tempi di durata delle interviste. La prima intervista mi ha emozionato molto perché sentivo nelle parole della mediatrice un fortissimo entusiasmo, anche se non sono mancati toni incrinati e quasi silenziosi rispetto all’esperienza del mancato riconoscimento del titolo di studio e la fatica di essere riconosciute come “professioniste” nel Paese di accoglienza. In quel momento ho provato un forte senso di ingiustizia, mi sono chiesta come sia possibile “perdere tutto migrando”? Anche se il racconto della mediatrice proseguiva con toni di riscatto “per
244 Solamente nel momento in cui lo studente si cimenta a scrivere la traccia, svela se stesso, il
suo punto di partenza nel vedere le cose, le sue aspettative ed aspirazioni. Ibidem
avercela poi fatta ad emergere”, sottolineandone l’estrema fatica. La mediatrice si lasciava raccontare, era quasi difficile “contenerla” nei tempi ipotizzati (un’ora e mezza), tant’è che spesso le mie domande venivano “anticipate” dal suo racconto. La terza intervista è stata completamente diversa, è stato molto difficile per me “entrare in contatto” con la mediatrice, che si rifiutava di dare informazioni personali che per me erano utili per ricostruire da un lato gli aspetti anagrafici, che per “cogliere la dimensione soggettiva“ nella mediazione. Ho dovuto fare uno sforzo per “passare alle domande” sulla professione e andare oltre alle mie “domande interiori”, come: come mai tutta questa diffidenza? Come mai tutta questa reticenza nel dare informazioni su di sé? E nel corso dell’intervista il clima si distendeva, poi s’irrigidiva, e continuava con: «ti dico questo, ma non lo scrivere».
Man mano che proseguivo nelle interviste acquisivo sicurezza, sia nel raccogliere le informazioni, 246 che nel gestire la mia emotività nei racconti, tant’è che se percepivo un “muro”, una sorta di chiusura nel raccontare, mi fermavo, facevamo una pausa, bevevamo un bicchier d’acqua e ponevo la domanda in modo più generale, per non “rompere l’intimità” delle mediatrici/dei mediatori. In alcuni momenti mi sono sentita “sprofondata nel racconto”, altre volte “sul filo del rasoio, al confine tra il poter chiedere e il dover rimanere in silenzio”, altre volte come “un’intrusa”.
È vero che le interviste avevano lo scopo di “fare una ricerca”, che per certi aspetti poteva essere utile agli operatori del servizio per valutare il proprio modo di porsi, ma era sempre necessario “creare fiducia”, lasciar spazio, porre domande più specifiche per raggiungere le informazioni o proseguire oltre. A volte mi sono sentita quasi in dovere di “aggiungere qualcosa di me”, per evitare il rischio che le interviste si trasformassero in un interrogatorio, era molto importante per me “evitare il freddo distacco” perché lo percepivo come “un ostacolo alla comunicazione”. Uno degli ostacoli aggiuntivi sembrava essere legato in alcune interviste, alla “lettura diversa” delle domande, anche se alla fine questa è stata una risorsa “per coglierne le diverse percezioni”.
Dopo aver condotto e trascritto la maggior parte delle interviste (circa sette su dieci), mi sono sentita “satura di informazioni”, anche se, rileggendo le interviste in alcune forse ci sarebbero stati degli aspetti da approfondire rispetto all’attribuzione di senso, che
246 Raccoglievo appunti, dato che ero convinta il registratore avrebbe alimentato un clima di
forse avevo dato per scontato durante l’intervista, per cui sorgeva spontaneo chiedermi: ma che cosa voleva esattamente dire la mediatrice con queste parole? Perché le ha dette proprio in quel momento? Dove voleva arrivare?
Ogni intervista era diversa nel ritmo, nella sintonia, “nel valicare il confine”, in alcune potevo “osare nel chiedere di più”, in altre, dovevo attenermi ad ascoltare quello che poteva essere detto e non detto. Eppure, nonostante l’unicità delle interviste, potevo già cogliere degli aspetti in comune, come: la fatica dell’esperienza migratoria, dell’essere riconosciuti “alla pari degli autoctoni”, la difficoltà nella professione legata al contratto a chiamata, all’incerta retribuzione e alla “pretesa” di completa disponibilità.
Percepivo una fortissima asimmetria tra i mediatori e gli operatori dei servizi, anche se questa non veniva dichiarata apertamente, sentivo che le disuguaglianze erano piuttosto forti, legate in particolare all’organizzazione dei servizi stessi, e alla tendenza a ricorrere alle mediatrici/ai mediatori “a singhiozzo”. Mancava forse una progettualità, una continuità, e più le mediatrici/i mediatori erano “in grado di tessere relazioni e fiducia” con gli operatori, e più era possibile che essi venissero “richiamati”. Una mediatrice o un mediatore “che si sbilanciavano troppo” nella critica dell’operato del servizio, forse poteva essere “scomoda/o” e quindi più difficilmente richiamato.
Due interviste mi hanno particolarmente colpita, quella di una mediatrice culturale che tendeva a mio parere a “sbilanciarsi troppo” dalla parte degli operatori, quasi “dimenticando” di essere stata immigrata, e quella di una mediatrice che “tendeva a schierarsi dalla parte dell’utenza immigrata”, lamentando una forte dimensione di pregiudizio da parte degli operatori.
Nella prima intervista tra le due, emergeva nel racconto della mediatrice una grande “avversione” nei confronti dei connazionali, quasi che “non si sforzassero abbastanza nell’integrarsi” o “avanzassero eccessive pretese” nel Paese di accoglienza. Nonostante la differenza “etnica”, mi sembrava in quel momento che la mediatrice avesse tutto d’un tratto assunto i tratti della «bianchitudine»247.
Nella seconda intervista invece, potevo percepire una “forte aggressività contenuta” verso gli operatori dei servizi, che, a dire della mediatrice, esprimevano in modo palese i propri pregiudizi mettendo a disagio la mediatrice stessa, che doveva “fungere da
247 Scrive Fanon che il desiderio dell’uomo “Nero” è di rendere bianca la propria razza, di
“assumere i tratti del colonizzatore”. Cfr. Fanon F. (1996). Pelle nera e maschere bianche: il
filtro” nella comunicazione. Il racconto proseguiva con «bisogna giustificare gli operatori per poter andare avanti nella mediazione», una frase che mi lasciava un po’ perplessa, e che mi suggeriva una sorta di “sconfitta nel dover accettare le cose”, le forti asimmetrie di potere.
Quando ho intervistato i mediatori è stato molto diverso, non è stato “un raccontare al femminile”, ho sentito in alcuni momenti “la diversità di genere”, soprattutto quando un mediatore ha messo in atto degli atteggiamenti quasi seduttivi, che mi hanno messo un po’ in imbarazzo. I toni delle interviste erano poi più pacati, più controllati nelle emozioni. Terminate le interviste ho scelto di “spedirle” via mail alle mediatrici/ai mediatori, per dare loro la possibilità di “omettere” o di “fare delle aggiunte” qualora l’avessero ritenuto opportuno, anche se avevo ben specificato che le interviste sarebbero comparse come anonime, mi è sembrato più corretto confrontarmi anche in questa fase. Queste sono anche state lette dall’assistente sociale Zenarola che ha ritenuto “curiose” alcune risposte delle mediatrici e dei mediatori, dalle quali è possibile cogliere anche una sorta di valutazione rispetto all’atteggiamento degli operatori e l’operato del servizio.
Personalmente ritengo che le interviste condotte siano state molto utili perché: mi hanno consentito di “smussare alcuni pregiudizi”, come quello che “le mediatrici/i mediatori tendono a sbilanciarsi dalla parte dell’utenza immigrata”: avere “una visione d’insieme” sulle percezioni delle mediatrici/ dei mediatori sul territorio che sembrano essere fortemente vincolate dalle scelte politiche e dall’organizzazione dei servizi; maturare una maggiore consapevolezza sul mio ruolo professionale futuro di assistente sociale. Rispetto alle interviste condotte mi focalizzerò in particolare su quelle rivolte alle mediatrici culturali in quanto l’approccio di genere è un aspetto scarsamente esplorato nella letteratura sulla mediazione culturale, e a mio parere una caratteristica che influenza la stessa mediazione e che fa la differenza.