• Non ci sono risultati.

Il circuito azione-riflessione (e le buone pratiche)

Nel documento 229 00186 (pagine 137-150)

metodologico-conoscitiva

1. Il circuito azione-riflessione (e le buone pratiche)

Il circuito teorico-pratico, riflessività-azione è da sempre stato al centro della riflessione educativa, da Dewey in poi. La dialettica tra teoria e pratica può presentarsi a vari livelli di consapevolezza e va letta nelle sue articolate possi­ bilità. Le conoscenze che costellano questo dominio possono dare luogo a strategie difformi.

Pensiamo alla condizione dell’ insegnante che deve “cavarsela” giorno per giorno nella sua classe. Una parte discreta delle situazioni in cui

continua-Come acquisiamo la conoscenza didattica

Agire riflessivo

Buona pratica

mente si imbatte ha il carattere di un problem solving che richiede scelte istantanee; in questi casi non è la conoscenza teorica il riferimento che può soccorrerlo, bensì il repertorio, più o meno consapevolmente attinto, delle esperienze analoghe vissute o immaginate e, in qualche caso, degli stessi au­ tomatismi interiorizzati. Per lo più la decisione è assunta “a pelle” : nella vita quotidiana è la conoscenza tacita* ad avere il sopravvento. In diversi casi que­ ste azioni possono mostrare una discreta efficacia, funzionano bene per lo scopo per cui sono nate. Gran parte dell’arricchimento di sapere didattico è ottenuto in questa modalità.

L ’apprendere dall’esperienza può essere variamente arricchito. E' ragionevole pensare che il processo possa essere potenziato dalla riflessività, concetto che riceve oggi grande attenzione negli studi sulla natura epistemologica del sa­ pere professionale (Schòn, 1993). L ’agire riflessivo, che tipicamente caratte­ rizza il professionista distinguendolo dal novizio, si fonda sul repertorio di casi ed esperienze che l’esperto ha vissuto nel corso della propria carriera e che gli consente di ristrutturare quel “groviglio di situazioni problematiche” incontrate nella vita quotidiana, individuando una possibile soluzione. D ob­ biamo tuttavia aggiungere che sia pratica che teoria possono rappresentare anche fattori di disturbo e di travisamento: un eccesso di riflessività può por­ tare a una sorta di paralisi operativa, come accade ad esempio di vedere in insegnanti diventati ipercritici; la teoria stessa può irrigidire la percezione inducendo a trovare a ogni costo una conferma degli schemi astratti; la prati­ ca dal canto suo può spingere a considerare di valore generale eventi molto particolari.

Intorno all’esperienza personale si possono inserire strumentazioni e disposi­ tivi specifici volti a tenere sotto controllo idiosincrasie e deformazioni sog­ gettive; gli interventi possono così essere resi riconoscibili e confrontabili all’esterno con esperienze similari: per questa strada si possono anche stabili­ re ragionevoli sistemi di convenzioni riconosciuti operativamente utili da una comunità, anche se non sottoposti a rigorosa sperimentazione. Un con­ cetto come quello di “buona pratica” rientra ad esempio in questa categoria; una buona pratica è un costrutto che ha ricevuto negli ultimi anni grande attenzione nel contesto internazionale, anche se è scarsamente analizzato sul piano epistemologico e teorico. Esso appartiene all’alveo delle conoscenze che superano la soglia della riflessione individuale entrando in un dominio pubblico di confronto e comparazione intersoggettiva. Per definire una buo­ na pratica occorre tuttavia passare attraverso un’attività sistematica di con­ fronto di più apporti documentali e punti di vista.

Immaginiamo di voler applicare un modello di didattica multimediale all’ in­ terno di una scuola superiore. Si tratta di elaborare possibili linee guida per il suo trasferimento su scala più ampia. Si può facilmente comprendere che non ha molto senso applicare un intervento sperimentale strillo sensu; un

gruppo di controllo non è definibile, e comunque la situazione, rispetto a una classe tradizionale, è globalmente diversa, del tutto incomparabile nei risulta­ ti. Ma anche un’unica esperienza ha scarso significato; potrebbero entrare in gioco fattori del tutto peculiari ed effetti deformanti. Se però disponessimo di 5-10 esperienze condotte sulla base di alcuni criteri comuni (ad es. stesso livello scolare, ambito contenutistico, tecnologia di riferimento e tempi di attuazione consentiti), attraverso un’opportuna comparazione critica delle esperienze potremmo pervenire a una ragionevole comprensione del domi­ nio in questione. In questi casi occorre stabilire un accettabile compromesso tra l’ampiezza del dominio, il numero delle esperienze consentito dalle risor­ se e il livello di affidabilità che si vuole conseguire.

2

. Conoscenze acquisite sul campo: la metodologia

Per acquisire sistematicamente conoscenze con ragionevole affidabilità, la ricerca didattica si avvale di metodologie desunte dalle scienze sociali. Quali sono i problemi e gli aspetti più importanti da conoscere a questo riguardo? Essi riguardano soprattutto la consapevolezza delle possibilità e dei limiti degli strumenti di cui questa può avvalersi, le diverse metodologie di inda­ gine impiegabili, la conoscenza dei criteri in virtù dei quali si può valutare l’affidabilità di una ricerca.

Che cosa trasforma il circuito teorico-pratico caratterizzante le stesse forme di conoscenza proprie della vita quotidiana in “attività di ricerca” ? Al di sotto delle distinzioni quantitativo/qualitativo, nomotetico/ ideografico, una ri­ cerca è sempre una strategia esplicitata, cioè una sequenza ordinata di mosse, di decisioni assunte sulla base di criteri e regole resi riconoscibili all’estemo, nel quadro di vincoli e gradi di libertà maggiori o minori. Rendere esplicite le “ipotesi plausibili in alternativa” è il dato essenziale che contraddistingue la dimensione della ricerca. L ’esplicitezza, con i conseguenti controlli, non è questione di tutto-niente: anche nelle scienze sperimentali questa è lungi dall’essere completa. Le differenze e i conseguimenti sono dunque sempre di grado: ci si ferma a un livello considerato convenzionalmente accettabile per i fini che ci interessano.

2.1. Soggettività dell’osservatore In primo luogo occorre prendere consape­

volezza di quella dimensione che va sotto il nome di “equazione personale”; muovere dal senso comune verso una visione più critica del processo conosci­ tivo richiede una comprensione preliminare di questo aspetto.

Nel senso comune si ritiene che vedere significhi conoscere la realtà nei suoi tratti oggettivi; è invece un aspetto consolidato della riflessione epistemo­ logica il riconoscere che l’ individuo è sempre guidato da schemi personali nell’osservazione della realtà e che questa differisce sensibilmente da

sogget-Natura unitaria della ricerca

Equazione personale

Metodo sperimentale

to a soggetto in funzione di preconoscenze, sensibilità personali e attese. Il ricercatore ha maggiore consapevolezza della dimensione soggettiva dell’os­ servazione e cerca modi ragionevoli per gestirla; il suo scopo è di tenerla sot­ to controllo, esplicitando preventivamente ipotesi e regole a cui si atterrà, lasciando altresì precisi spazi e momenti di distacco tra pensieri e realtà, mo­ menti in cui le proprie idee possono fare i conti in forme più distaccate con i dati tramite l’uso di strumenti esterni o di altri osservatori.

Fondamentale a questo riguardo l’apporto di Popper, e la differenza tra “ide­ ologia” e “scienza” : una teoria può considerarsi scientifica se è formulata in modo tale che altri possano dimostrare la sue eventuale falsità.

2.2. Metodi quantitativi La ricerca dunque, di qualunque natura essa sia, si

distingue dal senso comune per il fatto che, affinché altri possano ripercor­ rerla ed eventualmente falsificarla, deve rendere esplicito e ripercorribile il procedimento che ha seguito. Una differenza emerge quando essa si confron­ ta con la tipologia di dati di cui deve avvalersi per formulare le sue elabora­ zioni; questi possono essere acquisiti in due differenti modalità: sotto forma di dati numerici, quando l’oggetto di studio è traducibile in elementi o unità conteggiabili o sotto forma di dati non conteggiabili (materiale testuale o visivo).

Nel primo caso i dati raccolti possono in vario grado basarsi su calcoli, il cui esito è sostanzialmente indipendente dal valutato re, una volta che la proce­ dura sia stata decisa; nel secondo caso l’elaborazione assume il carattere di un’ interpretazione in cui l’ intervento personale del valutatore rimarrà in qualche misura presente durante il percorso che va dalla raccolta dei dati alla valutazione del risultato.

Nell’ambito dei metodi quantitativi sono identificabili alcune tipologie ca­ noniche: modello sperimentale, quasi sperimentale, presperimentale, corre- lazionale, ex post facto, survey (Ary, Jacobs, Sorensen, 2010).

Le prime tre costituiscono modalità sperimentali, che hanno in comune il fatto che il ricercatore interviene attivamente in una determinata situazione; si presume che la situazione oggetto di studio sia riducibile a un insieme rap­ presentativo di variabili conosciute che possono essere tenute sotto control­ lo; manipolandone una, la “variabile indipendente”, e lasciando immutate le altre, si possono registrare gli effetti in uscita, cioè sulla “variabile dipenden­ te”, imputabili verosimilmente all’azione esercitata.

Perché si possa affermare con ragionevole certezza che gli effetti siano dipesi proprio dalla manipolazione della variabile indipendente, si impiega la com­ parazione di un gruppo sperimentale con uno o più gruppi di controllo, quanto più possibile identici al primo; si interviene sul gruppo sperimentale modificando la variabile indipendente, mentre si evita l’ introduzione di tale variabile in quello(i) di controllo. Il metodo sperimentale in senso stretto si caratterizza in quanto l’appartenenza ai due gruppi è assegnata in modo

ca-suale (cioè selezionando gli elementi da un unico universo con l’avvertenza che ogni elemento che verrà incluso nel campione abbia la stessa probabilità

di essere scelto di qualunque altro, r c t, Random Controlled Trial). Se si re­

gistra una differenza dei risultati nel test finale dei due gruppi che parla a favore del gruppo sperimentale (come risulterebbe nei dati raffigurati sia nella figura b sia nella figura c del riquadro 1), si tratta di rispondere alla se­ guente domanda: si può affermare che tale differenza sia “statisticamente significativa”, tale cioè da essere con scarsa probabilità imputabile a fattori puramente casuali ?

A questo punto un supporto viene dalla statistica, che offre dei parametri di riferimento relativi ai fenomeni casuali. Per fare un esempio banale, essa ci dice che se gettiamo in aria molte volte una moneta perfettamente bilanciata, man mano che aumenta il numero dei lanci ci avvicineremo sempre di più a un 50% di testa e a un 50% di croce, e che qualora questo non accadesse vor­ rebbe dire che il fenomeno non è perfettamente casuale, che cioè la moneta o il lancio in qualche modo sono, per cosi dire, truccati.

La statistica offre dunque dei parametri matematici di riferimento: conoscen­ do la dimensione dei campioni in causa, sperimentali e di controllo, la dimen­ sione della differenza e la tipologia della scala, essa può indicare quante proba­ bilità ci sono che quella differenza tra gruppo sperimentale e gruppo di controllo empiricamente riscontrata sia dovuta al caso. Generalmente si accet­ ta la soglia del 5 o dell’ 1% come statisticamente significativa. Le sigle del tipo p < 0,05 oppure p < 0,01, che normalmente si trovano nei lavori sperimentali per fare riferimento a livelli di significatività accettabili, stanno a indicare che la probabilità che la differenza sia dovuta al caso risulta inferiore rispettiva­ mente del 5 e dell’ 1%, che ci sono dunque 95 o più (o 99 o più) probabilità su 100 che quella differenza non sia dovuta a fattori casuali, il che viene assunto come un buon indizio di una probabile efficacia della variabile indipendente.

Soglie probabilistiche

Variabili sotto controllo

r iq u ad ro 1 Raffigurazioni grafiche di dati e valutazione delle differenze tra gruppo sperimentale e gruppo di controllo

I dati di prove che siano elaborabili in forma quantitativa possono essere raffigurati gra­ ficamente come nel modo sotto riportato. Immaginiamo che una popolazione studentesca abbia ottenuto dei punteggi a un questionario 0 a un test. Se in ascissa si indicano i punteggi ottenuti, in ordinata le frequenze, cioè quanti soggetti hanno ottenuto quel determinato pun­ teggio, una raffigurazione possibile è la classica curva a campana, modello teorico a cui ten­ dono ad avvicinarsi distribuzioni in cui i punteggi varino casualmente (fig. a). In una curva a campana perfetta esistono dei rapporti matematici precisi, cioè i valori della media (ricavata dalla somma di tutti i punteggi diviso il numero dei soggetti), della moda (il punteggio a cui corrisponde la più alta frequenza) e quello della mediana (il valore che occupa la posizione centrale una volta che tutti i punteggi sono ordinati dal più basso al più alto) vengono a corri­ spondere. Oltre a ciò, se ci si sposta verso destra e verso sinistra dal punteggio medio di una determinata grandezza nell’area delimitata nei due sensi viene a cadere la stessa percentua­ le degli elementi della distribuzione.

media, moda e mediana

Raffigurazioni grafiche di dati e valutazione delle differenze tra gruppo sperimentale e gruppo di controllo

Ipotizziamo allora che un gruppo sperimentale e un gruppo di controllo, entrambi partiti dagli stessi punteggi, al termine di un intervento di cui si vuole valutare l'efficacia abbiano ot­ tenuto i punteggi raffigurabili come nella figura b: come si può vedere i punteggi ottenuti dal gruppo sperimentale sono stati più alti. Possiamo a questo punto dire che l’intervento è stato efficace? A rigore no. Occorre valutare se quella differenza ottenuta è statisticamente signifi­ cativa, applicando un test di significatività statistica (ad es. un T di Student) il quale ci potrà dire se quella differenza raggiunge la soglia di significatività di p < 0,01 o almeno di p < 0,05. La raffigurazione grafica dei dati ci può fornire anche altre informazioni. Immaginiamo che i dati ottenuti dai due gruppi assumano la forma indicata nella figura c. Anche questi evi­ denziano un migliore rendimento del gruppo sperimentale. Ma che cosa hanno di diverso le due distribuzioni? I dati del gruppo sperimentale si presentano ancora più raccolti intorno alla media (presentano cioè una minore dispersione dalla media, un dato che si misura con appositi indici tra i quali il più noto è la deviazione standard 0 sigma). Questo può essere un dato interessante sul piano educativo. Non solo i punteggi sono migliorati nel loro complesso ma si è avuto anche un aumento più rilevante che ha interessato i soggetti che in partenza avevano i punteggi più bassi e che in uscita ottengono punteggi meno distanti da quelli otte­ nuti dai più bravi, (a c)

fig u r a 1 Raffigurazione dei metodi quantitativi

Fonte: adattamento da Ary, Jacobs, Sorensen (2010).

Nelle situazioni concrete è tuttavia molto difficile poter utilizzare gruppi sperimentali e di controllo ottenuti casualmente. Può accadere che si possa disporre di un gruppo di controllo che non è scelto rispettando i criteri ri­ gorosi della casualità; così ad esempio un insegnante che vuole sperimentare l’efficacia di un metodo didattico può semplicemente avere la possibilità di confrontare i risultati ottenuti nelle classi in cui lo ha applicato con altre clas­ si dello stesso livello in cui è stato applicato il metodo tradizionale; in questi casi si parla di metodo “quasi sperimentale”.

In altri casi infine non è possibile neanche avvalersi di un gruppo di controllo e possiamo solo confrontare dati dello stesso gruppo in fase iniziale e in fase

Caratteri della ricerca qualitativa

avanzata; si entra in queste situazioni nell’ambito dei metodi presperimen­ tali; bisognerà allora disporre di criteri di riferimento esterni, come standard nazionali o dati di confronto attinti dai precedenti anni.

Esistono poi altre metodologie quantitative equiparabili per alcuni aspetti all’approccio sperimentale (nel senso che ricercano correlazioni tra la varia­ bile indipendente e quella dipendente), nelle quali tuttavia lo sperimentatore non interviene manipolando direttamente la variabile indipendente; sono situazioni in cui una valutazione statistica di correlazioni reperite “in natu­ ra” permette di supplire all’ impossibilità di un’azione diretta esercitata dallo sperimentatore sulla variabile indipendente. Per fare un esempio, volendo studiare quale relazione esista tra due abilità misurabili attraverso test, un’a­ nalisi statistica correlazionale sarà la soluzione perseguibile. In qualche caso può trattarsi di valutare la dipendenza tra più criteri di riferimento e non correlazioni tra soggetti. Si immagini il caso in cui si tratti di studiare se esiste una relazione tra il fatto di aver frequentato la scuola dell’ infanzia e il profit­ to conseguito alle elementari; in queste situazioni si parla più propriamente di indagini ex post facto.

Le ricerche quantitative infine possono assumere la tipologia più semplice di una survey, cioè di una raccolta informativa di dati, con carattere censitario, se si raccolgono tutti i dati dell’universo oggetto di studio, o campionario, se ci si basa su un campione rappresentativo.

Quanto sopra illustrato può essere schematizzato come nella figura i.

2.3. Metodi qualitativi I metodi qualitativi si ispirano a una varietà di ap­ procci quali l’etnometodologia*, l’ interazionismo simbolico*, l’etnografìa*. La loro enumerazione stessa rimane difficoltosa dato che diverse metodolo­ gie tendono a sovrapporsi e a condividere tratti comuni. Tra le tipologie che si trovano più frequentemente in letteratura predominano i seguenti riferi­ menti: studio interpretativo di base, studio del caso, ricerca azione, analisi di contenuto, etnografia, grounded theory, studio storico, fenomenologico, indagine narrativa (Ary, Jacobs, Sorensen, zoio). La ricerca qualitativa si con­ traddistingue per alcune caratteristiche generali, quali ad esempio (Patton, 1990): indagine senza vincoli e setting prestrutturato (immersione nei detta­ gli, esplorazione aperta, piuttosto che verifica di ipotesi prestabilite), pro­ spettiva olistica (attenzione all’ insieme come superiore della somma delle parti), dati qualitativi (spazio alle prospettive personali ed esperienze dei par­ tecipanti), contatto personale e insight (vicinanza stretta osservatore-osser­ vato), dinamicità e flessibilità di progetto (il cambiamento in itinere è assun­ to come un dato essenziale, disponibilità ad adattare il progetto nel percorso), orientamento all’unicità del caso (i risultati sono visti calati nel contesto). Il ricercatore che si avvale di un approccio qualitativo non parte da una chia­ ra definizione dell’ipotesi con un set di strumenti di indagine predisposti preventivamente all’ intervento, ma si rende disponibile a “immergersi nella

situazione”, la perlustra in lungo e in largo, lasciando che da questa emerga­ no le problematiche salienti rispetto alle quali andrà via via allestendo anche strumenti di valutazione e documentazione. L ’output della sua ricerca sarà affidato prevalentemente a documenti, narrazioni o rapporti di ricerca sul singolo caso.

L ’approccio immersivo nel problema, libero da schemi precostituiti, ha, se­ condo i fautori del qualitativo, il vantaggio di mettere meglio il ricercatore in grado di sintonizzarsi con i problemi significativi, di catturarne il senso più profondo che difficilmente, a loro avviso, potrebbe essere colto da approcci più distaccati e impersonali.

Ricerca azione Nel contesto degli approcci qualitativi due orientamenti ri­

cevono attualmente particolare attenzione, la ricerca azione (per approfon­ dimenti cfr. riquadro 2) e lo studio di casi. Cerchiamo di capire che cosa significa fare ricerca azione, quali sono i suoi elementi qualificanti e i suoi li­ miti. Si tratta, dinanzi a un problema, di applicare una modalità di intervento basata su un’alternanza stretta tra azione e riflessione: si formula una prima ipotesi e si decide il da farsi, si agisce, si riflette sui risultati, si modifica even­ tualmente l’ ipotesi, si agisce di nuovo e così via, in un rapporto circolare che normalmente viene rappresentato graficamente con modelli a spirale. La ri­ cerca azione rimanda dunque a modalità basilari dell’attività conoscitiva dell’uomo, così come essa si presenta dinanzi ai problemi della vita di ogni giorno, è organicamente connaturata con quel circuito esperienza-riflessione che già Dewey individuava come la base di ogni forma di conoscenza; attinge dalla vita quotidiana quello che gli uomini impegnati nella soluzione dei pro­ blemi fanno da sempre, evidenziando alcune modalità essenziali e richia­ mando l’attenzione sulla necessità di creare opportune integrazioni tra fare e pensare, in modo da ottimizzare il frutto dell’esperienza, altrimenti soggetto a dispersione.

In questo contesto la ricerca azione viene poi a connotarsi a seconda degli orientamenti dei diversi ricercatori e si arricchisce di strumentazioni diverse, più o meno aperte o strutturate; acquista grande importanza in modo par­ ticolare per le situazioni in cui appaia utile il coinvolgimento del docente o formatore, come accade in molte forme di innovazione educativa.

Studio d i casi Un’altra metodologia capace di incrociare aspetti della ricer­

ca sperimentale con altri propri delle analisi etnografiche è costituita dallo studio dei casi. Lo studio dei casi affonda le sue origini nella cultura cinese, dove si usavano apologhi fatti seguire da discussioni collettive; rifiorisce all’ i­ nizio di questo secolo nell’ambito delle discipline amministrative e giuridi­ che, sotto forma di esercitazioni forensi.

Che cosa sia un caso rimane un problema aperto: i casi sono situazioni pre­

Nel documento 229 00186 (pagine 137-150)