Lo scenario italiano: immigrazione e mediazione culturale
3.4 Mediazione ed immigrat
Il mediatore ha una funzione di “ponte”, attraversatore di barriere, di confini, ha la capacità di “diventare un camaleonte nelle diverse situazioni”, per cui il suo ruolo può essere importantissimo anche nella messa in relazione di due entità culturali che non conoscendosi potrebbero entrare in conflitto tra loro. Da qui il ricorso al mediatore culturale nelle relazioni interetniche, nella messa in comunicazione tra il paziente immigrato e l’operatore autoctono.
Difficilmente nella società postmoderna dell’oggi gli incontri tra etnie possono avvenire in modo paritario perché spesso si inseriscono all’interno di cornici di relazioni sociali ed economiche fortemente disuguali legate alle geopolitiche dei globi di appartenenza. Così come è ancora più difficile che nella quotidianità, nonostante la globalizzazione del mondo, o di quello spazio mondiale che si restringe nei suoi confini, siano effettivamente possibili degli scambi relazionali quotidiani tra autoctoni ed immigrati.168 Quel che permane è una separazione invisibile che fa sì che il colore della pelle, l’appartenenza nazionale, i valori, le culture, i modelli culturali di appartenenza si riproducano come target di differenziazione e disuguaglianza, tali da impedire fortemente ogni possibilità effettiva di mescolamento, di contaminazione. Così come è altrettanto vero che essi tendano a rafforzarsi separatamente e a proporre visioni del mondo che possono colludere, entrare in competizione, richiedere l’esclusione dell’Altro.
La mediazione tende ad essere utilizzata come mezzo esclusivo di comunicazione con chi dispone di repertori che si differenziano da quelli della società maggioritaria, quasi a voler ripristinare un criterio di giustizia sociale per cui anche la voce dei “pochi e diversi” possa essere consentita. Un criterio quello della discriminazione positiva169 che rischia tuttavia di produrre ulteriori separazioni e segregazioni etniche, attraverso l’invocazione di una quasi fittizia forma di tolleranza.
168 Alcuni autori hanno coniato il termine di “multiculturalismo quotidiano” per riferirsi alla
forte separazione urbanistica, spaziale e relazionale fondate sulla “differenza”. Cfr. Colombo E., Semi G. (2007), Multiculturalismo quotidiano. Le pratiche della differenza, Milano, Franco Angeli, p. 59.
169 La discriminazione positiva consiste nel privilegiare alcune fasce di popolazione
La mediazione per essere efficace deve essere linguistica, culturale, o meglio interculturale, nel senso che deve essere incentrata sulla dimensione dell’inter- del tra, tra il “Noi” e il “Loro”, dato che una società sempre più interculturale non può fare a meno di essere interdipendente, influenzata, contaminata, messa in crisi dalla presenza dell’Altro. L’Altro, colui che è costantemente costruito come il diverso, come un oggetto che non ha nulla da comunicare se non la diversità.170 Occorre andare oltre questa rappresentazione immutevole ed eterna delle culture perché la mediazione stessa si inserisce in un processo dinamico di trasformazioni di un’identità che è altrettanto dinamica. Identità che vengono associate al carattere dell’ibrido, dell’essere e del non essere allo stesso tempo, anche se ancora una volta cogliere l’ibrido come un semplice mescolamento e compromesso tra due parti non può che essere una semplificazione. Cogliere l’Altro e se stessi nella dimensione interculturale significa non solo confrontare, ma costruire.171 È difficile costruire quando la mediazione interculturale si limita ad essere adottata come mero strumento di riconferimento della cittadinanza agli utenti immigrati nei servizi, anche se anche all’interno di questa dimensione si possono cogliere delle risorse e degli spunti per il cambiamento della società.
La mediazione interculturale si inserisce infatti nei servizi, e deve avere a che fare con le dimensioni e i limiti delle strutture organizzative, così come delle normative, delle prassi, che prendono forma anche nell’atteggiamento di chi è ricoperto dalla funzione di dare l’accesso ai servizi, conferire diritti, comunicare, mettersi in relazione.172 Entrare in contatto non è affatto semplice dato che le prime dimensioni che si colgono sono le barriere linguistiche, culturali, nelle prassi, nella diversità, soprattutto quando i servizi o le funzioni degli operatori sono del tutto sconosciute. Questo può essere il disagio dell’immigrato nell’accedere ai servizi, che non sono solo uffici a sé stanti, ma vere e proprie riproduzioni in miniatura dei valori, delle convinzioni, delle abitudini, delle preferenze, della prassi della società del Paese di accoglienza. Il rischio è quello che
170Padoan I. (2012), in Pedagogia Oggi, vol. 1, op.cit. p. 14. 171 Ibidem.
172 Secondo l’autore Bonazzi G. è importante tener conto della differente capacità dei soggetti di
modificare le organizzazioni con cui entrano in rapporto, non sarebbe pertanto possibile un approccio oggettivistico alle organizzazioni. Bonazzi G. (2006), Come studiare le
l’immigrato si percepisca come “un elefante in un negozio di cristalli”, impacciato, titubante, “fuori posto173”, in difficoltà rispetto al che cosa e come chiedere.
Il ruolo degli operatori dei servizi è quello di mettere a proprio agio gli utenti che accedono ai servizi, renderli partecipi, consapevoli delle loro risorse, della loro capacità di empowerment, nonché della capacità di autodeterminazione. Compiti che richiedono alte capacità di differenziazione rispetto al genere, all’età, ai bisogni dell’utenza, che si raffinano ancora di più se di fronte si presentano delle isole piccole, medie o grandi di culture eterogenee che richiedono una conoscenza almeno superficiale dei codici linguistici e culturali perché il ricorso al modello dell’eguaglianza di trattamento potrebbe suggerire la volontà di ignorare le particolarità, i mosaici etnici che compongono la nostra società, il nostro mondo. Così come riprodurre la differenza potrebbe essere altrettanto rischioso, oltre che estremamente complicato, dal momento che allora, davvero tutti i servizi dovrebbero dotarsi di personale plurietnico per garantire il diritto alla differenza. Sarebbe non solo impensabile, ma estremamente caotico, complicato, per cui il ricorso ai mediatori culturali si rivela essere in questo senso pensato, contestualizzato, reso utile all’occorrenza. Una presenza che potrebbe ristabilire una dimensione di equilibrio tra autoctoni ed immigrati, almeno alla luce di un bisogno complesso che richiede tempo, energie, capacità di saper cogliere i problemi anche nella chiave di lettura agli occhi di chi, diversamente da Noi, ci guarda e guarda il mondo, cercando di non essere solamente guardato per la sua diversità.
La mediazione interculturale prevede dunque la presenza di un esperto, una figura neutrale che “appartiene il più possibile a due mondi”, pur avendo delle radici culturali ben definite e lontane dal Paese di accoglienza. Deve essere necessariamente un immigrato perché il processo di cambiamento dell’identità e delle rappresentazioni sociali non può rimanere ancorata ad una sola terra e visione del mondo, perché altrimenti rischia di irrigidirsi, di essere incapace di “traghettare”, di trasmettere
173 In una società “ordinata, immobile” i ruoli, così come le stratificazioni sociali sono
prestabiliti e non possono essere cambiati, non c’è ascesa sociale, tutto è già definito. Si tratta di una concezione che non tiene conto del ruolo degli individui nella società, né dei criteri di giustizia sociale, eppure si tratta di una rappresentazione che tende a suggerire “una visione delle cose” già di per sé definita, conosciuta, che non richiede cambiamenti, in cui non viene percepita la dimensione del rischio, che restituisce dunque sicurezza. Una rappresentazione decisamente lontana dalla cosiddetta “società del rischio” coniata dal sociologo Beck U., in cui il rischio e la vulnerabilità connotano la condizione umana dell’oggi. Cfr. Beck U. (2001), Che
cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, trad. it. di Cafagna E.,
contenuti e forme della comunicazione che si possono anche differenziare notevolmente.
La mediazione interculturale richiede il saper tradurre, il saper cogliere stratificazioni, intrecci e complessità, il sapersi orientare all’interno di una mappa che può essere letta in modi diversi a seconda di chi ne usufruisce. D’altronde i riferimenti culturali sono proprio questo, una sorta di mappa per l’esplorazione della realtà, dei progetti di vita, che orientano pensieri ed azioni, che si arricchiscono nel tempo grazie alla relazione con gli altri e alle differenze che si incontrano nel cammino.174
Il mediatore interculturale è colui che “intesse” gli incroci culturali, colui che entra nella dimensione dell’Altro per rappresentarlo, dargli una voce che possa essere sentita da colui che gli è di fronte ma è incapace di comprenderlo. Competenze complesse quelle del mediatore interculturale che non può che essere “un trasformista”, “abile comunicatore”, “capace di coinvolgere, di incontrare”, un professionista della comunicazione interculturale, in contesti eterogenei che richiedono ulteriori conoscenze e competenze sempre più specifiche.
Capitolo quarto.