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Lo scenario italiano: immigrazione e mediazione culturale

3.2 L’integrazione “in bilico” degli immigrati in Italia

Negli ultimi trent’anni l’immigrazione in Italia ha assunto un carattere ormai strutturale150 e stabile, per cui la presenza dello “straniero” non può più essere vista come mera forza lavoro,151 ma come colui portatore di bisogni e desiderio di riconoscimento e cittadinanza sociale.

Il senso comune prevalente è tuttavia quello che percepisce i bisogni della popolazione immigrata come “i problemi degli immigrati”, portatori di forme di disagio sociale e fonte di allarmismi, dal momento in cui la naturale paura per l’altro si trasforma, anche con il contributo dei mass-media, in pregiudizio o addirittura xenofobia e razzismo.152 Il rischio in tal caso è quello di concepire da un lato “gli stranieri” come una componente omogenea, e dall’altro di fornire risposte “speciali” e separate rispetto alla “popolazione autoctona”, come il cosiddetto “problema di salute degli immigrati”, alla quale prevale l’ottica dell’emergenza, piuttosto che quello della prevenzione.153 Vista la trasformazione della società italiana in società plurietnica, quest’ottica sembra essere incapace di dare risposte a bisogni complessi della popolazione immigrata, nonché sterile nella prevenzione dei rischi e dei conflitti sociali. Un percorso più adeguato e maggiormente capace di creare spazi di scambio culturale è sicuramente quello della

“Carta Famiglia” nel Friuli Venezia Giulia che prevede una permanenza di cinque anni sul territorio regionale, o i diffusi casi di richiesta di “un certo numero di anni di residenza in Regione” per poter accedere agli Alloggi di edilizia popolare.

150 Caritas/Migrantes (2011), op. cit., p. 158.

151 Come diceva il sociologo algerino Sayad A.: “L’immigrato è essenzialmente forza lavoro, e

forza lavoro temporanea”. Sayad A. (2008), L’immigrazione o i paradossi dell’alterità:

l’illusione del provvisorio, Verona, Ombre Corte, p. 61.

152 Il fenomeno dell’immigrazione in Italia è spesso stato inquadrato nei mass-media nell’ottica

dell’emergenza, fino ad essere considerata una questione di ordine pubblico e sicurezza nazionale. Castiglioni M. (1997). La mediazione linguistico - culturale. Principi, strategie,

esperienze, Milano, Franco Angeli, p.13. Si veda anche: Basso P (a cura di), Razzismo di Stato. Stati Uniti, Europa, Italia, Milano, cit., p.525 e Rivera A (2009). Regole e roghi. Metamorfosi

del razzismo, Bari,Dedalo Edizioni, pp. 20-24.

mediazione culturale, qualora fosse capace di promuovere non solo l’integrazione della popolazione immigrata, ma l’interculturalità. Se da un lato l’integrazione ha la funzione di inglobare la popolazione immigrata nel sistema della cultura dominante, attraverso il riconoscimento di diritti e doveri di cittadinanza, dall’altro, l’interculturalità è qualcosa che va oltre in quanto prevede: la capacità di “sapersi collocare e relazionare” con interpretazioni e visioni del mondo molteplici, l’essere disponibili a “far vedere” e ad “imparare a vedere”, il “cercare un punto d’incontro” costruendo e decostruendo i propri orientamenti154. Una chance che va oltre la mera tolleranza alle diversità e che non può essere priva di conflitti o di ostacoli istituzionali, legati anche alla necessità di veicolare i mali sociali anche a determinati “capri espiatori”. Eppure difficilmente è possibile adottare uno sguardo interculturale, dal momento in cui ciò che prevale, soprattutto all’interno del contesto italiano, è una sorta di “rimozione” o “mancata accettazione” della trasformazione in “società plurietnica”, vista anche l’assenza di programmi interculturali nelle scuole o percorsi di apprendimento linguistico differenziati dalla lingua italiana come L1, nonostante l’ormai elevata percentuale di alunni stranieri nelle scuole.155 Basti far riferimento ai testi scolastici per accorgersi come lo straniero venga costantemente rappresentato come “inferiore”, “primitivo”, “esotico”, per il suo colore della pelle,156 i suoi costumi, le sue tradizioni, o come esso vengano raccontato “senza storia” o principale spettatore del colonialismo europeo, italiano, tanto facilmente giustificato o banalizzato anche nelle sue vesti più feroci.157 Non solo, sono stati propri i movimenti politici come quello della lega nord, le politiche migratorie restrittive, nonché i mass media a costruire nella popolazione italiana un immaginario ostile e pieno di pregiudizio dello “straniero” o “dell’extracomunitario”, tali da rendere non solo difficile, ma quasi “eccezionale”, la possibilità di incontro fisico

154 Ci si riferisce alla teoria del costruttivismo che nega la possibilità di una conoscenza

oggettiva, dal momento in cui tutto ciò che si osserva è legato ad una serie di apprendimenti e costruzioni di significato dell’osservatore. Cfr. Baraldi C. (2003). Comunicazione interculturale

e diversità, Roma, Carocci, p.13.

155 Ci si chiede come questo sia possibile visto che il concetto di educazione interculturale

compare per la prima volta nella Circolare ministeriale n. 205 del 22 luglio 1990, La scuola dell’obbligo e gli alunni stranieri. L’educazione interculturale.

156 L’antropologa Tabet P. ha condotto un’interessantissima ricerca sul “razzismo verso i neri”

presso più scuole italiane elementari e medie, dal Veneto alla Sicilia, in cui emerge chiaramente un diffuso razzismo tra i bambini. Cfr. Tabet P. (1997), La pelle giusta, Torino, Einaudi.

157 Nigris E. (a cura di) (2003), Fare scuola per tutti. Esperienze didattiche in contesti

tra autoctoni ed immigrati e tra immigrati in competizione nella sfida dell’ottenimento del riconoscimento sociale, fortemente legato anche ai diversi tipi di permesso di soggiorno e nazionalità.158 Uno scenario che con la crisi del mercato del lavoro ed economico ha alimentato la messa in concorrenza tra lavoratori autoctoni ed immigrati,159 anche nella contesa del riconoscimento dei diritti sociali. Per non parlare poi delle sempre più difficili possibilità di incontro tra donne immigrate ed autoctone, dal momento in cui la visione prevalente delle prime è quella di donne “sottomesse”, “arcaiche”, “primitive”, “deboli”, “serve” o “prostitute”, e delle seconde come “dinamiche”, “grandi lavoratrici”, “libere”, “emancipate”.160

Un punto di vista che non tiene conto degli aspetti che le accomunano come il doppio carico di lavoro tra la famiglia e il mercato161 o del dramma di un “welfare familistico”162, come quello italiano, con scarse capacità di protezione sociale. Eppure la

società italiana è ormai una società plurietnica, non può fare a meno di interrogarsi sui “fallimenti” delle politiche migratorie nei processi di integrazione della popolazione immigrata, nonché della crescente segregazione etnica quale elemento sempre più strutturale nella società italiana.

Il rischio è quello che si venga a creare una situazione di conflitto come quello delle seconde generazioni in Francia, vista la costante subordinazione dal punto di vista giuridico e sociale della popolazione immigrata rispetto a quella autoctona e quindi l’assenza di risposte interculturali ai bisogni delle pluralità etniche presenti.

La funzione del mediatore culturale soprattutto oggi in Italia, deve essere quella di ridare riconoscimento alla popolazione immigrata attraverso l’espressione delle differenze in uno spazio il più possibile paritario nonché la scoperta dell’arricchimento reciproco, come un valore perseguibile. «Occorre collegare la concezione dei diritti di

158 Basso P. (a cura di) (2010) Razzismo di Stato. Stati Uniti, Europa, Italia, Milano, cit. p. 418. 159 Ivi, p. 387.

160 Ivi, p. 401.

161 Come afferma Chiaretti G. è un’illusione pensare che la distribuzione diseguale tra il lavoro

e la famiglia riguardi solo le donne immigrate, dal momento in cui essa si rivela essere fortemente asimmetrica nella relazione tra i generi. Chiaretti G. (2009), La redistribuzione del lavoro domestico e di cura tra noi, donne indigene, e loro donne immigrate, in Saveria Chemotti (a cura di), Donne al lavoro. Ieri, oggi, domani, Padova, Il Poligrafo, pp. 361-388.

162 Nel cosiddetto “welfare familistico” la famiglia svolge un ruolo di “ammortizzatore sociale”,

come rete di supporto e di protezione alla caduta in povertà, essa è legata alla scarsa disponibilità di servizi e la prevalente “politica di assegnazione di contributi economici”.

cittadinanza e la possibilità di avviare un reale processo di integrazione che contempli pari opportunità e impedisca la discriminazione»163.

Sono necessarie “politiche istituzionali di mediazione” a partire dalla scuola, dalla sanità, dai servizi sociali, capaci di riorganizzare le loro strutture tenendo conto delle differenze culturali, linguistiche, delle condizioni sociali, del livello di istruzione, della religione164, delle caratteristiche di chi potenzialmente potrebbe accedervi. Altrimenti il rischio è quello di produrre fraintendimenti, difficoltà comunicative, tensioni alimentate dalla percezione di ingiustizia ed esclusione sociale. Ecco come la figura del mediatore linguistico, culturale, si rivela essere strategica nella promozione di relazioni simmetriche tra autoctoni ed immigrati e di una comunicazione e di una società sempre più interculturali.

3.3 Perché mediare? La mediazione come strumento di risoluzione del conflitto e