• Non ci sono risultati.

Spazi simbolici, pratiche discorsive e processi cognitivi L ’ intera vita della classe, e più in generale di qualsiasi gruppo di persone in apprendimento, è

Nel documento 229 00186 (pagine 86-106)

La dimensione attuativa e negoziale

2. L’interazione didattica nelle sue componenti simboliche, cognitive ed epistemologiche

2.1. Spazi simbolici, pratiche discorsive e processi cognitivi L ’ intera vita della classe, e più in generale di qualsiasi gruppo di persone in apprendimento, è

regolata da norme, rituali e procedure, spesso taciti e impliciti, che vanno dai modi di chiedere la parola al comportamento motorio, ai livelli di rumorosi­

tà consentiti (Delamont, 1979). L ’ interazione avviene così in uno spazio sim­

bolico all’ interno del quale si sviluppano ruoli, gesti e parole dando vita a peculiari routine. Una routine sta a indicare quell’ insieme di attività abituali e prevedibili che scandiscono la vita quotidiana, suscitando attese e suggeren­ do schemi di comportamento. Possiamo allora rappresentare la classe come un sistema dotato di un complesso di equilibri interni, di una propria ecolo­ gia. Tali ecologie sono molto diverse; uno stesso insegnante/formatore si vie­ ne così a trovare in contesti per i quali non possono valere le stesse soluzioni. Gli allievi entrano in aula già impegnati in “conversazioni sistemiche”, in un

La mediazione simbolica, cognitiva ed epistemologica L’intelligenza ecologica della classe

Il contratto didattico e i suoi effetti sulle prestazioni cognitive

Le routine educative

gioco sottile di proiezioni e aspettative reciproche, di attese verso sé stessi e verso la realtà che si presenta loro. Si può parlare di “intelligenza ecologica” come opposto dell’ intelligenza tecnicistica (Zambelli, Cherubini, 1999): l’approccio dell’ intelligenza ecologica è distico e sistemico, ci porta a rico­ noscere che le attività cognitive si radicano negli scambi sociali, culturali e pratici; esso ci mostra come il contesto eserciti la sua influenza non solo in forma diretta, ma anche e soprattutto sulla base delle rappresentazioni che l’ individuo si forma di sé, dell’altro e della sua relazione con l ’altro. È impor­ tante allora considerare come i soggetti interpretino la realtà per comprende­ re la dinamica che viene a svilupparsi nelle concrete interazioni educative tra dimensioni simboliche e processi cognitivi.

Un primo riferimento utile a questo scopo, in particolare rispetto alle rappre­ sentazioni che gli studenti hanno della realtà scolastica, è costituito dal concetto di contratto didattico*. L ’espressione è stata introdotta da Guy Brousseau (1980) per indicare l’ insieme dei comportamenti dell’ insegnante che sono atte­ si dall’allievo e l’insieme dei comportamenti dell’allievo che sono attesi dall’in­ segnante; le reciproche aspettative stabiliscono le norme e gli obblighi che rego­ lano le relazioni tra questi due attori. Tra i momenti più significativi del contratto didattico vi è quello della valutazione; esso rappresenta una sorta di cartina di tornasole che attesta il carattere sociale di un episodio come quello dell’interrogazione. Normalmente quando un soggetto rivolge una domanda a un altro per sapere una certa cosa, colui che pone la domanda la formula proprio in virtù del fatto che non conosce la risposta; in classe accade invece esattamen­ te il contrario : chi porge la domanda sa più di chi risponde. A ciò si accompagna una fondamentale asimmetria tra i parlanti tale per cui chi porge la domanda riveste un ruolo la cui autorevolezza non solo è superiore rispetto a quella di colui che risponde, ma orienta anche la risposta. Le ricerche sul contratto didat­ tico mostrano come gli alunni organizzino il loro modo di rispondere sulla base della rappresentazione che essi hanno della realtà scolastica, ivi comprendendo i saperi scolastici, l’insegnante e sé stessi (Carugati, Selleri, 1997).

Altri importanti contributi importanti per comprendere in che modo l’inte­ razione sociale entri in rapporto con i processi cognitivi provengono dagli studi sull’ interazione in classe ispirati all’analisi conversazionale*. Queste ri­ cerche mostrano che gran parte dell’attività discorsiva che caratterizza l’ inte­ razione in classe si basa su catene di domande e risposte, da intendersi come sequenze complementari, in quanto ogni domanda attiva una sorta di obbligo per la risposta. In classe esistono reciproche aspettative di ruolo che, acqui­ stando regolarità, diventano regole di comportamento; tali regole «indirizza­ no i comportamenti sociali dei partecipanti e costituiscono schemi di eventi che organizzano la situazione dal punto di vista cognitivo, poiché lo schema costituisce una rappresentazione del compito previsto dalla routine (cosa si deve fare) e contiene anche le modalità di soluzione del compito (come deve essere fatto ciò che si deve fare)» (Selleri, 2004, p. 65). In questa prospettiva,

assumono un particolare rilievo quelle che in letteratura vengono definite le routine educative (ivi, pp. 68-75), ossia quelle routine che vengono impiegate dall’insegnante come strumento per promuovere l’apprendimento, orientan­ do l’attenzione degli allievi sugli aspetti rilevanti dell’attività didattica. Si trat­ ta di strategie che hanno lo scopo di alimentare e sostenere la tensione cogni­ tiva e il coinvolgimento degli allievi, di suscitare l’ interesse e la curiosità, oppure anche di richiamare l ’attenzione o verificare che gli allievi stiano com­ prendendo. Di solito si svolgono secondo canovacci ricorrenti e vengono scel­ te in base alle visioni pedagogiche dell’ insegnante/formatore, alle rappresen­ tazioni che egli si è costruito rispetto ai propri allievi, al formato didattico dell’attività in corso (più o meno strutturato), ai tempi disponibili e così via. Quali sono queste routine? Quale ruolo svolgono le domande all’ interno delle routine educative più comuni ?

Una prima generale distinzione può essere fatta tra domande chiuse e do­ mande aperte. Le domande chiuse, che tipicamente caratterizzano le interro­ gazioni, sono state oggetto di critiche, in quanto troppo rigide. Esse non so­ no vere domande, non vengono cioè formulate per ottenere un ’ informazione ; come abbiamo già rilevato, chi le pone conosce già la risposta. Se rivolte alla classe, possono tuttavia assumere il significato di una sollecitazione, finalizzata a verificare il grado di attenzione degli allievi e le conoscenze che hanno ac­ quisito su un certo argomento; oppure, con allievi molto giovani, possono essere utilizzate per far emergere le conoscenze già possedute. Si parla in que­ sto caso della routine della domanda con risposta implicita, basata sull’uso di domande retoriche che contengono già la risposta.

Le domande aperte possono svolgere varie funzioni, quali ripassare il pro­ gramma svolto prima di introdurre un argomento nuovo, verificare se gli allievi conoscono il significato di un termine, rispiegare parti poco chiare, aiutare gli allievi ad acquisire consapevolezza delle proprie conoscenze, gui­ darli nella ricerca di risposte.

Tra le domande aperte rientrano quelle che l’ insegnante/formatore pone per sollecitare uno sforzo negli allievi: rispondere, in questi casi, significa com­ pletare la frase, aggiungere la parte mancante. Certi tipi di domande aperte possono essere considerate come “domande legittime” (von Foerster, 1987), ossia quesiti dei quali si ignori veramente la risposta, o meglio domande che presuppongano un atteggiamento capace di accogliere la risposta dell’altro per indirizzarlo verso nuove scoperte.

Come spiega Patrizia Sederi (2004), le domande aperte possono generare diver­ se routine a seconda del grado di ambiguità della domanda o dei suggerimenti forniti dall’ insegnante/formatore nel corso di una discussione in classe.

La routine della domanda ambigua sta a indicare una sequenza che muove da una domanda aperta rivolta alla classe; l’ambiguità della domanda non sta tanto nella formulazione della stessa, ma nel fatto che non vengono offerti suggerimenti o indicazioni sufficienti per le mosse seguenti. Il turno

succes-Domande chiuse us domande aperte La funzione attivante delle domande aperte La domanda ambigua

Il suggerimento e l’allusione La scomposizione del problema Il contributo atteso e ignorato La discussione tra pari

sivo spetta agli allievi, che nel tentativo di ridurre l’ambiguità ricorrono a una forma particolare di risposta indicata come routine per prove ed errori; essa consiste nel fornire risposte brevi o anche incomplete per cercare di ottenere ulteriori suggerimenti. Si innesca una catena di domande e risposte attraverso cui l’ insegnante lascia intendere che esiste un percorso da seguire e gli alunni si muovono cercando di indovinare che cosa l’ insegnante si aspetti da loro. La routine per suggerimento allusivo si riferisce a quegli scambi discorsivi attraverso cui l’ insegnante/formato re fornisce indizi e suggerimenti per gui­ dare gli allievi verso l’argomento principale dell’attività; tali suggerimenti servono per circoscrivere l’ambito delle possibili risposte, evitando di antici­ pare agli allievi ciò che potrebbero dire da soli, ma al tempo stesso cercando di rimanere nei tempi previsti della lezione.

Un’altra routine spesso utilizzata è quella della scomposizione del problema in sottoparti: è una procedura attraverso cui le domande poste dall’ insegnan­ te/ formatore hanno lo scopo di far emergere elementi utili in vista della solu­ zione del problema. Una pratica affine è quella del “gesto interrotto” (Cane­ varo, 1990), che consiste in un’azione lasciata volutamente inconclusa dall’ insegnante per consentire all’allievo di completarla secondo un suo sche­ ma. L ’atteggiamento interrogativo del formatore svolge in questi casi la fun­ zione di condurre gli allievi verso la ricerca di risposte, evitando cosi di fornire soluzioni preconfezionate e lasciando spazi affinché possano emergere per­ corsi più personali.

Altre routine attraverso cui l’ insegnante/formatore guida gli allievi verso la soluzione del problema sono quelle del contributo ignorato e del contributo atteso. In questo caso, non si tratta di domande, ma di comportamenti verba­ li o non verbali attraverso cui l’ insegnante/formatore offre indicazioni sulla pista da seguire: se ad esempio un allievo introduce un nuovo argomento nella discussione e l’ insegnante/formato re lo ignora, ciò sta a significare che l’argomento non è utile per la soluzione del problema; se invece l’ insegnan­ te/formatore richiama l’attenzione della classe su ciò che un allievo sta per dire, la classe si aspetta che il contributo che sta per essere pronunciato possa essere utile ai fini della soluzione del problema.

In ogni caso, fattori molto importanti che influiscono sulla scelta del grado di apertura della domanda sono rappresentati dall’età degli allievi e dal grado di conoscenze di dominio posseduto (cfr. anche quanto detto nel CAP. 2 a proposito del problem solving).

Per quanto riguarda le discussioni di gruppo in contesto scolastico, studi im­ portanti nel nostro paese sono stati condotti da Clotilde Pontecorvo (1999), che in un’ottica contestualista sottolinea come la discussione nelle sue diver­ se modalità di attuazione (guidata dal docente, in piccoli gruppi) rappresen­ ti un dispositivo fondamentale per avvicinare gli studenti alle pratiche di­ scorsive di un certo dominio di conoscenza. In particolare, il lavoro tra pari aumenta il grado di coinvolgimento affettivo e di impegno personale e rende

possibile sperimentare modalità discorsive che favoriscono l’apprendimento, come ad esempio il dialogare formulando ipotesi, valutando alternative, for­ nendo esempi e controesempi (modalità ipotetica), o l’argomentare per le­ gittimare le proprie posizioni o il controargomentare per difendersi dalle obiezioni altrui (modalità oppositiva).

Nella gestione dell’ interazione didattica finalizzata a favorire lo sviluppo di processi cognitivi significativi, una funzione fondamentale è inoltre rivestita dal feedback, che secondo Hattie (2009) costituisce una delle azioni didatti­ che più efficaci. Accanto al feedback dell’ insegnante è importante la risposta successiva dell’allievo: è infatti in questa dinamica che l’ insegnamento/ap- prendimento si rendono visibili. Questo si realizza allorché l’obiettivo risulti chiaramente esplicitato e adeguatamente motivante, quando insegnante e allievo cercano di comprendere che tipo di apprendimento sia stato conse­ guito e quando il feedback reciproco è non solo dato ma anche ricercato.

2.2. Autoefficacia, motivazione, autoregolazione L ’interesse per l’ impatto del­

le rappresentazioni soggettive che lo studente si forma delle proprie capacità/ abilità sulle prestazioni cognitive è stato anche esplorato da prospettive di ri­ cerca attente all’analisi di costrutti quali l’autoefficacia, la motivazione e l ’au­ toregolazione. Il primo a concettualizzare la dimensione psicologica dell’autoefficacia è stato Albert Bandura (1977). L ’autoefficacia non rimanda direttamente alle effettive capacità di controllo che il soggetto è in grado di esercitare sul proprio corso d ’azione, bensì alle credenze che egli nutre circa le proprie capacità di controllo, chiamando in causa l’ immagine che il soggetto possiede della propria capacità di agire, la rappresentazione soggettiva della sua efficacia: « Il senso di autoefficacia corrisponde alle convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre determinati risultati. [...] Le convinzioni di autoefficacia [...] influenzano la scelta del corso di azioni da intraprendere, la quantità di impe­ gno investita in determinate imprese, la durata della perseveranza di fronte a ostacoli o insuccessi, la resilienza di fronte alle avversità» (Bandura, 2001, p. 23). Secondo Bandura, si possono distinguere tre tipi di convinzioni di efficacia rilevanti per lo sviluppo delle competenze cognitive che governano il successo scolastico: le convinzioni degli studenti circa la propria efficacia nel padroneggiare diverse materie scolastiche; le convinzioni dell’ insegnan- te/formatore circa la propria efficacia nel motivare e promuovere l ’apprendi­ mento dei propri studenti; il senso di efficacia collettivo dei membri del cor­ po insegnante rispetto alla capacità dell’ istituzione scolastica in cui operano, di compiere significativi progressi scolastici.

Per quanto riguarda la motivazione, le teorie sociocognitive dell’apprendi­ mento interpretano questo costrutto come una funzione cognitiva dell’ indi­ viduo piuttosto che come un istinto, una necessità o un bisogno (cfr. Maslow, 1954). In generale, si sostiene che la motivazione aumenti i livelli di attività

La rilevanza del feedback

Il concetto di autoefficacia

L’autoregolazione

del soggetto (Maehr, 1984), che lo diriga verso certi fìni/obiettivi (Dweck, Elliot, 1983), che promuova l’ iniziativa e la tenacia (Stipek, 1988) e che in­ fluenzi le strategie di apprendimento e i processi cognitivi che il soggetto mette in atto (Eccles, Wigfield, 1985). Più specificamente, si possono indivi­ duare sei costrutti classificabili in tre famiglie generali (Pintrich, De Groot, 1990): la prima famiglia si riferisce alle percezioni che il soggetto ha circa le proprie abilità di portare a termine un compito; la seconda concerne le ragio­ ni soggettive che inducono a impegnarsi in un compito; la terza si riferisce alle tecniche e alle strategie che il soggetto mette in opera per realizzare un compito e include le procedure autoregolative e le strategie metacognitive. Nel primo caso la motivazione è direttamente legata alle credenze che il sog­ getto possiede circa la propria capacità di svolgere un compito e si lega alla percezione di autoeffìcacia, di cui abbiamo parlato sopra. La motivazione può essere risvegliata dal progressivo potenziamento del senso di autoeffica­ cia secondo un processo a spirale o ricorrente (Polito, 1997).

Un altro aspetto che influenza le percezioni sulle proprie abilità è costitui­ to dalle credenze relative al locus of control, gli individui con locus of control interno credono che i successi e i fallimenti dipendano interamente dai pro­ pri sforzi e dalle proprie abilità, mentre quelli con locus o f control esterno tendono ad attribuire le responsabilità a fattori appunto esterni. Importanti sono inoltre le attribuzioni causali, ossia le percezioni che i soggetti hanno delle cause dei risultati conseguiti. Anche in questo caso si può distinguere tra soggetti che si autopercepiscono come cause dirette dei propri successi o fallimenti e soggetti che tendono a imputare la responsabilità dei propri successi/insuccessi a cause esterne.

Analizzando il costrutto della motivazione dal punto di vista delle ragioni o delle finalità che muovono il soggetto a impegnarsi in un compito, ciò che diventa rilevante è l’obiettivo che egli si propone di raggiungere {goal

orientation) (Locke, Latham, 1990). Gli studenti orientati all’obiettivo di

apprendere cercano di svolgere il compito e di migliorare sé stessi indipen­ dentemente dagli errori che compiono. Il loro obiettivo primario è di acqui­ sire conoscenza e migliorare le proprie abilità. Sono attenti a come vengono giudicati dagli altri (pari, insegnanti, genitori ecc.), vogliono apparire simpa­ tici, “infallibili”. È tuttavia responsabilità anche dell’ insegnante contribuire a incoraggiare gli studenti a valutare come significativa la propria esperienza di apprendimento.

Nella prospettiva dell’ultima famiglia di teorie, le procedure e le strategie che lo studente mette in atto per realizzare un compito costituiscono una com­ ponente centrale della motivazione. In particolare, influiscono su di essa le procedure autoregolative e le strategie cognitive e metacognitive.

L ’autoregolazione è la capacità dello studente di comprendere e controllare il proprio processo di apprendimento. Secondo Barry J. Zimmerman (1994), gli studenti in grado di autoregolarsi possiedono quattro importanti

caratte-ristiche: sono capaci di controllare attivamente il proprio apprendimento impiegando un ampio spettro di strategie cognitive che li aiutano nella co­ struzione dei significati; sono in grado di mettere in atto strategie metaco­ gnitive come la pianificazione e il monitoraggio per controllare i propri progressi verso il conseguimento di obiettivi d ’apprendimento; sono intrin­ secamente motivati, ossia la loro motivazione dipende da fattori quali inte­ resse o curiosità (motivazione intrinseca) piuttosto che da ragioni esterne quali apprezzamento del docente, prospettive di ricompensa ecc. (motivazio­ ne estrinseca); sono focalizzati sul compito e riescono a controllare con faci­ lità le proprie difficoltà emotive.

E in ogni caso compito dell’ insegnante/formatore motivare i propri studen­ ti, da un lato, incoraggiandoli e aiutandoli (anche con la “prossimità affetti­ va”), dando loro fiducia per promuovere la loro autonomia, dall’altro, come

sottolinea Calvani (20 14 ), fornendo informazioni chiare sugli obiettivi, met­

tendoli subito in una situazione che permetta loro di conseguirli, restituendo feedback adeguati in grado di rafforzarne l’autoeffìcacia, approvando o criti­ cando “il fatto” e non “la persona” (cfr. anche infra, p a r. 4.3).

2.3. La trasposizione didattica e la negoziazione dei contenuti È nella relazio­ ne triadica tra insegnate/formatore, oggetto d ’apprendimento e discente che si colloca la fondamentale funzione di mediazione operata dal docente, in particolare in contesto scolastico, fra « la struttura della materia e la strut­ tura del soggetto»: la disciplina da un lato ha una sua propria struttura epi­ stemologica, il soggetto apprendente dall’altro possiede un suo bagaglio cognitivo e una sua struttura mentale; perché possa darsi apprendimento nel soggetto i due sistemi devono poter dialogare (Cerri, Musso, zo o i, p. 74) e a questo livello sono essenziali le trasformazioni e gli adattamenti che i saperi scientifici subiscono per poter essere insegnati. Si parla a tale proposito di trasposizione didattica (t d)* (cfr. riquadro 2). La ricerca si è soffermata negli ultimi anni sulle proprietà specifiche del sapere scolastico, rivendicando una sorta di sua necessaria autonomia rispetto ai saperi sapien­ ti, essendo la funzione di questi ultimi diversa dal primo. I saperi sapienti sono soggetti a varie modificazioni, da quelle esogene dettate dalla società e dalla scienza a quelle che l’ insegnante/formatore mette concretamente in atto nell’ interazione con gli apprendenti. La costruzione dei saperi da inse­ gnare e dei saperi insegnati non si riassume in una semplice riduzione di­

scendente da un sapere sapiente. Il sapere insegnato è una ricostruzione ori­

ginale del sapere sapiente. Questa è necessaria e inerente all’ insegnamento.

Una delle preoccupazioni della didattica consiste allora nello studio delle condizioni della TD, dei suoi limiti, degli scogli da evitare, delle precauzioni da prendere affinché il sapere insegnato non renda impossibile il passaggio ulteriore al sapere sapiente.

I saperi insegnati come ricostruzione originale

r iq u ad ro 2 I contenuti: quali ristrutturazioni?

Qual è il rapporto tra saperi “sapienti”, quelli che la comunità scientifica valida come tali, e saperi insegnati a scuola? Come si ridefinisce il contenuto di una disciplina quando questo deve essere appreso? Quali implicazioni ha sul piano epistemologico questa trasformazione cui i saperi sono soggetti?

È soprattutto dalla didattica delle discipline che viene un richiamo a riflettere intorno a que­ sti interrogativi. La negoziazione che si svolge nell’interazione della didattica viva riguarda infatti anche i contenuti stessi di conoscenza. Che cosa accade a questi contenuti? È evidente che essi non mantengono la stessa forma che assumono a livello del sapere specialistico; man mano che si scende verso alunni più giovani devono inevitabilmente subire un processo di trasformazione, in modo da trovare un ragionevole punto di incontro con le preconoscenze e le strutture cognitive dell’allievo.

Che cosa si sa di questo processo e delle modalità con cui si realizza? Si incontra qui un interessante campo di ricerca, sviluppato soprattutto nella tradizione francese, quello della trasposizione didattica. Il dibattito intorno a questo concetto è nato in ambito sociologico intorno alla metà degli anni Settanta (Verret, 1975). ma ha conosciuto la sua fortuna succes­ sivamente a partire dalla metà degli anni Ottanta con i lavori di Yves Chevallard (1985; 1994). Questo autore definisce la t din questi termini: «Un contenuto di sapere che è stato designato

Nel documento 229 00186 (pagine 86-106)